Dizionario enciclopedico marxista - Lettera L www.resistenze.org - materiali resistenti in linea - dizionario enciclopedico marxista - - n. 217

a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino

Dizionario enciclopedico marxista


Premessa    A    B    C    D    E    F    G    H I J K    L    M    N    O    P    Q    R    S    T    U    V W X Y Z


L

Laburismo, Lavoro, Lavoro salariato, Lavoro socialmente necessario, Legalitarismo, Leninismo, Liberalismo, Liberismo economico, Libertà e necessità, Lingua e linguaggio, Luddismo,

Laburismo

Movimento associazionista che ebbe le sue origini in Inghilterra nel 1900 dall'unificazione delle varie organizzazioni operaie di tendenza radicale e socialista.

Questo movimento aveva come aspirazione e progetto pratico quello di creare una rappresentanza operaia in parlamento, il cosiddetto «comitato della rappresentanza operaia»; nel 1906, prese il nome di Partito Operaio Laburista.

Nato come partito rappresentante della classe operaia, ben presto assunse caratteristiche moderate e riformiste, contrapponendosi al movimento comunista.

Il Partito laburista ha svolto ruoli alternativamente di maggioranza e opposizione fino ai giorni nostri ed è caratterizzato da una complessa serie di correnti e da atteggiamenti propri del trasformismo. Comportamento posto sotto accusa da Lenin:

«…i fabiani, gli indipendenti e i laburisti in Inghilterra hanno stipulato tra il 1914-'18 e il 1918-'20 dei compromessi con i banditi della propria borghesia e talvolta anche con quelli della borghesia alleata contro il proletariato rivoluzionario del loro paese; questi signori si sono comportati senz'altro come complici del banditismo» (L'estremismo malattia infantile del comunismo, pp. 23-24).

Lavoro

Secondo la classica definizione data da Marx nel libro I del Capitale è in primo luogo

“… un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita» (Il Capitale, libro I, p. 195).

Il lavoro è dunque l'attività attraverso la quale l'uomo modifica la materia in modo da poterla utilizzare per i suoi scopi o, come anche dice Marx, in modo da appropriarsi della natura. In questa concezione non vi è posto per le confusioni tra lavoro dell'uomo e attività di alcune specie animali - api, castori, ecc. - pur dirette a trasformare in qualche modo materiali naturali per soddisfare le proprie esigenze di vita; per Marx queste attività sono caratterizzate dall'invariabilità del bisogno e dei modi di provvedervi, fissata da un meccanismo biologico particolare per ogni specie.

L'uomo invece modifica la natura in funzione di necessità che sono ampiamente mutate nel corso della storia, seguendo criteri basati sulla conoscenza delle leggi e delle proprietà della materia, utilizzando i modi più diversi; l'uomo cioè si avvale, nella sua opera sulla natura, di strumenti che sono già il prodotto della trasformazione di qualche cosa che è trovato in natura. Il ramo o la pietra raccolti dall'uomo primitivo nel mondo circostante sono certamente elementi naturali, ma solo l'osservazione e l'esperienza potevano trasformarli in strumenti, ossia in oggetti di per sé incapaci di soddisfare i bisogni umani, ma utilizzati per ottenere quanto poteva soddisfarli. Caratterizzare l'essenziale differenza tra lavoro, fenomeno esclusivamente umano, e attività animali con una superficiale somiglianza era necessario per evitare all'interno del marxismo interpretazioni naturalistiche, vale a dire la riduzione dei problemi in termini biologici e il conseguente atteggiamento fatalistico e passivo.

In quanto attività adeguata a uno scopo, il lavoro ha quindi caratteristiche generali che possono valere in ogni momento della storia e della società; sono, per usare le parole di Marx, i «momenti semplici» del lavoro che comprendono oltreché l'attività lavorativa vera e propria, «l'oggetto su cui si agisce e il mezzo con cui si agisce». Perciò un esame che voglia comprendere con la necessaria serietà cosa sia il lavoro non può fermarsi a questo punto, ma deve studiarne tutte le caratteristiche come concretamente si sono presentate in passato e si presentano attualmente, vederlo cioè fin dove è possibile nella sua totalità, che comprende quindi il ruolo assegnato al lavoro in ogni società, i rapporti sociali che ne discendono, la destinazione del suo prodotto.

In questa prospettiva che costituisce uno dei temi più generali del pensiero di Marx e del marxismo, si possono indicare alcuni punti essenziali relativi sia all'aspetto delle condizioni di esistenza dell'uomo, sia del ruolo e della storicità del lavoro nel meccanismo di produzione.

– I prodotti del lavoro hanno un valore d'uso e compaiono sotto forma di merce; essi non appartengono ai produttori ma a un'altra persona, il capitalista, che possiede i mezzi di produzione, organizza il lavoro in conformità a questi e agli scopi tecnici ed economici che si è prefisso, provvede alla vendita delle merci.

– Lavoro e prodotto del lavoro non si identificano più per il produttore; il primo si svolge sotto la direzione di altri, il secondo non gli appartiene nemmeno nel modo più indiretto; il prodotto del lavoro si pone dinanzi al produttore come un oggetto estraneo (Estraniazione) che serve ad alimentare la macchina del profitto.

– Il lavoro, per chi non possiede altri mezzi per vivere, è un'attività svolta in seguito alla vendita della propria forza-lavoro.

– Perché tale vendita sia possibile occorrono: una società in cui si trovano individui disposti a vendere la loro forza-lavoro (Classe, Proletariato), una funzione giuridica che garantisca la parità e la libertà contrattuale tra compratore e venditore di forza-lavoro (Diritto), la convinzione - prevalente nella società su ogni altra - che tutto ciò sia giusto o, quanto meno, che non abbia alternative (Ideologia).

– L'uomo vende la sua forza-lavoro senza altro scopo reale che la sopravvivenza; la sua vita non si svolge nel tempo di lavoro ma fuori da questo; il suo lavoro è, come si dice, alienato (Alienazione).

– Fuori dal luogo di lavoro l'uomo non solo è costretto a contribuire al profitto di altri capitalisti attraverso l'acquisto delle merci necessarie alla sua sussistenza, ma può constatare che la sua condizione di venditore di forza-lavoro è oltreché un fatto economico anche un fatto sociale: nella società divisa in classi e basata sulla divisione del lavoro egli è semplicemente un elemento utile e intercambiabile al meccanismo di produzione. Fuori da questo, non conta; se conta qualcosa, ciò è dovuto ai risultati della sua lotta organizzata.

– Ciò che il capitalista acquista col salario non è il lavoro svolto dal produttore ma una parte del suo tempo; la quantità di tempo necessaria per fabbricare un oggetto misura il suo valore di scambio; la misura del tempo quindi è «un dato indispensabile» alla produzione e si concreta nei calcoli relativi alla giornata lavorativa, basati sui tempi del lavoro socialmente necessario e sulla forza produttiva o produttività del lavoro che dipende dal grado medio di abilità dell'operaio e dal grado di sviluppo tecnologico degli impianti.

Quanto maggiore è la forza produttiva, tanto minore è il tempo di lavoro necessario per produrre una data quantità di merce nell'unità di tempo; ciò indica che per ottenere una certa produzione giornaliera si può ricorrere tanto al miglioramento degli impianti quanto a un aumento delle ore lavorative nella giornata. Il capitalismo industriale è ricorso e ricorre indifferentemente alle due soluzioni. La durata della giornata lavorativa è stata ed è calcolata sulla base di pure esigenze economiche: l'uomo è qui semplicemente il mezzo per raggiungere uno scopo a lui estraneo, cifra dì un calcolo economico in cui, fino a quando non riguarda l'entità del profitto, la durata della vita della forza- lavoro è priva di interesse. Il calcolo infatti deve limitarsi a prevedere un logoramento «normale» di tale forza; ma, si chiedeva Engels, che cosa vuoI dire normale? Il termine è molto vago e su questo si sviluppa una controversia tra classe operaia e capitalisti che solo la forza può decidere; di qui la lunga lotta per definire la durata contrattuale della giornata lavorativa normale.

Il contratto di lavoro, come definizione della durata della giornata di lavoro, cioè la conquista di una legge dello Stato che si sostituisce al contratto «volontario» col capitale, costituisce una vittoria rivoluzionaria decisiva nel difficile cammino verso l'emancipazione del lavoro dallo sfruttamento.

– Il lavoro intellettuale (Intellettuale) non è un lavoro produttivo in quanto produce idee, opere d'arte, ecc., ma in quanto produce un plusvalore; infatti

«La stessa specie di lavoro può essere produttiva o non produttiva. Milton, per esempio, che ha scritto il Paradiso perduto. era un lavoratore improduttivo. Invece lo scrittore, che fornisce lavoro al suo editore, è un lavoratore produttivo. Milton produsse il Paradiso perduto per lo stesso motivo per cui il baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura. Egli vendette poi il prodotto per 5 1st. Ma il letterato proletario di Lipsia, che sotto la direzione del suo editore produce libri (per esempio compendi di economia), è un lavoratore produttivo, poiché la sua produzione è a priori sottoposta al capitale, e ha luogo solo per farlo fruttare» (Marx, Storia delle teorie economiche, vol. I, p. 387).

Lavoro utile è quello che porta alla formazione di valore d'uso ed è perciò condizione necessaria per l'esistenza umana; in questo senso è indipendente dalla forma di società in cui si svolge, essendo il suo scopo quello della mediazione nel rapporto tra uomo e natura.

– L'espressione lavoro astratto indica il lavoro in genere considerato facendo astrazione dalle caratteristiche dei diversi lavori concreti; indica, in sostanza, l'elemento comune a ogni tipo di lavoro.

– Il lavoro morto è quello che si è fissato, in quanto svolto precedentemente, nei mezzi di produzione. Questi sono infatti prodotti di un lavoro che si è, per così dire, materializzato in essi; i proprietari dei mezzi di produzione dominano il lavoro vivo, cioè il lavoro attuale, che senza i relativi strumenti non potrebbe essere svolto (Capitale costante e variabile).

 Il lavoro semplice è quello svolto dal lavoratore sprovvisto di una preparazione specifica, impiegato dunque nelle operazioni più elementari; il lavoro composto è invece quello svolto dal lavoratore fornito di una preparazione specifica che lo mette in grado di compiere operazioni più complesse. Questa distinzione è fondamentale per comprendere in che modo è fissato il valore di scambio di una merce; merci che sono prodotte dalla stessa quantità di lavoro hanno infatti valori molto diversi a seconda della qualità del lavoro che è in essi rappresentato, nel senso che avranno un valore sempre più alto a seconda dalla maggior complessità del lavoro necessario per produrre una merce. Il conteggio viene effettuato moltiplicando il dato relativo al lavoro semplice per un coefficiente proporzionale alla complessità del lavoro.

Lavoro salariato

E' il lavoro «libero», secondo l'espressione di Marx: caratterizzato cioè dal fatto che il lavoratore vende «liberamente» l'unica merce di cui dispone, la propria forza-lavoro. E' una forma di vendita propria del sistema capitalistico; non sempre infatti la forza-lavoro è stata una merce:

«Lo schiavo non vendeva la sua forza-lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con la sua forza-lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma la forza-lavoro non è merce sua. Il servo della gleba vende soltanto una parte della sua forza-lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo» (Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 28).

L'operaio libero, invece, «mette all'asta» un certo numero di ore della sua vita quotidiana che appartengono a chi le compera, affitta se stesso insomma al miglior offerente, in una situazione giuridica di libertà, che gli permette di abbandonare il datore di lavoro quando crede, salvo il rispetto di normali impegni contrattuali.

Si tratta ovviamente di una finzione di libertà; l'operaio che possiede soltanto la propria forza-lavoro può bensì abbandonare il datore di lavoro A per passare al «miglior offerente» B, ma «non può abbandonare l'intera classe dei compratori (della sua forza-lavoro) cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza». Il lavoratore non appartiene a questo o a quel capitalista; può, se le circostanze lo permettono, scegliere l'uno o l'altro, ma è tra loro che deve trovare il compratore della sua unica merce.

Il lavoro salariato non coincide col lavoro effettivamente svolto, è solo una parte di questo: la differenza si indica come plus-lavoro, che può quindi essere definito come «lavoro non pagato del lavoratore, compiuto oltre il tempo necessario per compensare il suo salario»; è quindi la fonte del plusvalore e del costante aumento del capitale. Osserva Engels che

«Il lavoro non pagato non è, in sé, una particolarità della moderna società borghese. Da quando esistono classi possidenti e classi non possidenti, la classe che non possiede ha sempre dovuto fornire lavoro non pagato. Da quando una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento un tempo di lavoro eccedente, per produrre i mezzi di sussistenza per i proprietari dei mezzi di produzione. Il lavoro salariato è soltanto una particolare forma storica del sistema del lavoro non pagato, che domina fin da quando esiste la divisione in classi, una particolare forma storica che deve essere presa in esame come tale, per essere rettamente intesa» (Engels, Studi sul Capitale, p. 126).

Sul lavoro non pagato al lavoratore, cioè sul pluslavoro, vivono tutti coloro che non lavorano; «su di esso poggia l'intera situazione sociale nella quale viviamo» e si fonda infine il rapporto di dominio e di subalternità che nasce dalla sfera della produzione.

Lavoro socialmente necessario

E' la quantità di lavoro necessaria in media per la produzione di un dato oggetto; sulla sua base viene determinato il valore di scambio dell'oggetto stesso. Così se per costruire un tavolo dello stesso tipo la media dei falegnami impiega x ore, questo tempo misura il lavoro socialmente necessario per la costruzione di quel tavolo. Se infatti il valore di scambio del tavolo fosse fissato sulla base del tempo impiegato da ogni singolo falegname, si verrebbe a creare la paradossale situazione di un valore di scambio tanto più alto quanto minore è la capacità dell'artigiano. Il discorso è in linea di massima lo stesso anche per i prodotti sofisticati delle industrie: la quantità di lavoro per costruire un alternatore di un dato tipo è calcolata sui tempi medi impiegati dalle varie fabbriche che lo producono: la fabbrica che impiegasse un tempo sensibilmente superiore a quello medio si troverebbe ben presto in una difficile situazione. Questo stato di cose viene talvolta indicato come «economia basata sulla contabilità delle ore di lavoro».

Non tutto il lavoro socialmente necessario produce nello stesso tempo lo stesso valore di scambio: quanto maggiore è il grado di qualificazione-specializzazione del lavoro impiegato per costruire un oggetto tanto maggiore è il valore di scambio.

Legalitarismo

E' la tendenza a mantenere le rivendicazioni, le forme di organizzazione e la lotta della classe operaia entro i limiti stabiliti dalle leggi esistenti nella società capitalistica, e, in generale, è la concezione che ritiene possibile ottenere una legislazione che corrisponda alle esigenze fondamentali dei lavoratori senza una trasformazione rivoluzionaria della società e la distruzione dell'apparato statale borghese (Riformismo). Il legalitarismo si diffuse largamente nei partiti socialdemocratici aderenti alla II Internazionale (Internazionale). Fu criticato da Lenin come manifestazione di opportunismo in quanto rendeva impossibile l'organizzazione di un movimento rivoluzionario, e in ultima analisi rinunciava alla lotta per la realizzazione della democrazia socialista.

Leninismo

Per leninismo si intende la ripresa e l'elaborazione dei principi del marxismo condotte da Lenin nell'ambito delle specifiche condizioni storiche in cui egli operava. Marx e Engels avevano costruito la teoria della rivoluzione proletaria nell'epoca in cui dominavano le rivoluzioni borghesi; l'interesse immediato quindi era quello di chiarire la posizione della classe operaia all'interno di queste, di creare un'organizzazione politica e non solo sindacale, di dare al proletariato una coscienza di classe. Lenin opera invece nel momento in cui il capitalismo ha raggiunto la sua «fase suprema», cioè l'imperialismo oltre la quale, secondo appunto la sua teoria, non esiste che il socialismo. Compito immediato della classe operaia era perciò la rivoluzione: da qui la necessità di studiarne i modi e le possibilità di attuazione, i modi e le forme del potere una volta conquistato.

Il leninismo quindi non è un'interpretazione o un ammodernamento della teoria marxista, ma ne rappresenta un arricchimento, in quanto elaborazione che tende a stimolare nelle condizioni storiche mature i processi politici per la rivoluzione proletaria. Si capisce allora perché in seguito i partiti della classe operaia si siano richiamati ai principi del marxismo-leninismo come ad un corpo unico. Del resto la necessità di una ripresa del marxismo nella sua corretta interpretazione, ma anche nel suo spirito più autentico, si era imposta a Lenin contro le deviazioni della II Internazionale, che, rinunciando ad alcuni principi fondamentali, avevano portato il movimento su posizioni revisionistiche e opportunistiche (Revisionismo, Opportunismo). Lenin così sintetizza la situazione:

«Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la liberazione ... Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia» (Stato e Rivoluzione, p. 7).

Ne deriva la necessità di superare i limiti della II Internazionale per un'interpretazione autentica del senso ultimo dell'opera di Marx, che è poi l'attuazione dell'assunto rivoluzionario.

In questo contesto si inseriscono i numerosi argomenti trattati da Lenin e che costituiscono, nel loro insieme, ciò che si chiama leninismo. I suoi punti qualificanti possono essere così indicati:

– l'analisi dell'imperialismo come ultimo stadio del capitalismo;

– la concezione dello Stato come critica allo Stato borghese, edificazione della società comunista, teorizzazione della dittatura del proletariato (Stato, Dittatura del proletariato, Socialismo, Comunismo);

– il ruolo e l'organizzazione del partito rivoluzionario (Partito, Centralismo democratico, Rivoluzione, Coscienza di classe);

– i problemi connessi alla costruzione del socialismo in un solo paese (Nep, Bolscevismo, Soviet, Questione nazionale);

– lo studio dei fondamenti teorici del marxismo nelle nuove condizioni storiche (Teoria, Empiriocriticismo, Monismo, Revisionismo).

Liberalismo

Il pensiero liberale è l'espressione politica e culturale della lotta condotta dalla borghesia contro i residui economici e sociali del feudalesimo e l'assolutismo monarchico. Esprime quindi nel campo dei rapporti politici e della concezione dello Stato, i principi del liberismo economico; fonda la dottrina del libero scambio delle merci e della libera concorrenza sulla base dei valori della libertà individuale nei rapporti tra lo Stato e il cittadino e tra le diverse forze che con- corrono nell'insieme delle attività di governo.

Se il termine fu usato per la prima volta, col significato politico che poi divenne comune, da Madame de Stael, all'interno dell'indirizzo romantico liberale francese dei primi decenni del sec. XIX, il liberalismo affonda tuttavia le sue radici nel secolo precedente, nella Rivoluzione francese e nei movimenti di pensiero che l'avevano preceduta e preparata, in particolar modo nell'Illuminismo. Ispirato in campo giuridico ed etico-politico dalle teorie di Locke e Montesquieu, e in campo economico dai teorici del liberismo (Smith e Ricardo), esso rappresenta lo sbocco politico e teorico dell'affermazione della borghesia industriale contro il dispotismo statale e le caste nobiliari e fondiarie, attraverso l'affermazione di una serie di diritti inalienabili e uguali per tutti gli uomini, e la rivendicazione di uno Stato costituzionale retto da un sistema parlamentare, tale da assicurare il libero sviluppo delle esigenze produttive e commerciali della nascente società borghese.

La rivendicazione di diritti ritenuti naturali e imprescrittibili, individuati nella libertà personale, nella proprietà privata, nella libertà religiosa e nell'uguaglianza giuridica, rappresentava gli interessi di una classe borghese alla quale era indispensabile il progresso sociale, il rispetto della legalità e della costituzione, la garanzia della libertà politica.

Nel corso dell'Ottocento il termine liberalismo servì per indicare movimenti, che pur avendo in comune il richiamo ai principi della libertà individuale e della libera iniziativa, tuttavia divergevano per aspetti spesso non secondari del proprio pensiero. Il diverso corso che nelle nazioni europee ebbe l'ascesa della borghesia al potere, determinò pure profondi mutamenti nelle formazioni politiche liberali. Si formò in particolare una corrente più accentuatamente moderata, rappresentante politica dell'alta borghesia e dell'aristocrazia progressista; essa tendeva a interpretare in senso restrittivo i principi illuministici della libertà e dell'uguaglianza. Il rifiuto dell'esperienza rivoluzionaria e della democrazia basata sulla sovranità popolare portò il liberalismo moderato a far prevalere le istanze legalitarie e monarchiche.

Si delineò così il contrasto con quelle correnti democratiche, radicali e repubblicane, che, direttamente ispirate anche dal clima del romanticismo, si legavano all'idea di Rousseau della sovranità popolare, contrapponendo alla concezione liberale di una monarchia costituzionale fondata sull'istituto parlamentare e sul suffragio secondo il censo, un'organizzazione del potere basata sull'uguaglianza politica di tutto il popolo e sul suffragio universale. In particolare in Italia il dissidio tra liberali monarchici e democratici repubblicani, specie mazziniani, scandì il corso stesso del Risorgimento, fino alla costruzione dello stato unitario.

Parallelamente al consolidarsi della borghesia al potere, veniva anche meno il carattere universale e progressista del suo pensiero politico e delle sue forme istituzionali. Da strumento di emancipazione dell'intera umanità, il pensiero liberale si trasformò progressivamente in strumento di discriminazione verso le classi inferiori e in particolar modo verso la nascente classe operaia. Se l'esistenza di un proletariato che lottava per la democrazia e per la propria emancipazione all'inizio dell'Ottocento aveva costituito la base di manovra per l'affermazione al potere della borghesia, nella seconda metà del secolo la borghesia vide in esso il nemico principale, reso più pericoloso dallo sviluppo del socialismo scientifico di Marx ed Engels. Da qui la costante tendenza del liberalismo a temere e a restringere la democrazia, a fare concessioni alle vecchie classi, a trasformare i propri ordinamenti in strumenti di contenimento e di repressione della lotta di classe. Il passaggio del liberalismo dalla fase iniziale e rivoluzionaria a quella moderata e conservatrice coincide con lo sviluppo di un movimento cosciente e organizzato delle classi lavoratrici sfruttate.

Con la crisi della libera concorrenza e la trasformazione dell'economia capitalistica in senso monopolistico e imperialistico, il patrimonio progressista del liberalismo fu abbandonato. Nel- l'epoca della decadenza economica e politica della borghesia, il liberalismo non solo negò i suoi tratti teorici nel nazionalismo e nell'irrazionalismo, dominanti nella cultura del primo novecento, ma assunse la tendenza alla reazione fino al fascismo, cioè la negazione stessa dei suoi principi liberali, come caratteristica organica e necessaria per la propria sopravvivenza politica ed economica, di fronte da una parte alla crisi dei meccanismi capitalistici e dall'altra all'avanzare della classe operaia.

Liberismo economico

E' la concezione secondo cui il libero sviluppo dell'iniziativa privata, tendente a realizzare il proprio vantaggio, è condizione necessaria e sufficiente a determinare il progresso economico. Il periodo di maggiore diffusione del liberismo corrisponde approssimativamente agli ultimi anni del XVIII secolo e alla prima metà del XIX. Concezioni improntate al più ampio liberismo economico possono essere considerate quelle dei fisiocratici (Fisiocrazia) e di A. Smith (Economia politica). In particolare Smith viene considerato come il più grande teorico del liberismo; nella sua analisi la piena autonomia e uguaglianza giuridica degli agenti della produzione e dello scambio sono una condizione essenziale per il libero sviluppo delle forze produttive. Lo Stato, secondo Smith, non deve intervenire in alcun modo con misure protezionistiche di «chiusura» dei mercati o di limitazione della concorrenza. Infatti «l'interesse generale» si realizza grazie all'equilibrio determinato autonomamente dalle «leggi della domanda e dell'offerta», indipendentemente dalla volontà dei singoli soggetti, che agiscono nella produzione. Smith parla di una «mano nascosta» che fa valere l'interesse comune, proprio attraverso il raggiungimento dell'interesse privato.

Marx fu estremamente critico nei confronti di questa concezione smithiana, in quanto la considerava come il prodotto dell'incomprensione del complesso rapporto che intercorre tra la sfera della produzione e la sfera della circolazione delle merci, che implica non già uno scambio tra singoli liberi e uguali, ma un rapporto tra classi sociali che sono in condizioni di disuguaglianza economica. Solo considerando la sfera della circolazione come separata e indipendente da quella della produzione, la vendita della forza-lavoro può apparire una «libera scelta» del lavoratore che sta di fronte al singolo capitalista che la compra.

Tuttavia, secondo Marx, l'analisi di Smith rappresenta un passo avanti nei confronti delle teorie economiche precedenti e, in un certo senso, era il riflesso di una condizione in cui il libero sviluppo della concorrenza e dell'accumulazione era un fattore di progresso, ferme restando naturalmente le critiche al modo concreto in cui questo progresso si era realizzato (Accumulazione originaria).

Ben diversa è la critica che Marx ed Engels condussero agli «epigoni» volgarizzatori del liberismo, che lo riproponevano in forma banalizzata in un periodo in cui questa concezione aveva già mostrato i suoi limiti storici e lo sviluppo del capitalismo cominciava ad essere contraddistinto da crisi periodiche dovute all'anarchia della produzione:

«E' appunto una caratteristica dell'economia volgare ripetere cose che erano nuove, originali, profonde e giustificate in un certo grado di sviluppo ormai superato e ripeterle in un periodo in cui esse sono diventate banali, ammuffite e sbagliate. Essa dimostra così di non avere neppure un'idea dei problemi che hanno preoccupato l’economia classica. Essa li scambia con problemi che potevano essere posti solamente a un livello più basso dello sviluppo della società borghese. Allo stesso modo si comporta quando rumina senza fine e piena di autocompiacimento le tesi fisiocratiche sul libero scambio. Queste tesi hanno da lungo tempo perduto qualsiasi interesse teorico, nonostante che possano interessare praticamente questo o quello Stato» (Il Capitale, libro III, p. 897).

Il liberismo divenne una vera e propria ideologia, che si accompagnava al liberalismo politico, la cui funzione storica fu quella di contribuire a nascondere e a mistificare la reale natura dei rapporti capitalistici. Inoltre 1'ottimismo dei liberisti lasciò il posto, nella seconda metà del XIX secolo, a un'altra concezione detta protezionismo, che tuttavia non fu in grado di porsi come alternativa al liberismo, che riaffiora nelle teorie economiche borghesi ogni volta che un periodo di apparente prosperità segue a una crisi. Del resto il protezionismo e il capitalismo monopolistico non solo non eliminano la concorrenza, ma coinvolgono direttamente anche lo Stato, all'interno di una economia che non ha alcun principio razionale e consapevole di organizzazione.

Libertà e necessità

Nel linguaggio comune si intende per libertà una situazione nella quale è possibile fare ciò che si vuole senza costrizioni da parte di persone, cose o istituzioni. Questa definizione, che si basa sull'autodeterminazione e sull'assenza di limiti per l'individuo, è evidentemente la più primitiva e ingenua. Pure è già rivelatrice in quanto in essa la libertà è definita indirettamente, negativamente, cioè in rapporto a ciò che non è libertà, alla costrizione.

In un altro significato la libertà è stata intesa come possibilità o scelta, cioè come limitata, condizionata in quanto solo scelta, ma pure sempre basata sull'autodeterminazione individuale. Anche qui tuttavia il concetto di libertà rimanda al suo opposto, a ciò che appare non libero.

Queste concezioni hanno occupato e occupano un posto preciso nella storia della filosofia e della cultura in generale. Nel pensiero filosofico il concetto di libertà ha questa caratteristica: ciò che è libero richiede, per essere definito, la definizione di ciò che non è libero. Ecco quindi che il concetto di libertà si salda strettamente a quello di necessità. Storicamente però tale legame venne sempre visto in senso negativo, opponendo cioè libertà e necessità e ricercando le condizioni attraverso le quali la prima potesse liberarsi dalla seconda.

Fu il filosofo tedesco Hegel che per primo colse il senso positivo di tale rapporto. Come osserva Engels: «Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa». Marx ed Engels condivisero questa posizione e la svilupparono nell'ambito del materialismo storico.

«La libertà non consiste nel sognare l'indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato … Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell'uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l'incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere dominato da quell'oggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico» (Engels, Antidiihring, p. 121).

Per il marxismo dunque la libertà è sempre basata sul principio dell'autodeterminazione, ma non è più attribuita individualisticamente all'uomo singolo, bensì alla totalità cui l'uomo appartiene, all'ordine sociale e storico, alle istituzioni. La coscienza della necessità non basta però per essere liberi: questa è soltanto una metà del problema. Per il marxismo la libertà è la coscienza della necessità, ma anche la trasformazione della necessità, la trasformazione della realtà. Come osserva Gramsci,

“... il concetto di necessità storica è strettamente connesso a quello di regolarità e razionalità ... esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia diventata operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze potentemente agente ...» (Quaderni del Carcere, pp. 1479-1480).

Lingua e linguaggio

«Il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini» (Marx, L'ideologia tedesca, p. 29).

Da queste parole si comprende che per Marx linguaggio e pensiero costituiscono gli elementi distinti di un unico insieme nel quale il primo serve tanto ai fini della comunicazione quanto allo svolgimento stesso dei processi di pensiero; detto altrimenti, ogni cosa viene pensata in termini di linguaggio e poi comunicata ad altri con lo stesso mezzo: «la realtà immediata del pensiero è il linguaggio». Considerando che la comunicazione è un fatto sociale, risulta evidente che il linguaggio costituisce il tramite tra il pensiero del singolo e la società in cui egli vive, la forma stessa nella quale può elaborare le proprie idee. Il linguaggio in senso generale è ovviamente un concetto astratto come, per esempio, quello di lavoro; in concreto gli uomini usano una lingua, cioè un sistema di segni (per segno si intende qualsiasi cosa usata per indicarne un'altra) che ha assunto forme specifiche e regole proprie nell'ambito della formazione delle nazioni, costituendo uno degli elementi fondamentali per l'unificazione delle singole nazionalità. Questi sistemi che costituiscono le diverse lingue nazionali hanno storie estremamente complesse, all'interno delle quali si può cogliere lo sforzo compiuto in ogni epoca dalle classi dominanti per dare ordine al materiale linguistico esistente, trovarne leggi e regole, controllarne gli sviluppi.

Analizzando in modo specifico la formazione della lingua italiana, Gramsci mostrò il collegamento tra classe egemone, cultura egemonica, lingua «colta» e ruolo degli intellettuali all'interno dell'analisi del mancato sviluppo, in Italia, di una lingua propriamente nazionale e popolare (Egemonia). Egli, quindi, legò strettamente la «questione della lingua» con il problema politico dell'organizzazione delle classi subalterne e della funzione del partito.

«Ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale» (Quaderni del Carcere, p. 2346).

La differenza tra lingua e linguaggio appare così evidente; essa viene ulteriormente ribadita nell'uso di espressioni come linguaggio filosofico, linguaggio della fisica, linguaggio politico, ecc.; queste indicano infatti la formazione di modi linguistici più importanti per gli argomenti a cui si riferiscono che per la lingua nazionale in cui sono espressi; così un testo di fisica o un testo di economia possono essere tradotti da una lingua nazionale all'altra senza perdere, se non in misura assai limitata, la propria caratteristica di linguaggi specializzati che fanno in gran parte astrazione dalla lingua in cui sono stati scritti.

Nel marxismo, benché non sia stata formulata una teoria della lingua e del linguaggio, si possono trovare indicazioni e premesse orientative per procedere in questo senso e per comprendere, tra l'altro, l'uso che del linguaggio viene fatto da parte delle classi dominanti al fine di conservare il proprio predominio politico, culturale e ideologico (Ideologia). Esempi di tale uso sono forniti dai modi linguistici adottati dai mezzi di comunicazione di massa (mass media), da molti testi scolastici e dalle espressioni adoperate nell'ambito dei vari settori specialistici della cultura, della produzione e della pubblica amministrazione (leggi, decreti, circolari, ecc.).

Recenti orientamenti di studio insistono su certe analogie tra l'apparenza e la dinamica delle merci e le forme del movimento dei segni che costituiscono un linguaggio; queste analogie, che molti ravvisano in particolare intorno ai fenomeni che portano al feticismo delle merci, risiederebbero in una logica comune ai due mondi, della merce e del segno, a prima vista tanto lontani e diversi tra loro.

Luddismo

Forma primitiva ancora non organizzata di ribellione all'oppressione dell'organizzazione capitalistica della produzione, che si manifestava con la distruzione delle macchine. E' sorto nei primi anni dell'Ottocento in Inghilterra e non appena ha assunto un carattere sistematico è stato violentemente stroncato (pena di morte per chi distruggeva una macchina) ed è progressivamente scomparso.

La scomparsa del luddismo è dovuta soprattutto al prevalere di forme superiori di associazionismo operaio che hanno individuato non nella macchina, ma nell'uso capitalistico della macchina il nemico da battere. Fu soppiantato in Inghilterra dapprima dal Movimento Radicale e poi dal Cartismo. Il nome deriva da quello di Ludd o Lud, che avrebbe guidato il moto del 1811.