a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
C
Caduta tendenziale del saggio di profitto, Capitale, Capitale commerciale, Capitale costante e capitale variabile, Capitale finanziario, Capitale fisso e circolante, Capitalismo, Capitalismo di Stato, Capitalismo monopolistico, Cartello o trust, Categorie economiche, Centralismo democratico, Centralizzazione del capitale, Ceto, Circolazione, Città e campagna, Classe, Coesistenza pacifica, Collettivismo, Colonialismo, Composizione organica del capitale, Compromesso storico, Comunismo, Concentrazione del capitale, Concorrenza, Concreto e astratto, Contraddizione, Controrivoluzione, Cooperativismo, Cooperazione, Corporativismo, Coscienza di classe, Cosmopolitismo, Costituzione, Crisi economica, Cultura
Caduta tendenziale del saggio di profitto
Il capitale è una determinata quantità di
denaro che è in grado di diventare, ed effettivamente diventa, alla fine di un
«ciclo» del processo di produzione e circolazione, più denaro di quanto non
fosse all'inizio di questo ciclo.
Analogamente i mezzi di produzione sono capitale solo se il loro uso accresce
il valore complessivo che il proprietario di questi mezzi possiede. Infatti il
capitale è valore che possiede la particolare
caratteristica di aumentare la propria grandezza, cioè di essere in grado di
aggiungere a se stesso un plusvalore, di
valorizzarsi nel corso del processo di produzione e circolazione delle merci. Questo
«particolare tipo di valore può svilupparsi in tutte le sue forme» fino a
diventare, attraverso la classe che ne detiene il possesso, una «potenza
sociale» che domina e caratterizza l'intero modo di produzione e la società nel
suo complesso solo quando si sia verificato, nelle sue linee generali, il
processo storico di separazione dei lavoratori dalla proprietà privata delle
loro condizioni di lavoro e di sussistenza.
L'analisi marxista del capitale mette in rilievo che i mezzi di produzione, anche lo stesso denaro, così come le merci, diventano questo
«particolare tipo» di valore solo a un certo grado di sviluppo della società,
cioè solo da quando la proprietà di grandi quantità di denaro, di merci, di
mezzi di produzione e in generale delle «condizioni di lavoro», è diventata
prerogativa esclusiva di una «parte della società» e un'altra parte della
società è risultata completamente priva della possibilità di produrre e di
ottenere i mezzi necessari alla sussistenza se non applicando la propria forza-lavoro a mezzi di produzione che,
appunto, non sono in suo possesso. Marx, nell'affrontare il problema di quali
siano le effettive fonti di reddito afferma:
«Ma il capitale non
è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente
ad una determinata formazione storica della società. Rapporto che si presenta
in una cosa e dà a questa cosa un carattere sociale specifico. Il capitale non
è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti. Il capitale è
costituito dai mezzi di produzione trasformati in capitale, che non sono di per
sé capitale, come oro e argento non sono di per sé denaro. Il capitale è
costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della
società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi
autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa
contrapposizione personificati nel capitale» (Il Capitale, libro III, pagine 927-28).
L'origine effettiva del suo continuo
accrescersi, che è il modo stesso di esistere del capitale, è, proprio per la
sua natura di «autovalorizzazione», mistificata, nascosta, dall'insieme dei
rapporti di produzione, di riproduzione e circolazione del capitale, e dalle
molteplici «forme» che il capitale assume, sia nei diversi ambiti della
produzione e circolazione, che nelle diverse fasi storiche del suo sviluppo, al
punto tale da apparire agli studiosi dell'economia politica che, sia pure in
diversa misura, in qualche modo si mettono dal punto di vista capitalistico,
come una «qualità innata» del capitale stesso, indipendente dal modo di
produzione. Gli studi condotti da Marx ne Il Capitale capovolgono questo punto di vista e riconducono,
attraverso un'analisi dettagliata delle diverse forme assunte storicamente dal
capitale, e delle diverse «sfere» in cui esso opera, il problema dell'analisi
del capitale all'«unità del processo di produzione e di circolazione che rende
in un periodo determinato un plusvalore determinato». E, esaminando il processo
di trasformazione del denaro in capitale, Marx osserva che:
«Per estrarre valore
dal consumo d'una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe essere tanto
fortunato da scoprire, all'interno
della sfera della circolazione, cioè
sul mercato, una merce il cui valore
d'uso stesso possedesse la peculiare qualità d'esser fonte di valore, tale dunque che il
suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione
di lavoro, e quindi creazione
di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro» (ivi, libro I, pp. 199-200).
Si può infatti affermare, prescindendo dalla
complessità della trattazione di Marx, che il capitale, in generale, trae
origine e sviluppo dallo sfruttamento inteso soprattutto come appropriazione di
pluslavoro (Plusvalore) non retribuito; ciò
appare immediatamente e, in un certo senso, in modo evidente dal punto di vista
marxista, nel capitale industriale, come applicazione del lavoro salariato ai
mezzi di produzione di proprietà del capitalista, nel capitale commerciale attraverso il
complesso processo di circolazione delle merci che fa apparire questa «forma»
del capitale come indipendente dal pluslavoro, mentre secondo l'analisi di
Marx, anche in esso si verifica, sia pure attraverso particolari mediazioni,
«…quel determinato rapporto sociale in cui il lavoro passato si contrappone in
modo autonomo e preponderante al lavoro vivo».
Analogamente, lo stesso capitale monetario cioè il denaro produttivo di
interesse che è, anche storicamente, è la forma con cui ogni capitale
individuale compare sulla scena, inizia il suo «processo in quanto capitale»;
nell'economia politica borghese, si presenta come totalmente separato dal
processo produttivo, ma nell'analisi marxiana viene interpretato come la forma
più mistificata e al tempo stesso più significativa, se considerata
correttamente, del rapporto capitalistico. Mettendo in rilievo le differenze
tra il denaro, così come esso si presentava nelle epoche precedenti al
capitalismo, e il capitale vero e proprio, Marx afferma:
«Ma per il capitale la cosa è differente. Le sue
condizioni storiche d'esistenza
non sono affatto date di per se stesse con la circolazione delle merci e del
denaro, Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di
sussistenza trova sul mercato il libero
lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende
tutta una storia universale. Quindi il capitale
annuncia fin da principio un'epoca
del processo sociale di produzione» (ivi,
libro I,pp. 202-203).
Secondo il marxismo, tuttavia, quest'epoca sviluppa le capacità produttive
dell'umanità in una misura che sarebbe stata irrealizzabile senza la forza di
concentrazione e organizzazione del lavoro che è caratteristica del processo di
sviluppo del capitale, ponendo così le basi materiali per il suo stesso
superamento (Dialettica), che consiste,
essenzialmente, nel superamento delle condizioni che mantengono i mezzi di
produzione e le merci nella forma di capitale.
E' la forma più antica di capitale ed è
esistita molto prima del modo di produzione capitalistico; cominciò ad assumere
proporzioni sempre maggiori quando si svilupparono gli scambi con terre lontane
sostenuti principalmente dal traffico marittimo e carovaniero. L'antico Egitto,
la Grecia e Roma furono le sedi più importanti di queste attività che permisero
di accumulare ingenti ricchezze; nel medioevo i centri nevralgici del commercio
furono spostati verso altre aree; gli interessi gravitarono intorno ad altri
prodotti, ma il processo di accumulazione
continuò in modo abbastanza simile a quello dell'antichità.
Una delle conseguenze del capitalismo commerciale fu quella di indirizzare la
produzione verso il valore di scambio e di
accrescerne quindi il volume; di più, dato il carattere internazionale del
commercio, diede al denaro la funzione di moneta valida in tutto il mondo. Denaro e
commercio indebolirono gradualmente la struttura della vecchia società creando
situazioni e problemi che questa non era in grado di risolvere.
Da notare che il capitalismo commerciale antico e medioevale controllava la
produzione: si limitava a comperare il prodotto dove era reperibile a prezzo
conveniente e a rivenderlo dove era richiesto e pagato a un prezzo più alto (Circolazione del denaro); il presupposto di
questa operazione era l'esistenza di popolazioni meno progredite, senza
informazioni sul prezzo pagato in altre sedi per il loro prodotto. La
contraddizione del capitalismo commerciale (o mercantile) antico era nel fatto
che man mano che crescevano i rapporti con quelle popolazioni più arretrate
queste ricevevano un impulso al progresso e la loro ignoranza dei prezzi
diminuiva; nel corso della sua stessa attività il capitale mercantile creava
dunque le condizioni della sua fine.
Il capitale commerciale moderno ha tratti molto diversi da quelli del vecchio
capitale mercantile: in primo luogo perché opera in un periodo dominato dal
modo di produzione capitalistico all'interno del quale svolge una funzione
specializzata, attuando tutte le operazioni di distribuzione delle merci che
per vari motivi non convengono alle industrie produttrici.
Il capitale commerciale moderno ottiene in questo modo un'aliquota del
plusvalore complessivo prodotto nell'industria: questa a sua volta trova il
proprio interesse nella maggior rapidità che le operazioni in cui è
specializzato il capitale commerciale imprimono alla vendita delle merci.
Al pari del vecchio capitale mercantile il capitale commerciale moderno non
produce nuovo valore: la ricchezza globale della società non viene accresciuta;
nel primo caso si trattava del trasferimento di una parte delle ricchezze
esistenti da chi le possedeva in origine ad altri; nel secondo caso di una
partecipazione alla ripartizione del plusvalore complessivo.
Capitale costante e capitale variabile
Il capitale costante è, dal punto di vista del valore, il valore dei mezzi di produzione e, dal punto di vista materiale, l'insieme dei mezzi di produzione, cioè mezzi di lavoro, materie prime, materie ausiliarie, ecc. Il capitale variabile è, dal punto di vista del valore, il valore della forza-lavoro, cioè la somma complessiva dei salari, e, dal punto di vista materiale, la quantità di lavoro necessaria per l'uso dei mezzi di produzione. Marx stabilì, attraverso lo studio delle leggi generali dell'accumulazione capitalistica, il rapporto in cui il capitale costante e il capitale variabile si trovano nel processo di sviluppo del modo di produzione capitalistico, analizzando il progressivo accrescersi di questo rapporto, all'interno della composizione organica del capitale.
E' la forma di capitale, o di capitalismo, che si sviluppa e opera attraverso
la concentrazione e la centralizzazione
di grandi quantità di denaro il cui impiego e la cui destinazione godono di una
relativa indipendenza dal capitale industriale; il termine non deve essere
confuso né con capitale commerciale
né con capitale monetario:
quest'ultimo, infatti, indica semplicemente un capitale, nel senso di somma di
denaro, che produce interesse.
Marx, dopo avere esposto il superamento del capitalismo mercantile ad opera del
capitalismo industriale, accennava già al potere sempre maggiore che avrebbero
avuto nel futuro i centri direttivi delle operazioni finanziarie (credito,
investimenti, ecc.). A sua volta Engels sottolineava, nel 1891, che la
produzione da parte di singoli imprenditori stava diventando sempre più un
fatto eccezionale, che in suo luogo si diffondevano le società per azioni forme cioè di
«produzione associata e condotta per conto di più persone», che nei trust non esisteva più una produzione
privata nel senso stretto del termine. Ciò non toglieva, ovviamente, la
perpetuazione del dominio di classe attraverso i monopoli,
la produzione per il profitto, lo sfruttamento dei lavoratori. Dopo studi
parziali compiuti dall'economista inglese J .A. Hobson e da Rosa Luxemburg, è
nella più nota opera di Rudolf Hilferding che il capitale finanziario viene
definito con notevole precisione; la sua nascita è legata al processo di
concentrazione che le banche avviano per non essere subordinate ai trust sempre
più potenti; il suo sviluppo conduce al «capitale unificato»:
«I settori del
capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti
sotto la direzione comune dell'alta finanza, nella quale i signori delle
industrie e delle banche sono uniti da intimi legami personali. Questa stessa
unificazione ha come base il superamento della libera concorrenza dei singoli
capitalisti per effetto del sorgere di grandi unioni monopolistiche; con ciò
cambia anche la natura del rapporto della classe dei capitalisti con il potere
statale» (Il capitale finanziario,
p. 393).
Lenin, che nel corso dei suoi studi sull'imperialismo,
considerò attentamente l'opera di Hilferding pubblicata nel 1910, indicò nel
capitale finanziario uno dei caratteri distintivi dello stadio monopolistico
del capitalismo. Tipiche manifestazioni del capitale finanziario sono le holding, cioè le compagnie
finanziarie che possiedono le azioni di un gran numero di banche e di imprese
industriali e commerciali e ne controllano quindi le attività influendo
pesantemente su ogni decisione di politica economica.
Le forme assunte dal valore che si presenta sotto forma di capitale sono
molteplici. Tra le forme «reali» assunte dal capitale durante la sua «rotazione», quella che ha avuto maggior
importanza, dal punto di vista della contabilità del capitalista, è la
distinzione tra capitale fisso e capitale circolante. Il capitale fisso è
costituito da: edifici, impianti, macchine e tutti quegli elementi che
partecipano a più cicli produttivi, cedendo a ognuno di essi solo una parte del
loro valore.
Viene invece considerato capitale circolante l'insieme di ciò che l'economia
politica borghese chiama «fattori di produzione» che vengono consumati
interamente in ogni ciclo produttivo; esso cioè trasmette interamente e una
sola volta il suo valore alla produzione. Il capitale circolante è costituito
essenzialmente da materie prime e da salari.
L'importanza che tale distinzione ha assunto per gli economisti borghesi è
dovuta al fatto che il capitalista è vincolato ai diversi periodi di rotazione
del capitale, deve quindi studiare continuamente come ripartire il suo capitale
tra i diversi fattori di produzione per avere il massimo profitto. Tale visuale
del capitalista, tesa a ottenere il massimo profitto, occulta l'importanza ben
più grande della distinzione tra capitale costante e capitale variabile.
E' il periodo storico in cui si sviluppa
il modo di produzione capitalistico. Il
concetto di capitalismo è in generale riferito a tutta la società e, più di
altri, ha avuto una grande diffusione nella cultura non marxista e ha assunto
un grande numero di significati e di sfumature che spesso modificano o
addirittura contraddicono il significato del concetto e dell'analisi marxista
del capitalismo; ad esempio si trova spesso nella cultura borghese come
sinonimo di «società industriale», «società dei consumi» ecc.
Il marxismo interpreta il capitalismo dal punto di vista dell'analisi
scientifica del modo di produzione capitalistico, poiché, secondo la concezione
materialistica della storia (Materialismo
storico), ogni società può essere conosciuta per quello che è solo
analizzando il fondamento reale su cui si sviluppa. Separare il concetto di
capitalismo dall'analisi del modo di produzione capitalistico, o addirittura
definire il capitalismo indipendentemente da questa analisi, porta a non
comprendere il significato del termine dal punto di vista marxista.
L'analisi del modo di produzione capitalistico e, più in generale del
capitalismo, non è riassumibile nello spazio di una definizione, poiché, nel
pensiero marxista, essa riguarda tutti gli aspetti essenziali e i processi
fondamentali di sviluppo di un periodo storico che ha avuto origine
sistematicamente e nella sua forma classica in Inghilterra nel XVII secolo e
che perdura tuttora in molti paesi del mondo (Rivoluzione industriale). Il
capitalismo, tuttavia, si distingue dai periodi storici in cui sono prevalenti
altri modi di produzione, per esempio il feudalesimo o le società primitive,
per almeno due caratteristiche specifiche. Secondo Marx, in primo luogo:
«Esso (il modo di
produzione capitalistico) produce i suoi prodotti come merci. Il produrre merci
non lo distingue dagli altri modi di produzione, lo distingue invece il fatto
che il carattere prevalente e determinante del suo prodotto è quello di essere
merce. Ciò implica, in primo luogo, che l'operaio stesso si presenta unicamente
nella veste di venditore di merci, quindi di libero lavoratore salariato, così
che il lavoro in generale si presenta come lavoro salariato... il rapporto tra
capitale e lavoro salariato determina tutto il carattere del modo di produzione.
I principali agenti di questo modo di produzione stesso, il capitalista e il
lavoratore salariato, sono in quanto tali, semplicemente incarnazione,
personificazione del capitale e del lavoro salariato, sono caratteri sociali
determinati, che il processo di produzione sociale imprime agli individui, sono
prodotti di questi determinati rapporti sociali di produzione. Il secondo
tratto caratteristico, che contraddistingue specificamente il modo di
produzione capitalistico è la produzione di plusvalore
come scopo diretto e motivo determinante della produzione. Il capitale produce
capitale e fa ciò solamente nella misura in cui produce plusvalore» (Il Capitale, libro III, pp. 997-9).
Il capitalismo è, dunque, il risultato di un processo storico (Accumulazione originaria) che ha
determinato il costituirsi da un lato di una classe di proprietari di mezzi di
produzione e dall'altro di una classe di «venditori di forza-lavoro».
Lo sviluppo ulteriore del processo di accumulazione, il generalizzarsi e
l'estendersi di questo «modo di produrre», della «libera» concorrenza tra i possessori di merci e la
conseguente concentrazione delle ricchezze in poche mani, hanno modificato
tutti i rapporti sociali, influenzando e in un certo senso determinando anche
l'attività degli uomini che sono inseriti in questi rapporti di produzione.
Il capitalismo è l'uniformarsi di tutta la società alla produzione di
plusvalore, cioè è il prevalere delle esigenze di sviluppo e riproduzione del
capitale sul carattere sociale della produzione e sui bisogni sociali dei
produttori. Da questo punto di vista il capitalismo può anche essere definito come
la manifestazione, all'interno di tutta la società, della contraddizione tra il carattere sociale
della produzione e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Questa
contraddizione investe tutti gli aspetti della vita umana nel regime
capitalistico, determinando anche i rapporti di distribuzione e, in generale,
produce quei fenomeni di disgregazione dei rapporti sociali che sono
caratteristici della «società industriale moderna» (Alienazione e Reificazione).
Anche se con caratteristiche diverse in ogni paese, il capitalismo fin dai
primi anni dell'Ottocento ha prodotto una divisione
e specializzazione del lavoro molto più rigida e determinata che nelle
epoche precedenti, o nei paesi in cui non si era ancora pienamente sviluppato
il modo di produzione capitalistico, che ha necessariamente condotto alla
formazione di «ruoli» specifici e settoriali in cui ogni individuo si trova
inserito, in massima parte indipendentemente dalla sua volontà, per tutto il
corso della sua vita.
Inoltre, in generale, nelle società capitalistiche si è ben presto manifestata
la tendenza allo sviluppo delle attività produttive che permettono la
realizzazione di maggiori profitti, per esempio l'industria pesante o la
costruzione di materiale bellico, a scapito dell'utilizzazione della
forza-lavoro in altri settori vitali della produzione, come per esempio
l'agricoltura. Ciò è stato ed è tuttora uno dei principali motivi del
verificarsi di gravi crisi che provocano, ogni volta, la distruzione di enormi
forze produttive.
Il capitalismo, infine, nelle sue diverse fasi (Concorrenza
e Capitalismo monopolistico)
può essere considerato come l'epoca storica in cui il grande sviluppo delle
capacità umane di trasformare la natura - basti pensare alla scienza che, nella sua
applicazione ai processi produttivi, diventa essa stessa una grande forza
produttiva - determina le condizioni materiali per la realizzazione della
società senza classi (Comunismo).
Secondo la concezione marxista, è
l'intervento diretto dello Stato nell'organizzazione della produzione e della
distribuzione dei prodotti. E' il progressivo sostituirsi al singolo
capitalista dello Stato come imprenditore diretto. Il grande sviluppo della
produzione industriale e delle tecniche di controllo centralizzato della
produzione e della distribuzione che l'intervento dello Stato permette di
realizzare è una delle caratteristiche tipiche del capitalismo di Stato.
Lenin afferma che esso è: «... la preparazione materiale più completa del socialismo, la sua anticamera, quel gradino della scala
storica che nessun gradino intermedio
separa dal gradino chiamato socialismo». In questo senso egli riteneva che, nel
maggio del 1918, nelle condizioni di grave arretratezza economica in cui
versava la Russia sovietica nel suo primo anno di vita, il capitalismo di Stato
fosse un passaggio necessario per la vittoria definitiva del socialismo.
«Per chiarire ancor
meglio la questione, citiamo anzitutto un esempio estremamente concreto di
capitalismo di Stato. Tutti sanno qual è questo esempio: la Germania. Qui
abbiamo l'"ultima parola" della grande tecnica capitalistica moderna
e dell'organizzazione sistematica al
servizio dell'imperialismo dei borghesi e degli junker. Cancellate le
parole sottolineate, mettete al posto dello Stato militare, dello Stato degli
junker, borghese e imperialista, un
altro Stato, ma uno Stato di tipo sociale diverso, di diverso contenuto
di classe, lo Stato sovietico,
cioè proletario, e ottenete tutta la somma delle condizioni che dà il
socialismo» (Lenin, Sull'infantilismo
di sinistra, Opere scelte, vol. unico, p. 456).
Lo scoppio della guerra civile ritardò la
realizzazione di questo progetto che venne tuttavia ripreso e sviluppato negli
anni della NEP.
E' la fase di sviluppo del capitalismo in cui alla «libera concorrenza»
(Concorrenza) dei singoli capitalisti
subentra la lotta di grandi monopoli per la conquista dei mercati e
l'accaparramento delle materie prime.
L'analisi marxista del capitalismo monopolistico definisce questa fase come il
risultato del rapidissimo processo di concentrazione della produzione in
imprese sempre più ampie, che si è verificato, per limitarsi alle più grandi
nazioni europee, a cominciare dagli ultimi 30 anni del secolo scorso, fino a
diventare, dall'inizio del Novecento, l'elemento caratteristico di tutto il modo di produzione. Questo processo,
accanto a quello ad esso collegato del progressivo dominio del capitale finanziario nei confronti
delle altre forme storicamente assunte dal capitale, ha determinato la
formazione dell'imperialismo moderno. Il
capitalismo monopolistico si è sviluppato anche in seguito alle «crisi di
sovrapproduzione» determinate dallo sviluppo irrazionale della produzione ed è
stato interpretato come una risposta, un superamento definitivo di queste
crisi. Effettivamente, secondo Lenin,
«… le crisi di ogni
specie, e principalmente quelle di natura economica - sebbene non queste sole -
rafforzano grandemente la tendenza alla concentrazione e al monopolio»,
tuttavia «Che i cartelli eliminino le crisi è una leggenda degli economisti
borghesi, desiderosi di giustificare ad ogni costo il capitalismo. Al
contrario, il monopolio, sorto in alcuni
rami d'industria, accresce e intensifica il caos, che è proprio dell'intera produzione capitalistica nella
sua totalità. Si accresce ancor più la sproporzione tra lo sviluppo
dell'agricoltura e quello dell'industria, che è una caratteristica generale del
capitalismo» (Lenin, Imperialismo fase
suprema del capitalismo, Opere scelte, vol. unico, pp. 185-186).
Nel capitalismo monopolistico la concorrenza tra i grandi monopoli, che permane
come caratteristica generale, assume da un lato un carattere sempre più
internazionale e dall'altro investe in misura determinante e sempre più
direttamente, attraverso la nuova funzione che le banche e gli organismi
finanziari di Stato vengono ad assumere, l'intera società.
Il capitalismo monopolistico di Stato
è infatti la partecipazione diretta dello Stato alla formazione e alla
direzione dei monopoli che toglie definitivamente, secondo l'interpretazione
marxista, anche quella parvenza di neutralità e di indifferenza dello Stato nei
confronti della gestione dell'economia, che fu teorizzata dagli economisti
«liberisti» nella prima fase del capitalismo.
Il capitalismo monopolistico, che è secondo Lenin «la natura economica
dell'imperialismo», ha determinato l'estensione, a livello mondiale, delle
contraddizioni del capitalismo, la dipendenza dal dominio del capitale
finanziario di tutte le istituzioni economiche e politiche della moderna
società borghese, e un generale acuirsi degli antagonismi di classe. Queste
caratteristiche fanno del capitalismo monopolistico «il capitalismo morente»,
che crea le condizioni storiche generali per il suo superamento.
E' l'accordo tra gli industriali di intere categorie di produzione tendente a
regolare la produzione stessa, i prezzi e i profitti. I cartelli iniziarono a
costituirsi negli ultimi trent'anni del XIX secolo, in seguito al persistente
squilibrio tra quantità di merci prodotte e capacità di assorbimento del
mercato. Infatti il generalizzarsi e l'estendersi dei fenomeni di sovrapproduzione e il fallimento della
«libertà di concorrenza» (Concorrenza)
come strumento di «autoregolamentazione della domanda e dell'offerta» si
imposero, secondo Engels, «alla coscienza degli stessi capitalisti».
«Tanto è vero che in
ogni paese i grandi industriali di un determinato settore si raggruppano in un
cartello per regolare la produzione. Un comitato fissa la quantità che ogni
stabilimento deve produrre e ripartisce in ultima istanza le ordinazioni
ricevute. In alcuni casi si sono avuti anche dei cartelli internazionali, ad
esempio fra i produttori di ferro inglesi e tedeschi. Ma anche questa forma di
socializzazione della produzione non fu sufficiente. Il contrasto di interessi
delle singole compagnie la spezzava troppo presto e ristabiliva la concorrenza.
Si arrivò così, in singoli settori in cui il grado di produzione lo permetteva,
a concentrare tutta quanta la produzione di un settore in una grande società
per azioni a direzione unica» (Il
Capitale, libro III, p. 520).
Infatti il cartello, dal punto di vista
storico, costituisce uno dei momenti fondamentali che condussero alla
formazione dei monopoli.
Il termine categoria indica solitamente un concetto generale utilizzato come
riferimento per altri concetti e per i giudizi che si danno all'interno di una
qualsiasi teoria e scienza; così il concetto di
movimento è una categoria delle scienze fisiche, il concetto di organismo una
categoria delle scienze biologiche, il concetto di merce è una categoria
dell'economia.
La definizione data da Marx nel primo capitolo del libro I del Capitale riguarda precisamente le
categorie dell'economia borghese; partendo dal fatto ovvio che ogni
considerazione, scientifica e non, degli eventi della vita può avere luogo
soltanto dopo che questi si sono verificati, Marx osserva che la scienza
economica borghese procede a studiare i fatti di cui si occupa come se non
fossero il risultato di uno svolgimento: essa si limita a coglierli così come
si presentano ora, interrogandosi sul loro significato e sul loro contenuto, ma
non sulla loro storia. Così i fatti che danno ai prodotti del lavoro il
carattere di merce e sono alla base della circolazione delle merci vengono immaginati
come se fossero sempre esistiti e immutabili; essi si traducono dunque,
all'interno delle teorie economiche borghesi, in concetti generali, o
categorie, ovvero in «forme dell'intelletto che rappresentano una verità
oggettiva in quanto riflettono rapporti sociali reali di questo modo di
produzione sociale, storicamente determinato, della produzione di merci». Per
considerare in modo scientifico la realtà, in altri termini, occorre che il
pensiero rifletta in se stesso mediante un processo di astrazione i fenomeni e
i rapporti tra fenomeni che si verificano nella realtà, si costruisca cioè dei
concetti e delle categorie che, debitamente organizzati secondo un criterio
adatto, portano a elaborare una teoria scientifica su quei fenomeni. Se i
fenomeni sono di natura economica si avrà una teoria economica; se essi vengono
guardati senza tener conto della loro transitorietà, senza pensare che non sono
sempre esistiti ma sono propri di un'epoca della storia, si avranno le
categorie dell'economia borghese, somiglianti alle categorie assolute dell'idealismo e incapaci di dissolvere «le nebbie»
che avvolgono i fenomeni di cui si occupano.
Nella concezione leninista del partito (Bolscevismo)
è l'insieme dei principi politici che definiscono i rapporti rispettivamente
tra partito e masse, e tra gli organismi centrali e quelli periferici del
partito, in relazione allo sviluppo della lotta di classe. Il centralismo
democratico ha tratto origine dalla critica complessiva dei rapporti esistenti
tra dirigenti e diretti all'interno della società capitalistica e quindi dalla
necessità di realizzare una democrazia di tipo nuovo tra i lavoratori, e si
propone come uno strumento per mantenere e sviluppare l'unità del partito e il
suo collegamento con la classe operaia.
In questo senso, anche se la formulazione organica dei principi del centralismo
democratico è dovuta a Lenin, l'affermazione della necessità di nuove forme di
organizzazione dei lavoratori è largamente presente anche nella storia
precedente il marxismo. Limitandoci al problema del centralismo democratico
così come esso fu affrontato dai partiti comunisti occorre anzitutto analizzare
il rapporto tra democrazia e centralismo.
Il punto di partenza è che, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non può
esservi un vero centralismo senza un grande sviluppo della discussione, della
critica, dell'intervento diretto delle masse nella definizione dei compiti del
partito, e, in generale, della democrazia. Al tempo stesso la democrazia
acquista il suo vero significato, dal punto di vista marxista, solo se essa non
è ristretta a una semplice «libertà di critica» astratta, ma se è un reale
confronto costruttivo, inserito in un programma di attività e trasformazione rivoluzionaria.
In altri termini, senza una centralizzazione, un impegno attivo ,degli
organismi dirigenti nell'indirizzare la discussione verso la risoluzione dei
problemi concreti della lotta di classe la «democrazia» si ridurrebbe a uno
sterile rito formale.
Questa funzione degli organismi dirigenti deriva dal fatto che la formazione
dei quadri e la loro promozione avviene in
seguito alla loro capacità di sapersi legare alle esigenze delle masse e alla
loro fermezza nel condurre la lotta di classe. Il centralismo non è dunque
semplice accentramento, dovuto a motivi esclusivamente pratici di difesa
dell'organizzazione, ma è la condizione stessa affinché si verifichi
all'interno del partito la democrazia
socialista. Infatti il centralismo democratico realizza all'interno del
partito il principio generale della priorità delle esigenze di classe su quelle
individuali, non nel senso che queste ultime debbano essere sacrificate, ma
nella consapevolezza che non possono essere soddisfatte individualisticamente
ma solo in seguito al progresso delle condizioni storiche di tutta la classe.
La formazione di correnti, e a maggior ragione il frazionismo, vengono negati per principio - e
di conseguenza nelle scelte organizzative - appunto perché sono una
manifestazione delle tendenze a premettere gli interessi di singoli individui o
di piccoli gruppi ai più vasti interessi di tutto il partito, in quanto
rappresentante della classe. Analogamente, qualora si verifichino delle
divergenze, la minoranza deve accogliere e applicare risolutamente le decisioni
della maggioranza, fermo restando il principio che le decisioni prese possono
essere rimesse in discussione, a condizione che ciò non pregiudichi l'attività
del partito. Da questo punto di vista possono essere comprese anche quelle
formulazioni dei principi del centralismo democratico che, se considerate
indipendentemente dalla valutazione dell'importanza storica che l'unità
politica e organizzativa del partito della classe operaia ha sempre avuto,
potrebbero apparire, da un punto di vista borghese, «antidemocratiche».
E' il processo attraverso il quale le singole imprese perdono la loro
indipendenza operativa e sono ricondotte sotto un controllo centralizzato; le
modalità variano a seconda della forma assunta dal centro direttivo e dal tipo
di imprese che sono portate a dipendervi.
Il processo, noto anche con il nome di accentramento, non va confuso con quello
di concentrazione del capitale
col quale ha tuttavia un fondamentale punto in comune: ambedue, infatti, sono
favoriti dal sistema bancario e creditizio, conducono alla formazione di
capitali di dimensioni sempre maggiori e costituiscono praticamente una tappa
obbligata dello sviluppo del capitalismo monopolistico.
La parola si usa per indicare uno strato della popolazione che per una o più caratteristiche
non può essere assegnato a una classe o che,
all'interno di questa, si differenzia in modo particolare.
L'espressione ceti medi, largamente usata, si trova in varie opere di Marx e di
Engels; così nel Manifesto è sottolineato che
«I ceti medi, il
piccolo industriale, il piccolo negoziante, l'artigiano, il contadino, tutti
costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l'esistenza loro di
ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi
sono reazionari, essi tentano di far girare all'indietro la ruota della storia»
(Manifesto, p. 38).
Quando questi strati sono rivoluzionari il fatto non dipende da un punto di
vista conseguente alla loro specifica posizione all'interno della società, ma
dall'abbandono di questo in favore del punto di vista del proletariato.
Mutato il momento storico al quale potevano far riferimento Marx ed Engels, i
ceti medi hanno mutato in una certa misura la loro fisionomia, ma conservato il
tradizionale nucleo degli interessi storicamente e socialmente diversi da
quelli della classe operaia. Attualmente è invalso l'uso di etichettare come
ceti medi anche quegli strati di popolazione che dispongono di una forza-lavoro
di alto livello qualitativo e' soddisfano le esigenze tecnologiche e
amministrative di ogni genere poste dall'attuale società; è questo il caso, per
esempio, dei tecnici addetti alle industrie vere e proprie e alle attività
collaterali nel campo del terziario
(settore che comprende il commercio, la distribuzione, l'informazione, ecc.).
E' ovvio che questi strati intermedi non sono registrabili sotto la voce ceto
medio nel senso usato da Marx, ma pongono invece altri problemi (Divisione del lavoro); la loro esistenza
è utilizzata all'interno delle ideologie del neocapitalismo
per sostenere la tesi della progressiva riduzione della forza-lavoro operaia e
conseguentemente il declino del molo storico della classe.
a) delle merci
Indica l'insieme dei movimenti di vendita e di acquisto di merci compiuti
con l'uso del denaro. Nella sua forma più semplice consiste nella vendita di
una merce da parte del suo produttore a un qualsiasi acquirente per una certa
somma di denaro, con la quale vengono acquistate altre merci.
L'esempio classico è quello del contadino che porta al mercato i prodotti in
eccedenza del suo lavoro, li vende a chi ne è interessato e con il denaro
ricavatone compera abiti, attrezzi o altro. Questo processo di scambio della
merce, tipico di una società nella fase della piccola produzione mercantile, è
indicato da Marx nel 2° capitolo del libro I del Capitale con la formula
M-D-M
ossia merce–denaro–merce.
Se il contadino che vive in una società del tipo sopra indicato non ha speso
tutto il denaro ricavato dalla vendita dei suoi prodotti nell'acquisto di altre
merci, la differenza potrà servirgli o come risparmio (Tesaurizzazione) o per nuovi acquisti in
altra occasione.
L'intero ciclo si compie fra tre persone: il primo venditore di merce,
l'acquirente in possesso del denaro, il secondo
venditore di merce. Intermediario tra le due merci è il denaro che ha qui il
ruolo di «mezzo di circolazione»; il movimento può essere riassunto nella
proposizione: vendere per acquistare, e alla sua base si trova la necessità di
utilizzare valori d'uso che il singolo non può
produrre. La circolazione delle merci nell'economia dominata dal capitale non sussiste più nella semplice forma
qui descritta se non entro limiti ristrettissimi e diventa anch'essa una parte
del più generale processo del modo di produzione capitalistico.
b) del denaro
In una società più avanzata rispetto alla precedente compare invece una
nuova figura: quella del commerciante propriamente detto. Si differenzia
dall'acquirente del ciclo M-D-M, che era a sua volta un piccolo produttore di
merci in possesso del denaro ricavato dalla vendita dei propri prodotti, per il
fatto che egli non solo possiede del denaro in quantità eccedenti alla
soddisfazione dei propri fabbisogni, ma perché non compera per acquistare bensì
per vendere, s'intende con profitto, cioè per
aggiungere un plusvalore alla somma spesa.
La formula di Marx per indicare questo ciclo è
D-M-D'
ovvero denaro–merce–denaro. Occorre qui osservare in primo luogo che D' è
diverso da D: la quantità di denaro espressa da D' è maggiore della quantità
espressa da D; la differenza tra D' e D costituisce il profitto conseguito dal
commerciante.
In secondo luogo, mentre nella circolazione delle merci alla fine era il denaro
a cambiare di mano due volte, qui è la merce che cambia di mano: il denaro
ritorna, decresciuto, al punto di partenza; nel primo caso lo scopo finale era
quello di consumare un valore d'uso, nel secondo quello di aumentare un capitale. Attraverso questa via si compie, fin
dall'antichità, l'accumulazione del capitale
commerciale.
L'analisi marxiana della circolazione del denaro pone il problema essenziale
dell'origine del plusvalore:
«La soluzione di
questa questione costituisce il merito più grande dell'opera di Marx. Essa
diffonde chiara luce solare su quel campo dell'economia, in cui i socialisti
del passato, non meno degli economisti borghesi, brancolavano nella più fonda
oscurità. Da essa prende inizio, in essa ha il suo centro il socialismo
scientifico» (Engels, Antidühring,
pp. 222-223).
c)
del capitale
Mentre la circolazione del denaro è un processo che si è svolto anche
precedentemente al capitalismo moderno, tipica di questa fase è la circolazione
del capitale, che può essere sintetizzata dalla stessa formula. Per il
capitalista il valore originariamente anticipato per l'acquisto delle merci non
solo si conserva, ma nella circolazione del capitale aumenta anche la propria
grandezza di valore, ossia si valorizza, aggiungendo plusvalore. E' appunto questa variazione che trasforma il denaro,
nella circolazione, in capitale. La sfera della circolazione del capitale non
esaurisce il problema della formazione del capitale, nella quale intervengono
altri fattori che rinviano alle condizioni in cui viene prodotto il plusvalore.
Il complesso rapporto tra città e campagna e i modi della loro separazione
operata dal capitalismo, attraverso la contraddizione fra
industria e agricoltura, furono analizzati da Marx ed Engels con particolare
impegno. «A fondamento di ogni divisione del lavoro sviluppata e mediata
attraverso scambio di merci, è la separazione tra città e campagna». Dunque
«l'intera storia economica della società si riassume nel movimento di questo
antagonismo ...».
Studiando il processo dell'accumulazione
originaria, Marx analizzò i meccanismi attraverso
cui il capitalismo
opera la frattura tra città e campagna e indicò la base economica di questo
processo nello sfruttamento della campagna da parte della città,
nell'espropriazione dei produttori rurali e dei contadini, e nella loro
espulsione dalle terre. Con la separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione, attraverso la duplice condizione di esistenza da una
parte di proprietari di denaro e di mezzi di produzione e dall'altra di operai
liberi, venditori della propria forza-lavoro, la mano d'opera sovrabbondante espulsa dalle campagne va
a costituire l'esercito di riserva dei lavoratori salariati a disposizione
dell'industria capitalistica. Al tempo stesso il flusso verso le città e la
tendenza della popolazione rurale a diventare proletariato
urbano, presuppone nelle stesse campagne, attraverso la distruzione della
piccola proprietà e la diffusione della grande proprietà fondiaria, la
sovrabbondanza della forza-lavoro e la tendenza al pauperismo. Così
Marx schematizza il processo:
«Il furto dei beni ecclesiastici, l'alienazione fraudolenta dei beni dello
Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta
con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà dei
clan in proprietà privata
moderna: ecco altrettanti metodi
idillici dell' accumulazione
originaria. Questi metodi conquistarono il campo dell'agricoltura
capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all'industria
delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege» (Il Capitale, libro I, p. 796).
In sintesi il processo di separazione tra città e campagna nel modo di produzione
capitalistico ha due caratteristiche principali: da una parte la formazione di
un proletariato industriale urbano, a scapito dei ceti contadini immiseriti e assoggettati alla rendita fondiaria, dall'altra la rapida crescita dell'industria,
contrapposta a un'estrema lentezza dell'agricoltura. Liberandola dai vincoli
feudali e inserendola nello sviluppo industriale e commerciale, il capitale non
ha affatto composto la frattura fra industria e agricoltura, che anzi è stata
estesa sia dal punto di vista dello sviluppo tecnologico sia con la distruzione
della produzione artigianale e del commercio locale. Così
«L'agricoltura
diventa sempre più una semplice branca dell'industria ed è completamente
dominata dal capitale. Lo stesso dicasi della rendita fondiaria... La rendita
fondiaria non può essere intesa senza il capitale, ma il capitale può ben essere
inteso senza la rendita fondiaria. Il capitale è la potenza economica della
società borghese che domina tutto. Esso deve costituire il punto di partenza
così come il punto di arrivo, e deve essere trattato prima della proprietà
fondiaria» (Marx, Introduzione a Per
la critica dell'economia politica, p. 195).
E ancora:
«... la grande
proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente
decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente
crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che
provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale
prescritto dalle leggi naturali della vita» (Il Capitale, libro 111, p. 926).
Così come l'industria sfrutta e rovina la forza-lavoro
umana salariata, la proprietà fondiaria e l'agricoltura minano la forza-lavoro
laddove essa si presenta come fondo di riserva naturale, nelle campagne,
depauperizzando la terra e fornendo all'industria la propria mano d'opera. Fin
qui gli effetti del capitalismo; ma Marx mette in rilievo anche l'altro aspetto
del processo. Nell'agricoltura l'effetto rivoluzionario della grande industria
abbatte i caratteri della vecchia società. «I bisogni sociali di rivolgimento e
gli antagonismi sociali della campagna vengono in tal modo resi uguali a quelli
della città». Il modo di produzione capitalistico rompe l'originaria società
patriarcale, spezza i limiti dell'economia naturale e, se porta con sé
l'oppressione e lo sfruttamento delle masse nelle campagne, corrompendole
socialmente e moralmente, crea al tempo stesso le premesse materiali per una
sintesi nuova, per l'unione cioè tra città e campagna, tra industria e
agricoltura.
In altre parole con lo sviluppo della popolazione urbana che la produzione capitalistica
accumula in grandi centri, vengono pure accumulate «le forze motrici storiche
della società», cioè la classe operaia e i contadini. Se «... ogni progresso
dell'agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell'arte di
rapinare l'operaio, ma anche nell'arte di rapinare il suolo», nello stesso
processo maturano le condizioni storiche per le quali la classe operaia, sulla
base dell'alleanza fondamentale coi contadini, possa trasformare le radici
dello sfruttamento sociale dell'uomo e della natura, attraverso la soppressione
dell'antagonismo tra città e campagna, tra industria e agricoltura. E' questo
il compito storico che si presenta nella costruzione del socialismo. I grandi
problemi della società contemporanea, da quello di uno sviluppo equilibrato tra
industria e agricoltura, all'urbanizzazione e allo sfruttamento delle campagne,
fino alla questione ecologica e della salvaguardia degli ambienti naturali,
esigono risposte che si situano in un terreno radicalmente diverso da quello capitalistico.
Dal latino «classis» che indicava il
livello tributario, cioè il censo, dei cittadini secondo una scala di valori
che vedeva gli «assidui» (o primi) al vertice e i «proletari» (aventi numerosa
prole) al polo opposto.
Nel corso della storia questo termine ha assunto un carattere valutativo,
designando la divisione dei cittadini in strati o gruppi omogenei sotto il
profilo economico, ma anche sotto quello sociale; liberi e schiavi, patrizi e
plebei, nobili e servi della gleba, ecc., ed è stato usato nelle più diverse
accezioni, come sinonimo di «rango», di «ceto», di «ordine» e via dicendo.
Al di là delle diverse denominazioni, che sono legate al particolare momento
storico cui si riferiscono, queste classi presentano una caratteristica comune
valida per ogni epoca: da un lato quelli che nel Manifesto sono definiti gli «oppressori», dall'altro gli
«oppressi». Tuttavia la constatazione che la società è fondata sulla divisione
in classi e sul conflitto esistente tra queste, non è una scoperta di Marx,
come egli stesso afferma, né questa constatazione è di per se stessa
rivoluzionaria: perché divenisse tale era necessario sia comprendere il legame
diretto tra le classi e un dato modo
di produzione sia dimostrare che, con la fine del
modo di produzione capitalistico, le classi erano destinate a scomparire.
Infatti, mentre tutte le classi del passato hanno determinato conflitti tra
loro, la borghesia e il proletariato, che sono le classi principali
dell'attuale sistema di produzione, sono tra loro in rapporto antagonistico.
Vale a dire che nel momento in cui il proletariato porta avanti i propri
interessi all'interno di questo sistema, essendone in quanto forza-lavoro
prodotto e componente prima, ne determina la totale distruzione; e poiché alla
proprietà privata dei mezzi di produzione sostituisce la proprietà comune,
elimina anche le classi che sono a quella connesse.
E' quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe,
secondo Marx, sono di ordine economico; esse possono però soltanto delimitare
quella che viene definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di
classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri
della società in lavoratori, per i quali il capitalismo ha creato una
situazione comune. Conseguentemente esistono interessi comuni all'intera classe
diversi e contrapposti a quelli di altre classi.
«Nella misura in cui
milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il
loro modo di vita, i loro interessi, e la loro cultura da quella di altre
classi e li contrappongono ad essi in modo ostile essi formano una classe»
(Marx, Il 18 Brumaio di Luigi
Bonaparte, p.111).
Tuttavia questo non basta ancora. Infatti,
come accade tra i contadini piccoli proprietari,
«se esistono
soltanto legami locali, e l'identità dei loro interessi non crea tra di loro
una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione
politica, essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere
i loro interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un Parlamento, sia
attraverso una Convenzione» (ivi).
Posizione economica, interesse di classe,
organizzazione politica sono dunque i tre elementi costitutivi della classe, ma
non ancora sufficienti a de: finirla in senso marxiano; infatti, complementare
e inscindibile a questi, è la consapevolezza del ruolo storico svolto o da
svolgere, non solo per il passaggio da un modo di produzione all'altro, ma per
«la costituzione di una nuova società».
Nelle prime fasi della sua storia il proletariato conduce una lotta spontanea,
frammentaria e discontinua che non permette di cogliere la reale natura del
capitalismo; è la fase in cui il proletariato è classe «di fronte al capitale»,
cioè una «classe in sé». Nel momento in cui si organizza, conduce una lotta
politica, si appropria della teoria marxista e perviene alla comprensione dei
rapporti di produzione, della lotta di classe, dei compiti del proletariato,
allora diventa anche una classe «per se stessa» e acquisisce una coscienza di classe. Classe e lotta di classe sono concetti inscindibili e
decisivi del marxismo: la classe non può esistere se non attraverso la sua
lotta.
Ovviamente accanto alle classi «pure», borghesia e proletariato, operano nella
società moderna altre classi, frazioni di classi, strati sociali, ceti, ecc.
che sono in continua trasformazione. La divisione del lavoro e la mobilità sociale facilitano lo sviluppo di nuovi
gruppi e lo scomparire di altri, il passaggio degli individui da un gruppo
all'altro, rendendo difficili delimitazioni nette; tutto ciò ha fornito lo
spunto per considerare antiquati e inutilizzabili nel mondo contemporaneo i
concetti di classe e di lotta di classe. Conclusioni di questo genere sono
tipiche per esempio della sociologia cresciuta all'interno dell'ideologia del neocapitalismo.
E' l'insieme dei principi a cui si attengono i paesi socialisti nei rapporti
con gli altri Stati. La formulazione generale dei principi della coesistenza
pacifica è dovuta a Lenin, che per primo affrontò i problemi che si ponevano
alla Russia dopo la rivoluzione nel rapporto con gli altri Stati, all'interno
della questione più generale della guerra e della pace nell'epoca dell'imperialismo.
Il contenuto fondamentale della politica di coesistenza pacifica può essere
riassunto nell'affermazione della possibilità per i paesi socialisti di
stabilire normali relazioni internazionali con paesi a differente sistema
sociale sulla base del mutuo rispetto per l'integrità e la sovranità
territoriale, della reciproca non aggressione, della reciproca non interferenza
negli affari interni, dell'uguaglianza e del mutuo beneficio.
In seguito allo sviluppo delle contraddizioni caratteristiche del capitalismo e all'antagonismo tra le nazioni oppresse e i paesi
imperialisti, la politica di coesistenza pacifica è stata diversamente
interpretata dai diversi paesi socialisti, soprattutto dopo la divisione del
movimento comunista internazionale caratterizzata dal contrasto russo-cinese.
Secondo la concezione marxista i principi della coesistenza pacifica non devono
condizionare gli interessi generali dell'internazionalismo proletario e il
sostegno alle lotte dei paesi del Terzo
Mondo contro l'imperialismo. Infatti la
coesistenza pacifica tra gli Stati non implica la rinuncia alla lotta di classe
e non è un semplice accorgimento diplomatico, ma anzi rappresenta lo strumento
concreto attraverso il quale i paesi socialisti possono difendersi dalla
tendenza alla guerra e all'aggressione che è caratteristica dell'imperialismo.
Socializzazione dei mezzi di produzione e della distribuzione. E' il mezzo
attraverso il quale si realizza il passaggio dalla proprietà privata a un tipo
di proprietà collettiva.
La parola inoltre presuppone intrinsecamente la gestione collettiva dei mezzi
di produzione e l'amministrazione comunitaria dei beni.
Il termine, di per sé, esprime solo la tendenza, l'obiettivo che intende
perseguire: vi sono poi modi di interpretarne e realizzarne l'attuazione
diversi tra loro a seconda che si consideri il socialismo, il comunismo, ecc.
Contrariamente alle teorie anarchiche che consideravano possibile il
collettivismo anche all'interno dello Stato liberale, il marxismo non può
prescinderne l'attuazione dal rovesciamento del sistema statale.
Il collettivismo infine è una forma tipica della società socialista. Secondo
alcuni una forma di anticipazione del collettivismo è il cooperativismo nei
regimi capitalistici, secondo altri invece il collettivismo non ha modo di
esistere senza una trasformazione radicale dei rapporti di produzione e di
distribuzione.
E' la politica tendente a realizzare e mantenere il dominio economico,
politico, culturale e militare da parte di una nazione nei confronti di altri
paesi. Secondo la concezione marxista il colonialismo è determinato da esigenze
di sviluppo economico e assume caratteristiche diverse in relazione al modo di
produzione dominante nel paese «colonizzatore».
In particolare il colonialismo, che pure era sempre esistito - anche se in
forme diverse - in seguito allo sviluppo del commercio e delle vie di
comunicazione che misero in contatto nazioni potenti ed economicamente
sviluppate e paesi ricchi di materie prime ma meno sviluppati economicamente e
militarmente, con lo sviluppo del capitalismo
divenne una necessità economica per le classi dominanti dei paesi
industrializzati. Infatti la necessità di realizzare sempre maggiori profitti
investendo i capitali in aree non ancora economicamente sviluppate e la
formazione del capitalismo monopolistico portarono alla nascita del colonialismo imperialistico
moderno (Imperialismo).
Questo tipo di colonialismo, a differenza del precedente «colonialismo
mercantile», fondato cioè sull'importazione di materie prime dalle colonie alla
«madre patria» e sull'esportazione dei prodotti finiti nelle colonie, che fu
largamente diffuso fino alla metà del XIX secolo, fu caratterizzato dalla creazione
di «zone di influenza», sottoposte al dominio politico, economico e militare
dei diversi paesi imperialistici, in cui lo sviluppo delle nazioni colonizzate
era rigidamente imposto e determinato dalle esigenze economiche dei paesi
industrializzati. Lo scontro tra i paesi «ricchi» dell'Europa per la
spartizione delle «zone di influenza» fu una delle cause che determinarono lo
scoppio della prima guerra mondiale (Neocolonialismo).
Composizione organica del capitale
E', secondo l'espressione di Marx, «...la composizione del valore del capitale
in quanto sia determinata dalla sua composizione tecnica e in quanto rispecchi
le variazioni di questa». La composizione del valore del capitale è la
proporzione tra capitale costante (valore dei mezzi di produzione) e capitale
variabile (valore della forza lavoro, somma complessiva dei salari). La
composizione tecnica è il rapporto tra la massa dei mezzi di produzione usati e
la quantità di lavoro necessaria per il loro uso. La composizione tecnica è in
stretto rapporto con il processo materiale di produzione in cui il capitale è
impiegato, e il rapporto che la esprime aumenta proporzionalmente allo sviluppo
delle tecniche di produzione.
Marx analizzò uno dei fenomeni caratteristici del modo di produzione
capitalistico, l'uso di macchinari sempre più costosi e raffinati e la tendenza
all'utilizzazione di una minore quantità di forza-lavoro per produrre la stessa
quantità di merci, in rapporto al saggio
del profitto del capitale, che è strettamente
collegato alla composizione organica.