Gallipoli, fallisce il tentativo di far uscire la Turchia dalla guerra

Gallipoli fu il primo esempio di invasione dal mare dei tempi moderni. Singolarmente, per gli attaccanti, tutto andò male ad eccezione della ritirata – sempre via mare – quando fu evidente che l’intera operazione era fallita. Ma fu anche l’occasione che mise in gran risalto le capacità di Mustafà Kemal: il trentaquattrenne ufficiale si guadagnò ampiamente il titolo di "Salvatore di Gallipoli".

Fu, anche, una inutile e devastante carneficina, da entrambe le parti. La Grande Guerra era già abbastanza moderna per pensare a strategie mondiali, utilizzare strumenti tecnici sofisticati, coinvolgere masse di uomini. Ma non ancora abbastanza scientifica per abbandonare la logica degli assalti frontali, con fiumane di fanti mandati inutilmente allo sbaraglio, ondata dopo ondata, contro trincee fortificate. Soprattutto gli alleati – soldati coraggiosi e decisi, al pari dei turchi – erano comandati da alti ufficiali indecisi, incerti, senza fantasia ed ostinati all’assalto alla baionetta. Il numero fa potenza, si pensava ancora. Gallipoli dimostrò il contrario, ma sul momento furono davvero in pochi a capirlo.

Il Kaiser Guglielmo II con il Sultano

La Turchia entrò in guerra dopo una lunga schermaglia diplomatica tra inglesi e tedeschi. La Gran Bretagna commise l’errore di sequestrare due corazzate del tipo "dreadnought", la Sultano Oman I e la Reshadieh appena costruite nei cantieri inglesi per la Marina turca. In Turchia, l’indignazione fu enorme perché i soldi per le due unità erano stati raccolti con una grande sottoscrizione popolare, alla quale avevano partecipato anche le classi più povere del Paese. I tedeschi approfittarono dell’incidente: inviarono a Costantinopoli il nuovissimo incrociatore da battaglia Goeben e l’incrociatore leggero Breslau. Il 29 e 30 ottobre 1914 le due navi tedesche, con altri vascelli turchi, bombardarono le postazioni russe sulle coste del Mar Nero.

La Turchia aveva fatto la sua scelta di campo: e il 31 ottobre 1914, Gran Bretagna, Francia e Russia le dichiararono guerra. All’inizio del 1915, in Europa, lo scontro si era già infilato in una situazione di stallo, tra sanguinosissime ed inutili battaglie di trincea. La Russia aveva pagato prezzi altissimi, sul fronte orientale, nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri, e chiese agli alleati un intervento che alleviasse la pressione. Fu Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, ad indicare i Dardanelli. Lo Stretto costituiva – attraverso il Mar di Marmara e il Mar Nero – lo sbocco dei russi nel Mediterraneo: di lì passava la metà del traffico commerciale, e i nove decimi delle esportazioni russe di grano.

Il controllo dei Dardanelli era dunque il rubinetto per i rifornimenti dell’alleato russo. Inoltre, la Turchia aveva due sole fabbriche di munizioni, sulla costa presso Costantinopoli, che sarebbero state a tiro dei cannoni di una flotta che avesse forzato lo stretto. L’Inghilterra ci provò due volte: il 19 febbraio e il 18 marzo, le navi tentarono di passare il canale. I campi minati e le artiglierie turche ebbero la meglio, affondarono tre navi da battaglia e costringendone altre tre a lunghe riparazioni. Si decise per l’invio dell’esercito.

Il corpo di spedizione fu affidato al comando del generale Ian Hamilton, uno scozzese di 62 anni che aveva prestato servizio in India e nella guerra boera. Lo sbarco denunciò subito le incapacità organizzative: confusione logistica, indecisioni operative, collegamenti inefficaci. Halmiton scelse sei punti per lo sbarco dei suoi 80 mila uomini, più due azioni diversive, per ingannare Otto Liman von Sanders, il sessantenne ufficiale tedesco che aveva il comando a Gallipoli. Il 25 aprile, i soldati australiani e neozelandesi dell’Australian & New Zealand Army Corpos (ANZAC) scoprirono immediatamente che l’area dell’Ari Burnu non aveva spiagge di facile accesso ma solo scogliere e burroni impraticabili.

Oggi è chiaro che l’intera operazione fu decisa proprio lì: il genio militare di Mustafà Kemal comprese che il possesso di Monte Chunuk Bair e del crinale Sari Bair era determinante per il controllo dell’intera penisola. Ignorando gli ordini superiori, Kemal portò tutte le truppe possibili sul Chunuk Bair e sul crinale e tenne le posizioni: gli inglesi, nonostante i loro sforzi, non sarebbero mai più riusciti ad andare avanti.

Gli sbarchi sulla penisola di Gallipoli

Nelle altre zone di sbarco, intorno a Capo Helles, regnò subito la confusione: grandissimo coraggio degli attaccanti, nonostante le forti perdite inflitte dall’ostinata determinazione dei turchi. Il 26 mattina, gli inglesi erano riusciti a portare a terra circa 30 mila uomini. Il problema era che questi erano stati praticamente bloccati sul litorale, in una fascia di un paio di chilometri dalle spiagge, con pochi viveri e scarse munizioni. Agli australiani – che nei primi tre giorni avevano perso 4.500 uomini – fu dato l’ordine di "scavare, scavare, ancora scavare". E questo, in definitiva, fu il motivo di fondo dell’intera campagna: soldati costretti nelle trincee – in alcuni casi solo 5 metri dividevano i due fronti – sotto il fuoco delle artiglierie, con poca acqua e nugoli di mosche: "mosche di cadaveri", che portavano il pericolo delle malattie dai corpi insepolti ai militari in trincea.

Per il resto è una sequela di assalti tentati con scarso successo: due volte a Krithia, per tentare di impossessarsi dell’altopiano di Achi Baba, dove l’8 maggio gli inglesi avevano conquistato poco più di 600 metri, a prezzo di 6.500 morti. I turchi contrattaccarono, insistentemente, nella zona di Anzac, con coraggio e determinazione. Il 19 maggio, per esempio, 30 mila uomini assaltarono ripetutamente il centro delle postazioni australiane. I turchi persero 10 mila uomini, contro i 100 morti e i 500 feriti dell’ANZAC. Gli australiani – scanzonati, indisciplinati ma testardi e coraggiosi – costruirono lì la loro fama di grandi soldati. E, mano a mano che passavano i giorni, cominciarono a riconoscere nel soldato turco un avversario degno di loro: fino a dichiarare pubblicamente che "Johnny Turk" o "Abdul" non era un selvaggio primitivo, come diceva la propaganda alleata, ma "un bravo e corretto combattente".

Il 4 giugno, muovendo dalle postazioni di Capo Helles, 30 mila inglesi tentarono di nuovo l’assalto a Krithia, difesa da 28 mila turchi. Assalto lanciato in pieno giorno, contro le trincee: nuovo fallimento, 4.000 morti. Devastanti anche le perdite turche. Giugno e luglio passarono in trincea, mentre la dissenteria aggiungeva le sue vittime a quelle dei cecchini e degli assalti locali, ostinati ed inutili. Tra sete, caldo, odore di morte – un po’ ovunque c’erano cadaveri in putrefazione e tormento delle mosche, le truppe conservano intatto un alto morale: da entrambe le parti, questa snervante battaglia cominciava ad assumere i toni dell’epopea.

All’inizio di agosto, gli inglesi decisero di riprendere l’iniziativa. Dopo aver rinforzato gli effettivi, il 6 attaccarono contemporaneamente sul fronte di Capo Helles e nella zona ANZAC, per la conquista di Sari Bair. Lo scopo era quello di coprire un nuovo sbarco, nella baia di Sulva. A Sari Bair e sul Monte Chunuk, gli australiani furono ad un passo dallo sfondamento: ma il 9 agosto, Kemal lanciò una controffensiva, perse 5.000 uomini e riprese le posizioni. Tra il 6 e il 10 agosto, l’ANZAC aveva perso 12 mila uomini. A Sulva, intanto, 1.500 turchi al comando del maggiore bavarese Wilmer erano riusciti a bloccare sulla spiaggia 25 mila uomini del generale Sir Frederick Stopford, più contento di essere sceso a riva che determinato a spingersi oltre.

Sempre tra il 6 e il 10 agosto, von Sanders riuscì a rinforzare Wilmer, mentre Stopford si preoccupava di fortificare le spiagge. Risultato: le colline che dominavano la baia di Sulva rimasero saldamente in mano turca e i generali inglesi, indecisi e distratti, avevano perso la loro ultima occasione. Si tornò alla terribile vita di trincea. In ottobre, il comandante in capo Hamilton chiese altre forze per condurre una battaglia che finora aveva distrutto uomini e risorse senza alcun vantaggio. Fu sollevato dal comando e sostituito dal generale Monro, convinto che l’unica soluzione possibile fosse andarsene da Gallipoli.

La ritirata fu la sola cosa che gli inglesi fecero con vero successo. Tra il 18 e il 19 settembre, a scaglioni e con accorta copertura, 80 mila uomini e tutto il materiale fu evacuato dalla zona ANZAC e dalla baia di Sulva, al prezzo di due soli feriti. Il 9 gennaio 1916, i 19 mila soldati dalla Zona di capo Helles – sempre di notte, sempre in silenzio, sempre con il massimo ordine – abbandonarono Gallipoli senza alcuna perdita.

Gli alleati lasciarono sul terreno 25.000 britannici, 10.000 francesi, 7.300 australiani, 2.400 neozelandesi e 1.700 indiani. Tra morti e feriti, le perdite complessive assommarono a 250.000 uomini: la metà del mezzo milione di soldati inviato a Gallipoli. I turchi ebbero quasi 100 mila morti e oltre 150 mila feriti. Il comando inglese fu debole, quasi distratto – Hamilton non si presentò mai al fronte, comandava da una nave al largo – oltre che incerto sugli obiettivi tattici e impreparato alle necessità logistiche. L’esercito turco fu ben guidato da von Sanders e dall’"Atatürk" Kemal, sempre in trincea e spesso esposti in prima persona ai pericoli della battaglia.

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