a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
D
Democratismo o democraticismo, Democrazia, Democrazia borghese, Democrazia popolare, Democrazia progressiva, Democrazia socialista, Denaro, Determinismo economico, Deviazionismo, Dialettica, Dialettica della natura, Diritto, Dittatura del proletariato, Divisione del lavoro, Dogmatismo
Tendenza a privilegiare su ogni altro gli aspetti giuridico-formali della democrazia borghese. Da questo punto
di vista il democratismo fu una caratteristica specifica dei partiti aderenti
alla II Internazionale; in modo particolare la socialdemocrazia tedesca coltivò
questa tendenza fino a negare ogni altra pratica politica che potesse in
qualche modo contrastare il concetto puramente giuridico della democrazia, così
come era astrattamente sancito dalle leggi dell'epoca.
Il democraticismo dei socialdemocratici tedeschi portò l'intero partito, con la
sola eccezione dell'ala sinistra, non già a difendere la democrazia, ma a
ricercare l'alleanza con i gruppi più reazionari per la repressione dei moti
spartachisti del 1919 e per altre operazioni politiche che favorirono la
crescita del nazismo; a una situazione assai simile condusse il democratismo
dei socialdemocratici austriaci, dimostrando ancora una volta come questa
tendenza non coincida affatto con la reale difesa della democrazia.
Dall’accezione di origine greca secondo la quale democrazia significa «governo
del popolo», oggi generalmente si indica con questo termine un regime in cui il
popolo partecipa alla vita politica tramite l'elezione di propri
rappresentanti.
La manifestazione della volontà popolare si compie attraverso l'esercizio del
diritto di voto, che spetta a tutti i cittadini (suffragio universale) i quali,
sia pure indirettamente, possono esercitare anche funzione di controllo sui
propri eletti.
E' inoltre tipica di un regime democratico la salvaguardia formale dei diritti
fondamentali di voto, espressione, stampa ecc.
Storicamente troviamo in Grecia, in particolare nell'Atene dell'età di Pericle,
i primi esempi di democrazia; il significato moderno del termine ha però
origine dalla rivoluzione francese.
E' la società e la corrispondente organizzazione statale affermatasi, nella sua
forma classica, con la rivoluzione francese. Essa corrisponde ai rapporti
economici imperniati sulla produzione e lo scambio delle merci e sulla
compra-vendita della forza-lavoro. I rapporti giuridici quindi prevalenti in
essa sono essenzialmente espressi nella forma dell'eguaglianza e della possibilità per i
produttori di essere «liberi» di vendere la propria capacità lavorativa in
cambio del salario.
Questo tipo di Stato è, secondo il marxismo, lo strumento di coercizione e di
potere di cui la borghesia si serve per realizzare e perpetuare le condizioni
per l'accumulazione di capitale.
Una delle caratteristiche fondamentali della democrazia borghese è
l'organizzazione parlamentare in cui risiedono i tre poteri: legislativo,
esecutivo e giudiziario. La dottrina della necessità che i poteri non siano
più, come avveniva nei regimi e nelle monarchie assolute, emanazione diretta
del potere del sovrano e indissolubili nella sua persona, ma siano distinti e
provenienti dal popolo, è stata affermata, sia pure con caratteristiche
diverse, dai più grandi pensatori che svilupparono la concezione borghese dello
Stato.
La concezione classica espressa da Rousseau, detta anche democratica, che fu di
fondamentale importanza per lo sviluppo della rivoluzione francese, sosteneva
che la sovranità popolare è il momento effettivo in cui ha origine il potere
dello Stato e che quindi, in essa, i poteri sono unificati: la distinzione
avviene poi come delega elettiva e temporanea che il popolo affida ai suoi
rappresentanti parlamentari.
L'altra concezione, detta liberale, espressa particolarmente da Locke e
Montesquieu e che ha influenzato l'organizzazione statale inglese, sostiene che
i poteri sono sempre distinti e che solo l'equilibrio tra questi poteri, che si
realizza nelle istituzioni parlamentari, può garantire il rispetto della
libertà.
Entrambe le concezioni sono state criticate dal marxismo in quanto non
comprendono l'origine di classe dello Stato e il legame che si realizza tra la
classe che detiene il potere economico e l'organizzazione statale.
Secondo il marxismo infatti la democrazia borghese non è l'espressione della
volontà del popolo, ma l'espressione della volontà e degli interessi della
classe dominante. La democrazia borghese è stata la prima realizzazione storica
della libertà politica e dell'uguaglianza giuridica degli uomini. Tuttavia, una
volta giunta al potere, la borghesia contrastò e impedì la realizzazione
completa degli stessi principi che l'avevano guidata nel corso della sua
rivoluzione; infatti la realizzazione completa delle libertà politiche e
istituzionali contemplate nella concezione democratica è incompatibile con gli
interessi della borghesia stessa. Ciò avviene soprattutto a causa delle
contraddizioni politiche che lo sviluppo della società capitalistica, e quindi
della democrazia borghese ad essa corrispondente, genera con lo sviluppo del
proletariato industriale moderno.
La democrazia borghese è stata poi criticata sul piano teorico e combattuta sul
piano politico dal movimento operaio. In particolare Lenin affermò la necessità
della lotta immediata e decisa per tutte le rivendicazioni democratiche,
sostenendo che l'organizzazione della classe operaia deve
«formulare e
porre tutte queste rivendicazioni in modo rivoluzionario e non riformista, non
limitandosi al quadro della legalità borghese, ma spezzandolo; non
accontentandosi dei discorsi parlamentari e delle proteste verbali, ma
attirando le masse alla lotta attiva, allargando e rinfocolando la lotta per
ogni rivendicazione democratica fondamentale, fino all'attacco del proletariato
contro la borghesia, cioè sino alla rivoluzione socialista che espropri la
borghesia» (Lenin, La Rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione,
in Opere scelte, vol. unico, p. 155).
L'espressione indica quel tipo di organizzazione politica ed economica che si è
realizzata dopo la sconfitta del nazi-fascismo in alcuni paesi dell'Europa
orientale.
In particolare in Albania, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Ungheria e nella
zona orientale della Germania subito dopo la seconda guerra mondiale si
verificarono le condizioni necessarie per il passaggio dalla fase della
dittatura politica e militare a cui erano stati sottomessi questi paesi, alla
costituzione di una società socialista senza il ripristino della democrazia
borghese.
Infatti il legame tra Stato borghese e interessi economici imperialistici da un
lato e, dall'altro, la complicità dei regimi democratico-borghesi nelle
distruzioni gravissime provocate dalla guerra avevano fatto sì che le stesse
istituzioni statali democratico-borghesi fossero considerate dai popoli di quei
paesi come un'esperienza negativa che era necessario sostituire con una
democrazia di tipo nuovo. Furono determinanti - per la costituzione di queste
democrazie popolari - l'influenza economica e politica dell'Unione Sovietica,
che aveva liberato l'Europa centro-orientale dal punto di vista militare,
nonché le organizzazioni e i partiti che in questi paesi avevano condotto la
resistenza al nazi-fascismo.
Più in generale il termine democrazia popolare è usato come sinonimo di
democrazia socialista, anche se propriamente è la costruzione del socialismo
nei paesi che avevano avuto uno sviluppo industriale notevole e in cui il
dominio del nazismo e la guerra avevano creato le condizioni per un superamento
della democrazia borghese.
Anche in Cina il tipo di regime realizzato dal Partito Comunista cinese in
tutto il territorio nazionale dopo la fondazione della Repubblica popolare
cinese (ottobre '49) viene considerato come democrazia popolare, anche se per
esso sono usate altre denominazioni come «nuova democrazia» o «dittatura
democratica popolare» che distinguono le caratteristiche specifiche della
rivoluzione cinese da quelle dei paesi dell'Europa orientale.
Fase di transizione dal capitalismo al socialismo.
Propriamente, secondo la teoria marxista della rivoluzione socialista non può
esistere una forma statale e tanto meno una struttura economica intermedia tra
capitalismo e socialismo, in quanto o sussiste la proprietà privata dei mezzi
di produzione o questi sono di proprietà statale.
Tuttavia, profilandosi la situazione di un paese capitalistico sviluppato
industrialmente e dominato dal fascismo, quale era ad esempio l'Italia,
liberata col contributo fondamentale della lotta partigiana, si rese
necessaria, secondo le indicazioni fornire dalla Terza Internazionale, la
rivendicazione di un'alternativa al fascismo che, non potendo essere un
passaggio immediato al socialismo, perché non se ne verificavano le condizioni
essenziali, fosse diversa dalla vecchia democrazia borghese, fosse cioè una
tappa di avvicinamento al socialismo.
La «democrazia progressiva» divenne il programma politico del Partito comunista
durante la seconda guerra mondiale e immediatamente dopo. L'attuazione del
programma della «democrazia progressiva» consisterebbe nel porre le basi per la
trasformazione completa del potere economico in senso socialista, attraverso la
nazionalizzazione dei nuclei fondamentali dell'attività produttiva (grandi
fabbriche, grandi banche, riforma agraria ecc.) permanendo tuttavia la piccola
proprietà privata e forme statali e istituzionali borghesi.
E' l'organizzazione statale corrispondente al periodo della dittatura del
proletariato e alle esigenze economiche derivanti dalla necessità di mantenere
e sviluppare la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e di impedire che
si possa riprodurre su vasta scala il processo di accumulazione di capitale e
che si riformino i rapporti giuridici e politici che permettono alla borghesia
di svilupparsi (Democrazia borghese).
Storicamente la prima esperienza di democrazia socialista si è verificata in
Russia con la vittoria della Rivoluzione, anche se la Comune di Parigi nel 1871
aveva iniziato un tentativo in tal senso, subito represso dalla borghesia.
I principi teorici che costituiscono l'essenza della democrazia socialista sono
stati formulati nelle loro linee generali da Lenin nella sua opera Stato e
rivoluzione, dove si afferma la necessità di una forma transitoria di Stato
che nello stesso tempo realizzi la massima libertà politica per la classe operaia
e il massimo della coercizione per la borghesia.
La democrazia socialista deve determinare le condizioni istituzionali per il
realizzarsi di un'effettiva parità economica dei cittadini. Infatti solo su
questa base anche le libertà di espressione, di pensiero, di stampa possono
essere effettivamente tali in quanto non vi sono più i privilegi economici che
costituiscono la base per le diseguaglianze politiche e sociali caratteristiche
dei regimi capitalistici. «In regime capitalistico la democrazia è ristretta,
compressa, monca, mutilata da tutto l'ambiente creato dalla schiavitù
salariale, dal bisogno e dalla miseria delle masse».
Inoltre la democrazia socialista deve realizzare le condizioni per
l'autoeducazione del popolo al «governo delle cose» e quindi impostare lo
sviluppo della società in direzione dell'estinzione dello Stato (Comunismo).
Con questa parola si indica la merce che è immediatamente scambiabile con ogni
altra. La sua comparsa deriva dallo sviluppo dello scambio di merci al di fuori
delle forme di baratto e cioè dalla necessità
di un bene di valore universalmente riconosciuto che fungesse da intermediario
nelle vendite e negli acquisti. L'estensione e l'approfondimento degli scambi
rese indispensabile la ricerca di un mezzo adatto a riassumere in sé la misura
del valore di scambio di tutte le merci; in
altri termini è la conseguenza del fatto che nella concreta pratica commerciale
i possessori di merci sono costretti a confrontare i loro prodotti,
qualitativamente e quantitativamente diversi, con un termine di riferimento
accettato da tutti.
«Le forme
particolari del denaro, puro e semplice equivalente della merce, o mezzo di
circolazione, o mezzo di pagamento, o tesoro o moneta mondiale, indicano di
volta in volta, a seconda della diversa estensione e della relativa
preponderanza dell'una o dell'altra funzione, gradi diversissimi del processo
sociale di produzione» (Il Capitale, libro I, p. 202).
Con lo sviluppo dell'economia la
funzione e le caratteristiche di questo termine subiscono dunque considerevoli
variazioni fino ad assumere una forma tipica nel modo di produzione capitalistico; qui
infatti il denaro svolge principalmente il ruolo di capitale, cioè viene
inserito all'interno della produzione di plusvalore.
Perché ciò possa avvenire sono necessarie condizioni storiche generali, tra le
quali la più importante è la presenza sul mercato di una merce particolare che
ha la caratteristica di produrre valore, cioè la forza-lavoro. La funzione del denaro come
capitale nasce soltanto dove il proprietario di mezzi di produzione e di
sussistenza può, attraverso il denaro stesso, comperare tale forza. Quando il
denaro viene investito nella produzione e nel commercio che ne segue diventa capitale.
Il denaro perde così, o mantiene solo in minima parte, i semplici attribuiti di
mezzo per risolvere i problemi generati dallo scambio di merci differenti e
diventa una potenza sociale contrapposta al lavoro che domina e sfrutta.
«Il denaro è
il valore universale di tutte le cose, costituito per se stesso. Ha quindi
spogliato il mondo intero, l'uomo e la natura, del loro proprio valore. Il
denaro è l'essenza del lavoro dell'uomo e della sua esistenza resagli estranea,
e questa essenza estranea lo domina, ed egli la adora» (Marx, La Questione
ebraica, in Opere 111, p. 187).
Le caratteristiche fondamentali del
denaro sono sostanzialmente riconducibili a quattro funzioni:
misura del valore, in quanto per mezzo del denaro è possibile rappresentare
materialmente la quantità di lavoro
socialmente necessaria per produrre qualunque tipo di merce;
deposito di valore, in quanto nel processo di circolazione
alla vendita può anche non seguire l'acquisto di altre merci, e pertanto il
denaro può essere sottratto alla circolazione stessa senza perdere il suo
valore;
intermediario dello scambio, o mezzo di circolazione;
mezzo di pagamento;
queste ultime due funzioni sono già state brevemente descritte sopra. Il denaro
non va confuso con la moneta poiché «Moneta in contrapposizione a denaro viene
... usata a designare il denaro nella sua funzione di puro e semplice mezzo di
circolazione in contrapposizione alle altre sue funzioni». Marx analizzò
l'origine, le funzioni, la natura del denaro nella società moderna in rapporto
allo sviluppo del capitale e, studiando il processo di accumulazione originaria, ne
descrisse le drammatiche conseguenze.
E’ la concezione che ritiene che lo sviluppo storico sia rigidamente ed
esclusivamente determinato dallo sviluppo delle forze produttive e delle
componenti «tecniche» della società. Il determinismo economico esclude la
possibilità che l'organizzazione cosciente della classe operaia possa in
qualche modo influire sullo sviluppo storico. E' il fondamento teorico di
alcune delle più importanti correnti opportuniste (Opportunismo) della II Internazionale. La
teoria secondo cui avrebbe dovuto verificarsi «il crollo inevitabile del
capitalismo» per motivi esclusivamente economici, ampiamente diffusa nella
socialdemocrazia tedesca negli ultimi anni dell'Ottocento, fu una delle
espressioni più classiche di questa concezione.
Il determinismo economico fu criticato dai principali esponenti del movimento
comunista in quanto rappresentava un'incomprensione dei fondamentali principi
del materialismo storico. Spesso
si accompagnava all'affermazione della necessità di una «revisione» (Revisionismo) del marxismo. Inoltre, dal
punto di vista politico, si manifestò come rinuncia alla difesa degli interessi
della classe operaia.
Termine che sta ad indicare molto genericamente il deviare dai principi e dal
programma codificato di un partito o di un movimento politico. In campo
marxista l'accusa di deviazionismo è rivolta a coloro che in un modo o
nell'altro si allontanano dai principi «ortodossi» del marxismo-leninismo e soprattutto dalla
linea di condotta del partito che ne è il sostenitore ufficiale.
Si può accostare ad altri termini, quali revisionismo, riformismo, opportunismo, tutti indicanti un
allontanamento, sotto forma di critica, rielaborazione o rifiuto, di quella che
è ritenuta una corretta interpretazione del marxismo.
L'uso del termine dialettica all'interno del marxismo si riallaccia
direttamente al significato che Hegel le attribuì. Egli stesso, una volta, lo
definì in modo telegrafico: «lo spirito di contraddizione organizzato». Con
questa concisa sintesi del proprio modo di intendere la dialettica, Hegel
voleva sottolineare anzitutto la consapevolezza della moltitudine delle contraddizioni e del loro incessante
movimento che anima una realtà in perenne trasformazione. La dialettica appare
così tanto il modo di essere della realtà quanto un'esigenza del pensiero che
voglia comprenderla adeguatamente; ed è proprio la concezione della realtà, che
Hegel professò all'interno di una filosofia idealistica (Idealismo), a costituire il limite del suo
procedimento dialettico e la necessità da parte di Marx ed Engels di superarlo.
In lui dice Marx, la dialettica è capovolta, poggia sulla testa: bisognava
rimetterla sui piedi per liberare il nocciolo razionale dal rivestimento
mistico; bisognava, in altre parole, passare da una dialettica idealistica a
una dialettica materialistica.
Premesso, dunque, che la dialettica ha la sua ragion d'essere nel carattere
dialettico della realtà, ovvero che la dialettica in quanto modo del pensiero
ha un senso perché esiste una dialettica delle cose e dei fatti, è possibile
rilevarne alcuni aspetti essenziali.
Nel passato i mercanti comperavano merci nei luoghi dove queste si trovavano a
prezzo conveniente, e le rivendevano nei luoghi dove erano richieste e ben
pagate; la condizione necessaria per compiere queste operazioni era che vi
fossero popolazioni ignare dei prezzi correnti altrove, vale a dire popolazioni
arretrate, senza pratica di viaggi o contatti con terre lontane. Tuttavia,
mentre i mercanti procedevano nei loro affari, riducevano sempre di più
l'arretratezza di quelle popolazioni: i rapporti con viaggiatori stranieri sono
stati da sempre un motivo di progresso. Il capitalismo mercantile (Capitale commerciale) creava dunque insieme ai propri traffici le
premesse della propria fine; esso poteva esistere soltanto a patto di gettare
le basi della propria futura negazione.
Traducendo questo discorso in termini generali si può dire che nell'interazione
tra una certa attività e lo stato delle cose su cui questa agisce nasce un
profondo cambiamento; il soggetto attivo, mutando una certa realtà, produce i
mezzi con cui egli stesso sarà mutato. Nel caso limite sopra esposto, il
mutamento si identifica con la fine del soggetto attivo: il capitalismo
mercantile scompare infatti per cedere il posto ad altre forme di attività
commerciale che non hanno più bisogno per svilupparsi delle stesse condizioni.
Analogamente, su un altro piano, la borghesia in quanto classe dominante
affermatasi col modo di produzione capitalistico produce «i suoi seppellitori»;
a sua volta il proletariato affrancato dal dominio della borghesia e
impadronendosi dei mezzi di produzione crea le condizioni del proprio
dissolvimento in quanto classe.
Il soggetto che nel corso della sua attività determina le condizioni del
proprio cambiamento è una figura centrale della dialettica. Si può dare ora una
prima definizione della dialettica: essa è la scienza e, se si vuole, la logica
del movimento reale che compiendosi crea le premesse della propria negazione.
Per Marx «i rapporti di produzione di ogni società costituiscono un tutto»: ciò
significa che egli non immagina i singoli fenomeni o gruppi di fenomeni che
concorrono a formare una totalità come
elementi autonomi provvisti di un'identità e di un significato comprensibili al
di fuori della loro appartenenza all'insieme. Quando per ragioni di studio essi
vengono isolati dalla loro reale situazione, non si deve dimenticare che il
fatto costituisce una forzatura della realtà; in caso contrario si scivola
nell'astrattezza e i risultati ottenuti ne portano il segno. Perciò Marx
afferma che la conoscenza parte dall'astratto, cioè dalla parte isolata, per
arrivare al concreto, cioè alle sue relazioni col tutto (Concreto e astratto); in altri termini
la parte dalla quale ha necessariamente inizio la ricerca è una astrazione.
Questa tesi implica evidentemente la convinzione che il rapporto delle parti
con il tutto non è definibile in termini puramente quantitativi: non è il
rapporto tra gli addendi e la loro somma, così come non lo è, per esempio, il
rapporto tra i diversi organi che costituiscono un corpo vivente; è un tipo di
rapporto diverso, un rapporto appunto dialettico. Si può ora definire un
secondo significato di dialettica: la scienza o la logica consapevole - nel
trattare i singoli problemi - che essi appartengono a una totalità.
I due significati qui illustrati permettono ora di elencare sommariamente altre
caratteristiche costitutive del pensiero dialettico:
la nozione di «superamento» di una qualsiasi situazione (teorica, storica, economica,
ecc.) indica che la nuova situazione, qualitativamente diversa, e prodotta
dall'impossibilità della vecchia situazione di conciliare più oltre le proprie
opposizioni, conserva al suo interno alcuni elementi della situazione
precedente.
La concezione della storia come seguito di graduali trasformazioni che giunte a
un certo punto determinano esplosivi cambiamenti. In altre parole: il
progressivo e costante sviluppo delle forze produttive sociali porta al brusco
mutamento dei rapporti di produzione. La forma storica di questo cambiamento è
la rivoluzione.
La convinzione che ben difficilmente esistono corrispondenze meccaniche,
dirette, unilaterali tra fenomeni o gruppi di fenomeni che pure sono tra loro
interdipendenti. L'esempio classico è quello del rapporto tra struttura e sovrastruttura. E' vero che la seconda
riflette i caratteri distintivi della prima e ne dipende: non però in modo
passivo; così ad esempio la sovrastruttura giuridica agisce di riflesso sulla
base economica fino a modificarla.
L'elenco potrebbe continuare: basterà pensare al rapporto tra teoria e prassi,
tra volontà del soggetto storico e situazione oggettiva, tra scienza e ideologie,
ecc.
Quanto detto può permettere di comprendere certe definizioni allusive della
dialettica, come quella di Herzen («la dialettica è l'algebra della
rivoluzione»); l'insistenza di Engels contro i miti della conoscenza assoluta,
l'attenzione riposta da Lenin nello studio della dialettica hegeliana. E,
soprattutto, si comprende, secondo le parole di Marx, perché la dialettica
materialistica sia «orrore e scandalo per la borghesia e i suoi corifei »: essa
pone accanto alla «comprensione positiva» dell'epoca storica dominata dalla
borghesia, la comprensione del suo declino.
Espressione con la quale si vuole indicare il carattere dialettico del mondo
della natura; non si tratta, ovviamente, di un'estensione ai fenomeni naturali
dei principi elaborati nel mondo storico-sociale, ma della convinzione che il
modo di essere della natura sia dialettico. Anche in questo caso la dialettica
è dunque considerata come appartenente prima alla realtà e poi al pensiero, che
assume qui la forma specifica delle scienze naturali (Scienza).
Nell'ambito delle discipline biologiche la convinzione che i fenomeni studiati
abbiano un carattere dialettico, anche se spesso sono state usate altre
espressioni per indicare la stessa cosa, è da tempo presente e operante; una
delle più semplici constatazioni della biologia e cioè che la cellula vivente,
sia essa animale, vegetale o batterica, è costituita da molecole e da complessi
di molecole non viventi, denota già per più aspetti la dialetticità del
fenomeno vita. Basterà comunque ricordare a questo proposito tre punti
generalissimi:
il fatto che a ogni livello di organizzazione degli elementi costitutivi di un
sistema biologico compaiono funzioni e proprietà diverse da quelle del
precedente livello;
i processi di retroazione, che sono una variante particolare dei processi di
interazione tra le parti di una totalità, attraverso i quali ciò che è regolato
modifica lo stato del regolatore;
le interazioni e gli esiti delle tendenze opposte di conservazione e di
soppressione degli stati di equilibrio.
Nel caso della materia non vivente esiste una situazione diversa; qui per molto
tempo le discipline fisiche più importanti si sono sviluppate al di fuori di
un'immediata evidenza dialettica com'è quella presentata dai fenomeni
biologici. Ma poiché le scienze fisiche sono considerate da decenni come un
modello ideale al quale tutte le scienze avrebbero dovuto uniformarsi, si è
pensato alla natura in generale nei termini propri di queste scienze,
trascurandone o negandone gli aspetti dialettici.
Con l'affermazione della nuova fisica relativistica e quantistica, che ha «superato»
la fisica classica, anche i caratteri dialettici della natura inanimata sono
stati portati in primo piano. Basterà ricordare anche qui alcuni punti
generali: le evidenze per la considerazione dello spazio e del tempo come
elementi distinti di una sola unità; l'opposizione tra il carattere
discontinuo, corpuscolare, e il carattere continuo, ondulatorio, esistenti
nelle stesse particelle subatomiche; l'intero campo dei fenomeni studiati dalla
cibernetica dov'è particolarmente interessante constatare la ripresa e
l'impiego dialettico di molti elementi teorici della fisica classica.
Su queste linee, compatibilmente con lo sviluppo delle scienze in quel dato
momento storico, si era mosso Engels al quale si deve una raccolta di scritti
frammentari e di appunti che avrebbero dovuto servire per un'opera intitolata Dialettica
della natura; Lenin riprese questi temi sia nei suoi studi sul pensiero di
Hegel che nella critica all'empiriocriticismo;
per ambedue il riconoscimento della dialetticità della natura è alla base del materialismo dialettico.
Sull'esistenza o meno di una dialettica della natura è in corso una lunghissima
polemica che risale alle origini del revisionismo;
il rifiuto della concezione dialettica della natura è stato condotto con gli
argomenti più svariati, da quelli dei positivisti che l'accusavano di
metafisica a quelli degli antipositivisti a vario titolo che l'accusavano
invece di positivismo; da quelli dei marxisti occidentali (Marxismo) che la tacciano di materialismo
volgare e di «apologia della scienza borghese» a quelli di coloro che
sentenziano il suo insopprimibile carattere idealistico hegeliano; da quelli
provenienti dalla sfera dell'esistenzialismo a quelli tipici di certe forme di
storicismo.
Ciò che contraddistingue e accomuna tutti coloro che negano la dialetticità
della natura è il fatto di utilizzare per queste polemiche un'immagine del
mondo della natura arcaica, meccanicistica, ottocentesca o addirittura quella
presentata non dalle scienze, ma da certe correnti filosofiche.
E' l'insieme delle norme che regolano i rapporti interni alla società: il
diritto pubblico comprende le leggi che attengono alla sfera pubblica e allo
Stato, il diritto privato sancisce i rapporti tra i singoli individui. I
rapporti giuridici sono quindi l'espressione dei rapporti di produzione:
«In un certo
stadio, molto primitivo, di sviluppo della società sorge il bisogno di
comprendere in una regola comune tutti gli atti della produzione, della
spartizione e dello scambio dei prodotti, atti che ricorrono giornalmente; di
provvedere a che il singolo si assoggetti alle condizioni comuni di produzione
e di scambio. Questa regola, che dapprima è semplice consuetudine, diventa ben
presto legge. Con la legge sorgono necessariamente degli organi
incaricati di farla osservare: i pubblici poteri, lo stato. Procedendo
l'evoluzione sociale, questa legge si sviluppa dando luogo ad una legislazione
più o meno ampia. Più complicato diventa questo sistema, e più la sua
terminologia si allontana da quella mediante cui si esprimono le condizioni
usuali della vita economica. La legislazione acquista l'aspetto di un elemento
indipendente, che fa derivare la giustificazione della propria esistenza e il
motivo del suo ulteriore sviluppo non dai rapporti economici, ma da motivi
propri, immanenti, poniamo dal concetto di volontà. Gli uomini dimenticano che
il loro diritto deriva dalle condizioni della loro esistenza economica, nella
stessa misura in cui hanno dimenticato la propria discendenza dagli animali
(Engels, La questione delle abitazioni, p. 123).
L'origine, la funzione, lo sviluppo del
diritto risiedono dunque nella società, e
poiché questa è l'insieme dei rapporti di produzione e di scambio e delle forme
sovrastrutturali ad essi connessi (Famiglia, Stato, Ideologia)
ne deriva che, nella società divisa in classi in cui prevalgono i rapporti
della proprietà privata e dello scambio, è possibile solo un diritto di classe
e più propriamente il diritto della classe dominante.
Tutte le leggi, gli aggiornamenti, i cambiamenti del diritto sono il riflesso
dei mutamenti economici, ma più esattamente esprimono gli interessi della
classe in ascesa o dominante. Fino alla repubblica di Amalfi, ad esempio, non
esisteva un diritto marittimo: la sua istituzione derivò da condizioni
oggettive, ma la regolamentazione dei rapporti esistenti tra i proprietari di
navi, sancì fondamentalmente l'interesse della borghesia nello specifico
settore del commercio marittimo (Capitale
commerciale). Il diritto, proprio
per non cadere in contraddizione con se stesso, deve imporsi, cioè deve essere
esercitato attraverso il potere: «il diritto è un potere organizzato dalla
classe dominante»; in questo senso diritto e Stato sono elementi inscindibili
del dominio di classe.
Ovviamente questo classismo di fondo del diritto non è riflesso meccanicamente
nelle leggi, e ciò per due motivi:
che costituisce comunque un'astrazione e una concettualizzazione dei rapporti
reali;
che come corpo dottrinario deve tener conto della sua logica interna.
In altri termini il diritto diventa una concezione ideologica, che si
pone nei confronti della realtà sociale in un rapporto dialettico: nato dalla
base economica, «reagisce su questa e può, entro certi limiti, modificarla».
Esiste quindi la possibilità di una funzione rivoluzionaria del diritto, nella
misura in cui la «legge può essere anche creativa». L'esempio più noto è dato
da Marx nel I libro del Capitale a proposito della riduzione della
giornata lavorativa, che ha rappresentato un'affermazione politica e giuridica
del proletariato di portata rivoluzionaria:
«Al pomposo
catalogo dei diritti inalienabili dell'uomo, subentra la Magna Charta di una
giornata lavorativa limitata dalla legge, la quale chiarisce finalmente quando
finisce il tempo veduto dall'operaio e quando comincia il tempo che appartiene
all'operaio stesso» (p. 326).
Ma esiste un altro aspetto del diritto
borghese decisivo per il proletariato: tutte le leggi e le norme che regolano i
rapporti tra la classe degli sfruttatori e la classe degli sfruttati, devono
tener conto del fatto che questi ultimi non possono essere totalmente distrutti
perché sono la condizione dell'esistenza dei primi. Solo lo sfruttato, se vuol
far valere il proprio diritto, deve distruggere lo sfruttatore; secondo
Stučka: «La lotta di classe rivoluzionaria consiste, dunque, nella lotta
per il diritto, a causa del diritto, in nome del proprio diritto di classe».
In una concezione marxista della società, i diritti sanciti dalla democrazia
borghese costituiscono in gran parte una finzione giuridica perché fondati su
una disuguaglianza fondamentale dei «cittadini» (Democrazia borghese).
Fase di transizione dal capitalismo al comunismo, conseguente all'abbattimento
dello Stato borghese; si verifica, secondo Marx, quando il proletariato può
servirsi
«della sua
supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il
capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello
Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e
per aumentare con la massima rapidità possibile, la massa delle forze
produttive» (Manifesto, p. 51).
La dittatura del proletariato è dunque
una delle «determinate fasi storiche», nel processo dialettico legato alla
lotta di classe e allo sviluppo della produzione; quella fase, in particolare,
che media il passaggio dalla società borghese all'avvento della società senza
classi; Per Marx, infatti, l'esistenza delle classi è semplicemente legata a
determinate fasi storiche di sviluppo della produzione e la lotta di classe
porta inevitabilmente alla dittatura del proletariato, che rappresenta soltanto
il momento del passaggio all'abolizione di tutte le classi.
In altri termini è lo stadio in cui, attraverso la rivoluzione, il proletariato
si organizza come classe dominante subentrando alla borghesia nel possesso dei
mezzi di produzione e assumendo un ruolo egemone (Egemonia).
In tal modo prepara la società comunista; si tratta dunque, dice Marx, di un
momento di sviluppo indispensabile all'eliminazione delle differenze di classe
e allo scioglimento dei vecchi rapporti di produzione con tutte le conseguenze
che ne derivano sul piano degli altri rapporti sociali, delle idee, delle
istituzioni, ecc.; è evidente che in questa prospettiva l'espressione
«dittatura del proletariato» non implica alcun carattere di riduzione della
libertà individuale, se non nella misura inevitabile in cui è ancora dominio di
classe. Va infine considerato che se l'espressione può apparire ora infelice
per l'ovvio richiamo alle forme politiche e istituzionali di dittatura che si
sono poi conosciute nella storia, ai tempi di Marx essa aveva una carica
suggestiva che rinviava ai momenti più avanzati dell'antica Roma repubblicana,
così come li avevano colti e amati gli uomini della Rivoluzione francese.
Lenin riprese con forza il concetto marxiano di dittatura del proletariato,
ritenendolo indissolubilmente legato alle tesi sulla funzione rivoluzionaria
del proletariato nella storia:
«la guerra
più eroica e più implacabile della classe nuova contro un nemico più potente,
contro la borghesia, la cui resistenza è decuplicata dal fatto di essere
stata rovesciata (sia pur in un solo paese), e la cui potenza non consiste
soltanto nella forza del capitale internazionale, nella forza e nella solidità
dei legami internazionali della borghesia, ma anche nella forza
dell'abitudine, nella forza della piccola produzione» (L'estremismo,
malattia infantile del comunismo, p. 7).
Il concetto di dittatura del
proletariato è stato ed è oggetto di molte controversie, in buona parte
suscitate da quello che andava sotto questo nome nel periodo staliniano (Stalinismo).
In un primo generico significato indica «la coesistenza di differenti modi di
lavoro» (Lavoro) osservabili concretamente
nelle caratteristiche diverse delle merci. In questo senso la divisione del
lavoro è molto antica; pur restando nell'ambito della produzione separata dallo
scambio essa data dalla comparsa dei primi
mercanti e dei primi artigiani, cioè di persone che all'interno della comunità
svolgevano non occasionalmente attività specifiche.
«In senso capitalistico» la divisione del lavoro indica la coscienza «... del
lavoro particolare che produce una determinata merce,
in una somma di semplici operazioni, combinate e ripartite fra operai
differenti»; una caratteristica fondamentale di questa nuova situazione è che
essa «presuppone la divisione del lavoro entro la società, al di fuori
dell'officina, come divisione delle professioni». Da un punto di vista storico
ciò si manifesta al tempo delle manifatture
al cui interno non solo il lavoro è organizzato in modo che a ciascun operaio
tocchino solo poche e semplici operazioni, ma, ben presto, anche in modo
gerarchico (capisquadra, capireparto, tecnici, ecc.) allo scopo di sorvegliare
e dirigere il lavoro.
Così in una manifattura di carrozze del XVII e XVIII secolo vi sono gli operai
che costruiscono soltanto le razze delle ruote, altri il cerchio, altri ancora
provvedono al loro montaggio e altri a verniciarle. Analogamente per ogni altra
parte e gruppo di parti che costituiscono la carrozza finita. Il risultato è
che nessun operaio saprebbe costruire una carrozza e nemmeno passare
agevolmente da un'operazione all'altra.
Man mano che le operazioni diventano più particolareggiate la divisione del
lavoro si accentua in mansioni sempre meno collegabili da parte del singolo
operaio al prodotto finito; egli diventa un ripetitore di gesti destinati a
produrre oggetti che gli sono estranei e finisce col saper fare sempre meglio e
soltanto quelli. Si perpetuano così i mestieri via via più specializzati e
quindi limitati, la cui esistenza è altrettanto rilevabile fuori della
fabbrica, nella società dove servono a indicare, perfino nei documenti
personali di identità, una precisa collocazione sociale.
D'altra parte, osserva Marx, questo fatto
«presuppone,
per svilupparsi ordinatamente, una certa densità di popolazione, e ancor più la
presuppone lo sviluppo della divisione del lavoro nell'officina. Quest'ultima
divisione, fino a un certo grado presupposto dello sviluppo della prima, a sua
volta l'aumenta per una azione reciproca. Poiché separa operazioni prima
appartenenti alla stessa categoria in altre indipendenti l'una dall'altra,
accresce e differenzia i lavori preparatori indirettamente richiesti da esse, e
infine, con l'accrescimento della produzione, della popolazione, la messa in
libertà di capitale e di lavoro, crea nuovi bisogni e nuove maniere di
soddisfarli ...» (Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 291).
Il modo di produzione capitalistico, in
altri termini, reca in sé la necessità della divisione sociale del lavoro
accanto alla necessità di altre divisioni: del lavoro produttivo dai mezzi di
produzione, dell'uomo-cittadino dall'uomo-operaio, del lavoro intellettuale da
quello manuale, ecc.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx definiva la divisione
del lavoro come «l'espressione economica della socialità del lavoro
nell'alienazione umana»; più tardi, nella sua maturità, accentuando l'analisi
dei meccanismi che producevano l'alienazione piuttosto che descrivere le sue
forme, scrisse:
«La divisione
del lavoro sviluppa la forza produttiva sociale del lavoro o la forza
produttiva del lavoro sociale, ma a spese della capacità produttiva generale
dell'operaio. E quell'aumento della forza produttiva sociale gli si contrappone
quindi come aumentata forza produttiva non del suo lavoro, ma della potenza che
lo domina, del capitale» (ivi, p. 91).
La soppressione del modo capitalistico
di produzione porta dunque con sé la fine del lavoro diviso e perciò alienato,
vissuto da chi lo compie come monotonia, costrizione insensata, ripetizione,
soffocamento delle inclinazioni naturali, mancanza di sviluppo aperto della
propria personalità. Insieme cadranno anche la divisione tra il pur necessario
lavoro manuale e il lavoro intellettuale, creativo, artistico che sarà liberato
a sua volta dalla servitù materiale e dal carattere di privilegio di classe;
anche la divisione del lavoro su scala mondiale, prodotto tipico dell'età
dell'imperialismo, potrà allora essere eliminata venendo meno il potere che
assegna in nome del profitto a certi paesi alcuni tipi di produzione piuttosto
che altri.
La divisione del lavoro è dunque un fenomeno che si manifesta su piani diversi
ma tra loro connessi; non solo nel luogo del lavoro ma nella società, non solo
in ragione della specificità del lavoro svolto ma del «grado» occupato
nell'organizzazione del lavoro in fabbrica. Divenuta reale con la separazione
del lavoro intellettuale da quello materiale, la divisione «sociale» del lavoro
è un evento parallelo a quello della proprietà
privata. Meglio, secondo Marx, le due espressioni indicano la stessa cosa:
la divisione del lavoro «in riferimento all'attività », la proprietà privata
«in riferimento al prodotto dell'attività ».
La caratteristica del dogmatismo è lo schematismo antidialettico (Dialettica), cioè la tendenza a cogliere tra
gli elementi costitutivi della realtà unicamente quelli che immediatamente coincidono
con le formule di cui si è in possesso e a cui non si intende rinunciare.
L'incomprensione del carattere dinamico e problematico della realtà, del fatto
che «ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di
programmi», porta al dottrinarismo e al formalismo nell'enunciazione teorica e,
nell'azione pratica, al distacco dalla realtà, la quale viene intesa non per
ciò che è, quanto piuttosto per ciò che si vorrebbe fosse, secondo i propri
intendimenti. Il risultato è la sovrapposizione dei propri desideri alla
realtà, la semplificazione dei processi e dei nessi reali, l'incapacità di
operare - in ogni situazione concreta - un'analisi concreta e critica che ne
colga le priorità e le specificità. Il dogmatismo conduce cioè all'impotenza e
all'immobilismo verso una situazione che non si riesce a comprendere o, peggio,
al tentativo artificioso di far rientrare nei propri schemi astratti una realtà
infinitamente più ricca e quindi al fallimento pratico, alla sconfitta.
Se di ogni pensiero è possibile una riduzione dogmatica, in particolare il
disconoscimento del carattere critico e dinamico del marxismo ha rappresentato uno dei pericoli più
gravi e ricorrenti nell'esperienza storica dei comunisti. Marx e Lenin, nel
corso delle battaglie teoriche e politiche da essi condotte, misero
ripetutamente in rilievo il carattere antidogmatico del marxismo.
In particolare il metodo dogmatico, che sostituisce all'interpretazione e alla
costruzione storica la semplice descrizione esteriore dei fatti sulla base di
pochi principi ritenuti assoluti, porta a una concezione statica e libresca del
marxismo e all'incapacità di legare la sua teoria
generale alla pratica rivoluzionaria
comunista, nelle diverse situazioni particolari e originali in cui la lotta di classe si può sviluppare.
«Noi non consideriamo affatto la teoria
di Marx come qualcosa di definitivo e di intangibile; siamo convinti, al
contrario, che essa ha posto soltanto le pietre angolari della scienza che i
socialisti devono far progredire in tutte le direzioni, se non vogliono
lasciarsi distanziare dalla vita» (Lenin, Il nostro programma, in Marx-Engels-Marxismo,
pp. 100-101).