a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
L
Laburismo, Lavoro, Lavoro salariato, Lavoro socialmente necessario, Legalitarismo, Leninismo, Liberalismo, Liberismo economico, Libertà e necessità, Lingua e linguaggio, Luddismo,
Movimento associazionista che ebbe le sue origini in Inghilterra nel 1900
dall'unificazione delle varie organizzazioni operaie di tendenza radicale e
socialista.
Questo movimento aveva come aspirazione e progetto pratico quello di creare una
rappresentanza operaia in parlamento, il cosiddetto «comitato della rappresentanza
operaia»; nel 1906, prese il nome di Partito Operaio Laburista.
Nato come partito rappresentante della classe operaia, ben presto assunse
caratteristiche moderate e riformiste, contrapponendosi al movimento comunista.
Il Partito laburista ha svolto ruoli alternativamente di maggioranza e
opposizione fino ai giorni nostri ed è caratterizzato da una complessa serie di
correnti e da atteggiamenti propri del trasformismo.
Comportamento posto sotto accusa da Lenin:
«…i fabiani, gli
indipendenti e i laburisti in Inghilterra hanno stipulato tra il 1914-'18 e il
1918-'20 dei compromessi con i banditi della propria borghesia e talvolta anche
con quelli della borghesia alleata contro il proletariato rivoluzionario del
loro paese; questi signori si sono comportati senz'altro come complici del
banditismo» (L'estremismo malattia infantile
del comunismo, pp. 23-24).
Secondo la classica definizione data da Marx nel libro I del Capitale è in primo luogo
“… un processo che si
svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo per mezzo della propria azione
produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura:
contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità
della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua
corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della
natura in forma usabile per la propria vita» (Il
Capitale, libro I, p. 195).
Il lavoro è dunque l'attività attraverso la quale l'uomo modifica la
materia in modo da poterla utilizzare per i suoi scopi o, come anche dice Marx,
in modo da appropriarsi della natura. In questa concezione non vi è posto per
le confusioni tra lavoro dell'uomo e attività di alcune specie animali - api,
castori, ecc. - pur dirette a trasformare in qualche modo materiali naturali
per soddisfare le proprie esigenze di vita; per Marx queste attività sono
caratterizzate dall'invariabilità del bisogno e dei modi di provvedervi,
fissata da un meccanismo biologico particolare per ogni specie.
L'uomo invece modifica la natura in funzione di necessità che sono ampiamente
mutate nel corso della storia, seguendo criteri basati sulla conoscenza delle
leggi e delle proprietà della materia, utilizzando i modi più diversi; l'uomo
cioè si avvale, nella sua opera sulla natura, di strumenti che sono già il
prodotto della trasformazione di qualche cosa che è trovato in natura. Il ramo
o la pietra raccolti dall'uomo primitivo nel mondo circostante sono certamente
elementi naturali, ma solo l'osservazione e l'esperienza potevano trasformarli
in strumenti, ossia in oggetti di per sé incapaci di soddisfare i bisogni
umani, ma utilizzati per ottenere quanto poteva soddisfarli. Caratterizzare
l'essenziale differenza tra lavoro, fenomeno esclusivamente umano, e attività
animali con una superficiale somiglianza era necessario per evitare all'interno
del marxismo interpretazioni naturalistiche, vale a dire la riduzione dei
problemi in termini biologici e il conseguente atteggiamento fatalistico e
passivo.
In quanto attività adeguata a uno scopo, il lavoro ha quindi caratteristiche
generali che possono valere in ogni momento della storia e della società; sono,
per usare le parole di Marx, i «momenti semplici» del lavoro che comprendono
oltreché l'attività lavorativa vera e propria, «l'oggetto su cui si agisce e il
mezzo con cui si agisce». Perciò un esame che voglia comprendere con la
necessaria serietà cosa sia il lavoro non può fermarsi a questo punto, ma deve
studiarne tutte le caratteristiche come concretamente si sono presentate in
passato e si presentano attualmente, vederlo cioè fin dove è possibile nella
sua totalità, che comprende quindi il ruolo assegnato al lavoro in ogni
società, i rapporti sociali che ne discendono, la destinazione del suo
prodotto.
In questa prospettiva che costituisce uno dei temi più generali del pensiero di
Marx e del marxismo, si possono indicare alcuni punti essenziali relativi sia
all'aspetto delle condizioni di esistenza dell'uomo, sia del ruolo e della
storicità del lavoro nel meccanismo di produzione.
– I prodotti del lavoro hanno un valore d'uso e
compaiono sotto forma di merce; essi non
appartengono ai produttori ma a un'altra persona, il capitalista, che possiede
i mezzi di produzione, organizza il
lavoro in conformità a questi e agli scopi tecnici ed economici che si è
prefisso, provvede alla vendita delle merci.
– Lavoro e prodotto del lavoro non si identificano più per il produttore; il
primo si svolge sotto la direzione di altri, il secondo non gli appartiene
nemmeno nel modo più indiretto; il prodotto del lavoro si pone dinanzi al
produttore come un oggetto estraneo (Estraniazione)
che serve ad alimentare la macchina del profitto.
– Il lavoro, per chi non possiede altri mezzi per vivere, è un'attività svolta
in seguito alla vendita della propria forza-lavoro.
– Perché tale vendita sia possibile occorrono: una società in cui si trovano
individui disposti a vendere la loro forza-lavoro (Classe,
Proletariato), una funzione giuridica che
garantisca la parità e la libertà contrattuale tra compratore e venditore di
forza-lavoro (Diritto), la convinzione -
prevalente nella società su ogni altra - che tutto ciò sia giusto o, quanto
meno, che non abbia alternative (Ideologia).
– L'uomo vende la sua forza-lavoro senza
altro scopo reale che la sopravvivenza; la sua vita non si svolge nel tempo di
lavoro ma fuori da questo; il suo lavoro è, come si dice, alienato (Alienazione).
– Fuori dal luogo di lavoro l'uomo non solo è costretto a contribuire al
profitto di altri capitalisti attraverso l'acquisto delle merci necessarie alla
sua sussistenza, ma può constatare che la sua condizione di venditore di
forza-lavoro è oltreché un fatto economico anche un fatto sociale: nella società
divisa in classi e basata sulla divisione
del lavoro egli è semplicemente un elemento utile e intercambiabile al
meccanismo di produzione. Fuori da questo, non conta; se conta qualcosa, ciò è
dovuto ai risultati della sua lotta organizzata.
– Ciò che il capitalista acquista col salario
non è il lavoro svolto dal produttore ma una parte del suo tempo; la quantità
di tempo necessaria per fabbricare un oggetto misura il suo valore di scambio; la misura del tempo quindi è
«un dato indispensabile» alla produzione e si concreta nei calcoli relativi
alla giornata lavorativa, basati
sui tempi del lavoro
socialmente necessario e sulla forza produttiva o produttività del lavoro
che dipende dal grado medio di abilità dell'operaio e dal grado di sviluppo
tecnologico degli impianti.
Quanto maggiore è la forza produttiva, tanto minore è il tempo di lavoro
necessario per produrre una data quantità di merce nell'unità di tempo; ciò
indica che per ottenere una certa produzione giornaliera si può ricorrere tanto
al miglioramento degli impianti quanto a un aumento delle ore lavorative nella
giornata. Il capitalismo industriale è ricorso e ricorre indifferentemente alle
due soluzioni. La durata della giornata lavorativa è stata ed è calcolata sulla
base di pure esigenze economiche: l'uomo è qui semplicemente il mezzo per
raggiungere uno scopo a lui estraneo, cifra dì un calcolo economico in cui,
fino a quando non riguarda l'entità del profitto, la durata della vita della
forza- lavoro è priva di interesse. Il calcolo infatti deve limitarsi a
prevedere un logoramento «normale» di tale forza; ma, si chiedeva Engels, che
cosa vuoI dire normale? Il termine è molto vago e su questo si sviluppa una
controversia tra classe operaia e capitalisti che solo la forza può decidere;
di qui la lunga lotta per definire la durata contrattuale della giornata
lavorativa normale.
Il contratto di lavoro, come
definizione della durata della giornata di lavoro, cioè la conquista di una
legge dello Stato che si sostituisce al contratto «volontario» col capitale,
costituisce una vittoria rivoluzionaria decisiva nel difficile cammino verso
l'emancipazione del lavoro dallo sfruttamento.
– Il lavoro intellettuale (Intellettuale) non è un lavoro produttivo
in quanto produce idee, opere d'arte, ecc., ma in quanto produce un plusvalore; infatti
«La stessa specie di lavoro può essere
produttiva o non produttiva. Milton, per esempio, che ha scritto il Paradiso perduto. era un lavoratore
improduttivo. Invece lo scrittore, che fornisce lavoro al suo editore, è un
lavoratore produttivo. Milton produsse il Paradiso
perduto per lo stesso motivo per cui il baco da seta produce seta.
Era una manifestazione della sua natura. Egli vendette poi il prodotto per 5
1st. Ma il letterato proletario di Lipsia, che sotto la direzione del suo
editore produce libri (per esempio compendi di economia), è un lavoratore
produttivo, poiché la sua produzione è a
priori sottoposta al capitale, e ha luogo solo per farlo fruttare»
(Marx, Storia delle teorie economiche, vol.
I, p. 387).
– Lavoro utile è quello che porta
alla formazione di valore d'uso ed è perciò
condizione necessaria per l'esistenza umana; in questo senso è indipendente
dalla forma di società in cui si svolge, essendo il suo scopo quello della
mediazione nel rapporto tra uomo e natura.
– L'espressione lavoro astratto indica
il lavoro in genere considerato facendo astrazione dalle caratteristiche dei
diversi lavori concreti; indica, in sostanza, l'elemento comune a ogni tipo di
lavoro.
– Il lavoro morto è quello che si
è fissato, in quanto svolto precedentemente, nei mezzi di produzione. Questi sono infatti
prodotti di un lavoro che si è, per così dire, materializzato in essi; i
proprietari dei mezzi di produzione dominano il lavoro vivo, cioè il lavoro attuale, che senza i relativi
strumenti non potrebbe essere svolto (Capitale costante e variabile).
Il lavoro
semplice è quello svolto dal lavoratore sprovvisto di una
preparazione specifica, impiegato dunque nelle operazioni più elementari; il lavoro composto è invece quello svolto dal
lavoratore fornito di una preparazione specifica che lo mette in grado di
compiere operazioni più complesse. Questa distinzione è fondamentale per
comprendere in che modo è fissato il valore di
scambio di una merce; merci che sono prodotte
dalla stessa quantità di lavoro hanno infatti valori molto diversi a seconda
della qualità del lavoro che è in essi rappresentato, nel senso che avranno un
valore sempre più alto a seconda dalla maggior complessità del lavoro
necessario per produrre una merce. Il conteggio viene effettuato moltiplicando
il dato relativo al lavoro semplice per un coefficiente proporzionale alla
complessità del lavoro.
E' il lavoro «libero», secondo l'espressione di Marx: caratterizzato cioè dal
fatto che il lavoratore vende «liberamente» l'unica merce di cui dispone, la
propria forza-lavoro. E' una forma di vendita propria del sistema
capitalistico; non sempre infatti la forza-lavoro è stata una merce:
«Lo schiavo non vendeva
la sua forza-lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino
la propria opera. Lo schiavo, insieme con la sua forza-lavoro, è venduto una
volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di
un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso
è una merce, ma la forza-lavoro non è merce sua. Il servo
della gleba vende soltanto una parte della sua forza-lavoro. Non è
lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il
proprietario della terra che riceve da lui un tributo» (Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 28).
L'operaio libero, invece, «mette all'asta» un certo numero di ore della sua
vita quotidiana che appartengono a chi le compera, affitta se stesso insomma al
miglior offerente, in una situazione giuridica di libertà, che gli permette di
abbandonare il datore di lavoro quando crede, salvo il rispetto di normali
impegni contrattuali.
Si tratta ovviamente di una finzione di libertà; l'operaio che possiede
soltanto la propria forza-lavoro può bensì abbandonare il datore di lavoro A
per passare al «miglior offerente» B, ma «non può abbandonare l'intera classe dei compratori (della sua
forza-lavoro) cioè la classe dei
capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza». Il
lavoratore non appartiene a questo o a quel capitalista; può, se le circostanze
lo permettono, scegliere l'uno o l'altro, ma è tra loro che deve trovare il
compratore della sua unica merce.
Il lavoro salariato non coincide col lavoro effettivamente svolto, è solo una
parte di questo: la differenza si indica come plus-lavoro,
che può quindi essere definito come «lavoro non pagato del
lavoratore, compiuto oltre il tempo necessario per compensare il suo salario»;
è quindi la fonte del plusvalore e del
costante aumento del capitale. Osserva Engels che
«Il lavoro non pagato non è, in sé, una
particolarità della moderna società borghese. Da quando esistono classi
possidenti e classi non possidenti, la classe che non possiede ha sempre dovuto
fornire lavoro non pagato. Da quando una parte della società possiede il
monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve
aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento un tempo di
lavoro eccedente, per produrre i mezzi di sussistenza per i proprietari dei
mezzi di produzione. Il lavoro salariato è soltanto una particolare forma
storica del sistema del lavoro non pagato, che domina fin da quando esiste la
divisione in classi, una particolare forma storica che deve essere presa in
esame come tale, per essere rettamente intesa» (Engels, Studi sul Capitale, p. 126).
Sul lavoro non pagato al lavoratore, cioè sul pluslavoro, vivono tutti coloro
che non lavorano; «su di esso poggia l'intera situazione sociale nella quale
viviamo» e si fonda infine il rapporto di dominio e di subalternità che nasce dalla sfera della
produzione.
E' la quantità di lavoro necessaria in media per la produzione di un dato
oggetto; sulla sua base viene determinato il valore
di scambio dell'oggetto stesso. Così se per costruire un tavolo dello stesso
tipo la media dei falegnami impiega x ore, questo tempo misura il lavoro
socialmente necessario per la costruzione di quel tavolo. Se infatti il valore
di scambio del tavolo fosse fissato sulla base del tempo impiegato da ogni
singolo falegname, si verrebbe a creare la paradossale situazione di un valore
di scambio tanto più alto quanto minore è la capacità dell'artigiano. Il
discorso è in linea di massima lo stesso anche per i prodotti sofisticati delle
industrie: la quantità di lavoro per costruire un alternatore di un dato tipo è
calcolata sui tempi medi impiegati dalle varie fabbriche che lo producono: la
fabbrica che impiegasse un tempo sensibilmente superiore a quello medio si
troverebbe ben presto in una difficile situazione. Questo stato di cose viene
talvolta indicato come «economia basata sulla contabilità delle ore di lavoro».
Non tutto il lavoro socialmente necessario produce nello stesso tempo lo stesso
valore di scambio: quanto maggiore è il grado di
qualificazione-specializzazione del lavoro impiegato per costruire un oggetto
tanto maggiore è il valore di scambio.
E' la tendenza a mantenere le rivendicazioni, le forme di organizzazione e la lotta della classe operaia entro i limiti stabiliti dalle leggi esistenti nella società capitalistica, e, in generale, è la concezione che ritiene possibile ottenere una legislazione che corrisponda alle esigenze fondamentali dei lavoratori senza una trasformazione rivoluzionaria della società e la distruzione dell'apparato statale borghese (Riformismo). Il legalitarismo si diffuse largamente nei partiti socialdemocratici aderenti alla II Internazionale (Internazionale). Fu criticato da Lenin come manifestazione di opportunismo in quanto rendeva impossibile l'organizzazione di un movimento rivoluzionario, e in ultima analisi rinunciava alla lotta per la realizzazione della democrazia socialista.
Per leninismo si intende la ripresa e l'elaborazione dei principi del marxismo
condotte da Lenin nell'ambito delle specifiche condizioni storiche in cui egli
operava. Marx e Engels avevano costruito la teoria della rivoluzione proletaria
nell'epoca in cui dominavano le rivoluzioni borghesi; l'interesse immediato
quindi era quello di chiarire la posizione della classe operaia all'interno di
queste, di creare un'organizzazione politica e non solo sindacale, di dare al
proletariato una coscienza di classe. Lenin opera invece nel momento in cui il
capitalismo ha raggiunto la sua «fase suprema», cioè l'imperialismo oltre la quale, secondo appunto
la sua teoria, non esiste che il socialismo. Compito immediato della classe
operaia era perciò la rivoluzione: da qui la necessità di studiarne i modi e le
possibilità di attuazione, i modi e le forme del potere una volta conquistato.
Il leninismo quindi non è un'interpretazione o un ammodernamento della teoria
marxista, ma ne rappresenta un arricchimento,
in quanto elaborazione che tende a stimolare nelle condizioni storiche mature i
processi politici per la rivoluzione proletaria. Si capisce allora perché in
seguito i partiti della classe operaia si siano richiamati ai principi del
marxismo-leninismo come ad un corpo unico. Del resto la necessità di una
ripresa del marxismo nella sua corretta interpretazione, ma anche nel suo
spirito più autentico, si era imposta a Lenin contro le deviazioni della II
Internazionale, che, rinunciando ad alcuni principi fondamentali, avevano portato
il movimento su posizioni revisionistiche e opportunistiche (Revisionismo, Opportunismo). Lenin così sintetizza la
situazione:
«Accade oggi alla
dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei
pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la
liberazione ... Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario
della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si
esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia» (Stato e Rivoluzione, p. 7).
Ne deriva la necessità di superare i limiti della II Internazionale per
un'interpretazione autentica del senso ultimo dell'opera di Marx, che è poi
l'attuazione dell'assunto rivoluzionario.
In questo contesto si inseriscono i numerosi argomenti trattati da Lenin e che
costituiscono, nel loro insieme, ciò che si chiama leninismo. I suoi punti
qualificanti possono essere così indicati:
– l'analisi dell'imperialismo come ultimo
stadio del capitalismo;
– la concezione dello Stato come critica allo Stato borghese, edificazione
della società comunista, teorizzazione della dittatura del proletariato (Stato, Dittatura
del proletariato, Socialismo, Comunismo);
– il ruolo e l'organizzazione del partito rivoluzionario (Partito, Centralismo democratico, Rivoluzione, Coscienza di classe);
– i problemi connessi alla costruzione del socialismo in un solo paese (Nep, Bolscevismo,
Soviet, Questione
nazionale);
– lo studio dei fondamenti teorici del marxismo nelle nuove condizioni storiche
(Teoria, Empiriocriticismo,
Monismo, Revisionismo).
Il pensiero liberale è l'espressione politica e culturale della lotta condotta
dalla borghesia contro i residui economici e
sociali del feudalesimo e l'assolutismo monarchico. Esprime quindi nel campo
dei rapporti politici e della concezione dello Stato, i principi del liberismo economico; fonda la dottrina
del libero scambio delle merci e della libera concorrenza sulla base dei
valori della libertà individuale nei rapporti tra lo Stato e il cittadino e tra
le diverse forze che con- corrono nell'insieme delle attività di governo.
Se il termine fu usato per la prima volta, col significato politico che poi
divenne comune, da Madame de Stael, all'interno dell'indirizzo romantico
liberale francese dei primi decenni del sec. XIX, il liberalismo affonda
tuttavia le sue radici nel secolo precedente, nella Rivoluzione francese e nei
movimenti di pensiero che l'avevano preceduta e preparata, in particolar modo
nell'Illuminismo. Ispirato in campo giuridico ed etico-politico dalle teorie di
Locke e Montesquieu, e in campo economico dai teorici del liberismo (Smith e
Ricardo), esso rappresenta lo sbocco politico e teorico dell'affermazione della
borghesia industriale contro il dispotismo statale e le caste nobiliari e
fondiarie, attraverso l'affermazione di una serie di diritti inalienabili e
uguali per tutti gli uomini, e la rivendicazione di uno Stato costituzionale
retto da un sistema parlamentare, tale da assicurare il libero sviluppo delle
esigenze produttive e commerciali della nascente società borghese.
La rivendicazione di diritti ritenuti naturali e imprescrittibili, individuati
nella libertà personale, nella proprietà privata, nella libertà religiosa e
nell'uguaglianza giuridica, rappresentava gli interessi di una classe borghese
alla quale era indispensabile il progresso sociale, il rispetto della legalità
e della costituzione, la garanzia della libertà politica.
Nel corso dell'Ottocento il termine liberalismo servì per indicare movimenti, che
pur avendo in comune il richiamo ai principi della libertà individuale e della
libera iniziativa, tuttavia divergevano per aspetti spesso non secondari del
proprio pensiero. Il diverso corso che nelle nazioni europee ebbe l'ascesa
della borghesia al potere, determinò pure profondi mutamenti nelle formazioni
politiche liberali. Si formò in particolare una corrente più accentuatamente
moderata, rappresentante politica dell'alta borghesia e dell'aristocrazia
progressista; essa tendeva a interpretare in senso restrittivo i principi
illuministici della libertà e dell'uguaglianza. Il rifiuto dell'esperienza
rivoluzionaria e della democrazia basata
sulla sovranità popolare portò il liberalismo moderato a far prevalere le
istanze legalitarie e monarchiche.
Si delineò così il contrasto con quelle correnti democratiche, radicali e
repubblicane, che, direttamente ispirate anche dal clima del romanticismo, si
legavano all'idea di Rousseau della sovranità popolare, contrapponendo alla
concezione liberale di una monarchia costituzionale fondata sull'istituto
parlamentare e sul suffragio secondo il censo, un'organizzazione del potere
basata sull'uguaglianza politica di tutto il popolo e sul suffragio universale.
In particolare in Italia il dissidio tra liberali monarchici e democratici
repubblicani, specie mazziniani, scandì il corso stesso del Risorgimento, fino
alla costruzione dello stato unitario.
Parallelamente al consolidarsi della borghesia al potere, veniva anche meno il
carattere universale e progressista del suo pensiero politico e delle sue forme
istituzionali. Da strumento di emancipazione dell'intera umanità, il pensiero
liberale si trasformò progressivamente in strumento di discriminazione verso le
classi inferiori e in particolar modo verso la nascente classe operaia. Se
l'esistenza di un proletariato che lottava per la democrazia e per la propria
emancipazione all'inizio dell'Ottocento aveva costituito la base di manovra per
l'affermazione al potere della borghesia, nella seconda metà del secolo la
borghesia vide in esso il nemico principale, reso più pericoloso dallo sviluppo
del socialismo scientifico di Marx ed
Engels. Da qui la costante tendenza del liberalismo a temere e a restringere la
democrazia, a fare concessioni alle vecchie classi, a trasformare i propri
ordinamenti in strumenti di contenimento e di repressione della lotta di
classe. Il passaggio del liberalismo dalla fase iniziale e rivoluzionaria a
quella moderata e conservatrice coincide con lo sviluppo di un movimento
cosciente e organizzato delle classi lavoratrici sfruttate.
Con la crisi della libera concorrenza e la trasformazione dell'economia
capitalistica in senso monopolistico e imperialistico, il patrimonio
progressista del liberalismo fu abbandonato. Nel- l'epoca della decadenza
economica e politica della borghesia, il liberalismo non solo negò i suoi
tratti teorici nel nazionalismo e
nell'irrazionalismo, dominanti nella cultura del primo novecento, ma assunse la
tendenza alla reazione fino al fascismo, cioè la negazione stessa dei suoi
principi liberali, come caratteristica organica e necessaria per la propria
sopravvivenza politica ed economica, di fronte da una parte alla crisi dei
meccanismi capitalistici e dall'altra all'avanzare della classe operaia.
E' la concezione secondo cui il libero sviluppo dell'iniziativa privata,
tendente a realizzare il proprio vantaggio, è condizione necessaria e
sufficiente a determinare il progresso economico. Il periodo di maggiore
diffusione del liberismo corrisponde approssimativamente agli ultimi anni del
XVIII secolo e alla prima metà del XIX. Concezioni improntate al più ampio
liberismo economico possono essere considerate quelle dei fisiocratici (Fisiocrazia) e di A. Smith (Economia politica). In particolare Smith
viene considerato come il più grande teorico del liberismo; nella sua analisi
la piena autonomia e uguaglianza giuridica degli agenti della produzione e
dello scambio sono una condizione essenziale per il libero sviluppo delle forze
produttive. Lo Stato, secondo Smith, non deve intervenire in alcun modo con
misure protezionistiche di «chiusura» dei mercati o di limitazione della concorrenza. Infatti «l'interesse generale»
si realizza grazie all'equilibrio determinato autonomamente dalle «leggi della
domanda e dell'offerta», indipendentemente dalla volontà dei singoli soggetti,
che agiscono nella produzione. Smith parla di una «mano nascosta» che fa valere
l'interesse comune, proprio attraverso il raggiungimento dell'interesse
privato.
Marx fu estremamente critico nei confronti di questa concezione smithiana, in
quanto la considerava come il prodotto dell'incomprensione del complesso
rapporto che intercorre tra la sfera della produzione e la sfera della
circolazione delle merci, che implica non già
uno scambio tra singoli liberi e uguali, ma un rapporto tra classi sociali che
sono in condizioni di disuguaglianza economica. Solo considerando la sfera
della circolazione come separata e indipendente da quella della produzione, la
vendita della forza-lavoro può apparire
una «libera scelta» del lavoratore che sta di fronte al singolo capitalista che
la compra.
Tuttavia, secondo Marx, l'analisi di Smith rappresenta un passo avanti nei
confronti delle teorie economiche precedenti e, in un certo senso, era il
riflesso di una condizione in cui il libero sviluppo della concorrenza e dell'accumulazione era un fattore di progresso,
ferme restando naturalmente le critiche al modo concreto in cui questo
progresso si era realizzato (Accumulazione
originaria).
Ben diversa è la critica che Marx ed Engels condussero agli «epigoni» volgarizzatori
del liberismo, che lo riproponevano in forma banalizzata in un periodo in cui
questa concezione aveva già mostrato i suoi limiti storici e lo sviluppo del
capitalismo cominciava ad essere contraddistinto da crisi periodiche dovute
all'anarchia della produzione:
«E' appunto una
caratteristica dell'economia volgare ripetere cose che erano nuove, originali,
profonde e giustificate in un certo grado di sviluppo ormai superato e
ripeterle in un periodo in cui esse sono diventate banali, ammuffite e sbagliate.
Essa dimostra così di non avere neppure un'idea dei problemi che hanno
preoccupato l’economia classica. Essa li scambia con problemi che potevano
essere posti solamente a un livello più basso dello sviluppo della società
borghese. Allo stesso modo si comporta quando rumina senza fine e piena di
autocompiacimento le tesi fisiocratiche sul libero scambio. Queste tesi hanno
da lungo tempo perduto qualsiasi interesse teorico, nonostante che possano
interessare praticamente questo o quello Stato» (Il Capitale, libro III, p. 897).
Il liberismo divenne una vera e propria ideologia,
che si accompagnava al liberalismo politico, la cui funzione storica fu quella
di contribuire a nascondere e a mistificare la reale natura dei rapporti
capitalistici. Inoltre 1'ottimismo dei liberisti lasciò il posto, nella seconda
metà del XIX secolo, a un'altra concezione detta protezionismo, che tuttavia
non fu in grado di porsi come alternativa al liberismo, che riaffiora nelle teorie
economiche borghesi ogni volta che un periodo di apparente prosperità segue a
una crisi. Del resto il protezionismo e il capitalismo monopolistico
non solo non eliminano la concorrenza, ma coinvolgono direttamente anche lo
Stato, all'interno di una economia che non ha
alcun principio razionale e consapevole di organizzazione.
Nel linguaggio comune si intende per libertà una situazione nella quale è
possibile fare ciò che si vuole senza costrizioni da parte di persone, cose o
istituzioni. Questa definizione, che si basa sull'autodeterminazione e
sull'assenza di limiti per l'individuo, è evidentemente la più primitiva e
ingenua. Pure è già rivelatrice in quanto in essa la libertà è definita
indirettamente, negativamente, cioè in rapporto a ciò che non è libertà, alla
costrizione.
In un altro significato la libertà è stata intesa come possibilità o scelta,
cioè come limitata, condizionata in quanto solo scelta, ma pure sempre basata
sull'autodeterminazione individuale. Anche qui tuttavia il concetto di libertà
rimanda al suo opposto, a ciò che appare non libero.
Queste concezioni hanno occupato e occupano un posto preciso nella storia della
filosofia e della cultura in generale. Nel pensiero filosofico il concetto di
libertà ha questa caratteristica: ciò che è libero richiede, per essere
definito, la definizione di ciò che non è libero. Ecco quindi che il concetto
di libertà si salda strettamente a quello di necessità. Storicamente però tale
legame venne sempre visto in senso negativo, opponendo cioè libertà e necessità
e ricercando le condizioni attraverso le quali la prima potesse liberarsi dalla
seconda.
Fu il filosofo tedesco Hegel che per primo colse il senso positivo di tale
rapporto. Come osserva Engels: «Hegel fu il primo a rappresentare in modo
giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il
riconoscimento della necessità. Cieca è la necessità solo nella misura in cui
non viene compresa». Marx ed Engels condivisero questa posizione e la
svilupparono nell'ambito del materialismo storico.
«La libertà non consiste
nel sognare l'indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di
queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire
secondo un piano per un fine determinato … Libertà del volere non significa
altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi
quanto più libero è il giudizio dell'uomo per quel che concerne un determinato
punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il
contenuto di questo giudizio; mentre l'incertezza poggiante sulla mancanza di
conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie,
sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua
mancanza di libertà, il suo essere dominato da quell'oggetto che precisamente
essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e
della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è
perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico» (Engels, Antidiihring, p. 121).
Per il marxismo dunque la libertà è sempre basata sul principio
dell'autodeterminazione, ma non è più attribuita individualisticamente all'uomo
singolo, bensì alla totalità cui l'uomo appartiene, all'ordine sociale e
storico, alle istituzioni. La coscienza della necessità non basta però per
essere liberi: questa è soltanto una metà del problema. Per il marxismo la
libertà è la coscienza della necessità, ma anche la trasformazione della
necessità, la trasformazione della realtà. Come osserva Gramsci,
“... il concetto di necessità storica è
strettamente connesso a quello di regolarità e razionalità ... esiste necessità
quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli
uomini sia diventata operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza
collettiva e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze potentemente
agente ...» (Quaderni del Carcere, pp.
1479-1480).
«Il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste
anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e
il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità
di rapporti con altri uomini» (Marx, L'ideologia
tedesca, p. 29).
Da queste parole si comprende che per Marx linguaggio e pensiero costituiscono
gli elementi distinti di un unico insieme nel quale il primo serve tanto ai
fini della comunicazione quanto allo svolgimento stesso dei processi di
pensiero; detto altrimenti, ogni cosa viene pensata in termini di linguaggio e
poi comunicata ad altri con lo stesso mezzo: «la realtà immediata del pensiero
è il linguaggio». Considerando che la comunicazione è un fatto sociale, risulta
evidente che il linguaggio costituisce il tramite tra il pensiero del singolo e
la società in cui egli vive, la forma stessa nella quale può elaborare le
proprie idee. Il linguaggio in senso generale è ovviamente un concetto astratto
come, per esempio, quello di lavoro; in concreto gli uomini usano una lingua,
cioè un sistema di segni (per segno si intende qualsiasi cosa usata per
indicarne un'altra) che ha assunto forme specifiche e regole proprie
nell'ambito della formazione delle nazioni, costituendo uno degli elementi
fondamentali per l'unificazione delle singole nazionalità. Questi sistemi che
costituiscono le diverse lingue nazionali hanno storie estremamente complesse,
all'interno delle quali si può cogliere lo sforzo compiuto in ogni epoca dalle
classi dominanti per dare ordine al materiale linguistico esistente, trovarne
leggi e regole, controllarne gli sviluppi.
Analizzando in modo specifico la formazione della lingua italiana, Gramsci
mostrò il collegamento tra classe egemone, cultura egemonica, lingua «colta» e
ruolo degli intellettuali all'interno dell'analisi del mancato sviluppo, in
Italia, di una lingua propriamente nazionale e popolare (Egemonia). Egli, quindi, legò strettamente la
«questione della lingua» con il problema politico dell'organizzazione delle
classi subalterne e della funzione del partito.
«Ogni volta che affiora, in un modo o
nell'altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie
di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la
necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la
massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale» (Quaderni del Carcere, p. 2346).
La differenza tra lingua e linguaggio appare così evidente; essa viene
ulteriormente ribadita nell'uso di espressioni come linguaggio filosofico,
linguaggio della fisica, linguaggio politico, ecc.; queste indicano infatti la
formazione di modi linguistici più importanti per gli argomenti a cui si
riferiscono che per la lingua nazionale in cui sono espressi; così un testo di
fisica o un testo di economia possono essere tradotti da una lingua nazionale
all'altra senza perdere, se non in misura assai limitata, la propria
caratteristica di linguaggi specializzati che fanno in gran parte astrazione
dalla lingua in cui sono stati scritti.
Nel marxismo, benché non sia stata formulata una teoria della lingua e del
linguaggio, si possono trovare indicazioni e premesse orientative per procedere
in questo senso e per comprendere, tra l'altro, l'uso che del linguaggio viene
fatto da parte delle classi dominanti al fine di conservare il proprio
predominio politico, culturale e ideologico (Ideologia).
Esempi di tale uso sono forniti dai modi linguistici adottati dai mezzi di
comunicazione di massa (mass media), da molti testi scolastici e dalle
espressioni adoperate nell'ambito dei vari settori specialistici della cultura,
della produzione e della pubblica amministrazione (leggi, decreti, circolari,
ecc.).
Recenti orientamenti di studio insistono su certe analogie tra l'apparenza e la
dinamica delle merci e le forme del movimento dei segni che costituiscono un
linguaggio; queste analogie, che molti ravvisano in particolare intorno ai
fenomeni che portano al feticismo delle merci, risiederebbero in una logica
comune ai due mondi, della merce e del segno, a prima vista tanto lontani e
diversi tra loro.
Forma primitiva ancora non organizzata di ribellione all'oppressione
dell'organizzazione capitalistica della produzione, che si manifestava con la
distruzione delle macchine. E' sorto nei primi anni dell'Ottocento in
Inghilterra e non appena ha assunto un carattere sistematico è stato
violentemente stroncato (pena di morte per chi distruggeva una macchina) ed è
progressivamente scomparso.
La scomparsa del luddismo è dovuta soprattutto al prevalere di forme superiori
di associazionismo operaio che hanno individuato non nella macchina, ma
nell'uso capitalistico della macchina il nemico da battere. Fu soppiantato in
Inghilterra dapprima dal Movimento Radicale e poi dal Cartismo. Il nome deriva
da quello di Ludd o Lud, che avrebbe guidato il moto del 1811.