a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
La concezione
materialistica della storia (Materialismo
storico) e della società intende la politica soprattutto come lotta fra le
classi.
Nella società capitalistica la formazione di due grandi classi antagonistiche,
la borghesia e il proletariato, lo sviluppo di istituzioni statali molto
complesse e, in generale, l'estensione e l'approfondimento dei rapporti
sociali, hanno condotto alla nascita e alla proliferazione di concezioni che
affrontano i problemi dei rapporti tra gli uomini principalmente sotto il
profilo politico. Esse cioè interpretano le diverse fasi storiche e formulano
dei programmi indicando degli obiettivi e degli strumenti per determinare, in
senso favorevole all'una o all'altra classe, gli ulteriori sviluppi economici,
sociali e istituzionali.
La formazione dei grandi partiti politici
moderni è infatti dovuta in primo luogo all'adesione di masse più o meno
considerevoli ai programmi e alle prospettive politiche formulati in
corrispondenza agli interessi delle classi in lotta fra loro. Il movimento operaio
ha elaborato i suoi programmi e metodi di lotta politica mettendo soprattutto
in evidenza lo stretto collegamento che sussiste fra interessi economici e
prospettive politiche. In ciò la strategia
del movimento operaio differisce anche dal punto di vista del metodo politico
dalle concezioni borghesi: infatti essa fa esplicito riferimento agli interessi
economici delle classi sfruttate e non cerca affatto di nascondere e
mistificare questi interessi, caratteristica propria invece delle teorie
politiche borghesi. Già Marx ed Engels, nel concludere il Manifesto del
Partito comunista, affermano che i comunisti nella loro lotta
«... mettono avanti sempre la questione
della proprietà, abbia essa raggiunto una forma più o meno sviluppata, come la
questione fondamentale del movimento … I comunisti sdegnano di nascondere le
loro opinioni e le loro intenzioni» (Manifesto, p. 67).
Inoltre l'analisi marxista del modo di produzione capitalistico fornisce alla
classe operaia uno strumento teorico infinitamente più esatto di quanto non
siano le ideologie politiche di orientamento borghese: analisi che consente
l'elaborazione di una strategia che riesca a individuare le linee di tendenza
dello sviluppo generale dell'intera società capitalistica. E' adottando un
metodo di analisi marxista, che Lenin fu in grado di preparare nel corso stesso
della rivoluzione un programma e un'organizzazione del partito bolscevico che
corrispondesse sostanzialmente alle esigenze poste dalle diverse fasi di
sviluppo del processo rivoluzionario. Criticando la ristrettezza delle
concezioni borghesi della politica, egli afferma:
«Nella concezione borghese del mondo la
politica è stata come separata dall'economia. La borghesia diceva: contadini,
lavorate per procurarvi i mezzi di sussistenza; operai, lavorate per procurarvi
sul mercato quanto vi è indispensabile per vivere; ma lasciate che siano i
vostri padroni a occuparsi della politica economica! Ma le cose non stanno
così, la politica deve essere opera del popolo, deve essere opera del
proletariato. Ed è qui necessario sottolineare che i nove decimi del nostro
tempo e della nostra attività sono dedicati alla lotta contro la borghesia»
(Lenin, Discorso alla conferenza panrussa dei comitati per l'istruzione
politica, in Opere scelte, vol. unico, p. 650).
L'esperienza storica del movimento operaio internazionale nella lotta contro il
fascismo ha permesso un ulteriore
approfondimento della concezione scientifica della politica, iniziata da Marx
ed Engels; uno dei tratti caratteristici è costituito dallo stretto rapporto
individuato tra coscienza di classe e
sviluppo dell'organizzazione politica in senso stretto (Centralismo democratico).
Gramsci ha affrontato questo problema soprattutto riferendosi alla funzione di
direzione complessiva che il partito della classe operaia deve essere in grado
di sviluppare (Egemonia), giungendo a
formulare una concezione del partito politico come intellettuale collettivo.
Storicamente
è il movimento rivoluzionario sorto in Russia con l'abolizione della servitù
(1861), quando ampi strati di popolazione contadina entrarono nella lotta
politica, da cui fino allora erano stati esclusi.
Questo movimento, che durò fino alla rivoluzione, ebbe come base l'obscina (comunità
agricola di famiglie della stessa origine) e fu contrario sia alla burocrazia
di tipo zarista che all'industrialismo occidentale; riteneva inoltre che i
contadini e non il proletariato fossero la principale forza rivoluzionaria.
Largamente influenzato dalle idee socialiste, si fece promotore principalmente
della rivendicazione di una gestione collettiva della terra e di
un'organizzazione statale alternativa a quella autocratica allora esistente.
Significativa fu l'adesione di intellettuali e la formazione di gruppi politici
che svolgevano attività di propaganda e di organizzazione, i cui membri spesso
appartenevano a classi sociali elevate.
Il massimo esponente del populismo fu N. Cernyševskij, il quale sosteneva, fra
l'altro, la necessità che la cultura fosse al servizio del popolo. Leone
Tolstoi aderì sostanzialmente a queste idee e le espresse nei suoi romanzi.
Il fermento politico e intellettuale prodotto dal movimento e la vasta e
capillare opera di propaganda costituirono una delle basi da cui iniziò
l'organizzazione di un movimento socialista di carattere marxista in Russia. Lo
stesso Plechanov, che fu tra i principali divulgatori del marxismo sovietico,
aderì in un primo momento all'organizzazione populista, che allora era più
consistente. Ricorda Lenin: «All'inizio del primo periodo la dottrina di Marx
non predomina affatto, essa non rappresenta che una delle frazioni o correnti
straordinariamente numerose del socialismo. Predominano invece quelle forme di
socialismo che, in sostanza, sono apparentate al nostro populismo».
L'incomprensione del ruolo fondamentale della classe operaia nel processo
rivoluzionario portò tuttavia ben presto i populisti su posizioni arretrate
rispetto alle necessità storiche. Contribuì alla decadenza del movimento la brutale
repressione dello zarismo, che si abbatté soprattutto sulla corrente
«nichilista».
Il movimento marxista in Russia, pur riconoscendo il carattere sostanzialmente
progressista del populismo, ne criticò aspramente gli errori politici e
organizzativi, sostituendo alle forme di primitiva organizzazione dei contadini
un saldo movimento imperniato sul proletariato industriale che seppe del resto
suscitare consensi tra gli stessi contadini.
Attualmente il termine viene usato in senso dispregiativo per indicare coloro
che «vanno verso il popolo» senza partecipare realmente alle sue lotte.
Indirizzo
filosofico sviluppato dal filosofo francese Auguste Comte, a partire dal 1830,
sulla base di un esame critico dello sviluppo della scienza e della tecnica,
attorno ai problemi conoscitivi e di metodo che esse presentavano in rapporto
agli altri ambiti del sapere.
Il punto di partenza di Comte è l'assunzione delle scienze naturali come fonte
privilegiata di conoscenza, e del fatto empirico e delle sue leggi come i soli
dati positivi su cui sviluppare l'attività umana razionale. Con questa
affermazione il positivismo respingeva integralmente tutta la tradizione
filosofica idealistica (Idealismo) e ogni pretesa
metafisica di indagine che superasse l'oggettività dei fatti e dei fenomeni.
Veniva fondata una filosofia che trovava la sua funzione nell'accogliere e
mettere in collegamento i risultati delle scienze. Suo oggetto di indagine è
quello stesso delle scienze, visto però nell'unità organica di tutti i fenomeni
della natura e ponendo le scienze all'interno del movimento storico dello
sviluppo del pensiero umano, che fornisce proprio alla ricerca scientifica il
suo significato reale e razionale.
Se le scienze hanno il compito non di rispondere alle astratte domande della
metafisica, ma di spiegare i fenomeni, attraverso la previsione delle loro
manifestazioni, la filosofia positiva, mediante una nuova concezione del sapere
e della storia, fonda su di esse il progresso dell'umanità e la realizzazione
di una scienza generale della società che Comte chiama sociologia. Sulla base di una classificazione
delle scienze che mostri la connessione delle varie discipline all'interno del
processo unitario del pensiero umano, Comte giungeva a delineare una «legge dei
tre stadi», che segnava le linee di progresso dell'umanità e dei suoi sistemi
intellettuali, secondo tre caratteri distinti e successivi:
«il carattere teologico, il carattere
metafisico e il carattere positivo o fisico. Così l'uomo ha cominciato a
concepire i fenomeni di tutti i generi come dovuti alla influenza diretta e
continua di agenti sovrannaturali; li ha poi considerati come prodotti da
diverse forze astratte inerenti ai corpi, … infine si è limitato a considerarli
come sottoposti a un certo numero di leggi naturali invariabili che non sono
altro che l'espressione generale delle relazioni osservate nel loro sviluppo»
(Comte, Opuscoli di filosofia sociale; considerazioni filosofiche sulle
scienze e gli uomini di scienza, p. 181).
Il positivismo ha rappresentato una delle correnti più importanti nella
filosofia del sec. XIX, di cui influenzò molta parte degli sviluppi,
soprattutto nel campo dell'indagine sulle scienze. Più che gli specifici
risultati del pensiero comtiano, i suoi principi essenziali divennero
l'orientamento prevalente non solo in filosofia ma nell'intero ambito della
cultura per tutto l'Ottocento. La funzione antimetafisica delle scienze, l'accettazione
dei risultati scientifici come condizione per lo sviluppo progressivo del
sapere, l'estensione del metodo scientifico, come unico valido per la
conoscenza della realtà: le discipline sociali vennero poste alla base di
filosofie che per altri versi pure erano tra di esse completamente diverse.
Il pensiero positivista rispondeva alle esigenze tecnico-industriali del mondo
capitalistico nella sua più piena e ottimistica espansione. Collegandosi con il
grande sviluppo delle scienze e della tecnica, esso rappresentava l'ultima
espressione di quella forma razionalistica e universalistica con cui il
pensiero borghese si era realizzato nel secolo precedente attraverso l'illuminismo. L'assunzione acritica delle
leggi scientifiche, l'estensione meccanica dei suoi caratteri a tutta la
cultura, la visione ingenua di una scienza che, ritenendo come assoluti i suoi
risultati, potesse dare soluzione a tutti i problemi dell'uomo, portò tuttavia
il positivismo verso una degenerazione meccanicistica (Meccanicismo), fondata su generalizzazioni
astratte e dogmatiche.
L'influenza positivistica in campo letterario e artistico, se nasceva con
l'intenzione di un'attenzione fedele alla realtà sociale e naturale, si risolse
nella riproduzione acritica e banale della realtà, priva di un'interpretazione
soggettiva e creativa. L'accoglimento dei temi dell'evoluzionismo non giovò al positivismo, ma
anzi ne accentuò, in particolare nell'opera dell'inglese Spencer, gli aspetti
deterministici e meccanici. Anche il marxismo ne fu gravemente influenzato
nelle sue espressioni politiche e teoriche, cadendo nell'incomprensione e nella
negazione della dialettica. La crisi del
meccanicismo nelle scienze e la crisi del liberismo economico preparò
nell'ambito della cultura e della filosofia quella reazione al positivismo che,
nei primi decenni del '900 fece riemergere le istanze spiritualistiche e
irrazionalistiche che, contro l'esaltazione positivistica delle scienze, ne
negavano totalmente il valore conoscitivo e critico. Ciononostante il positivismo
non cessò di essere un punto di riferimento in filosofia. La validità di alcune
sue esigenze fu riflessa negli sviluppi di alcuni indirizzi contemporanei e in
particolare del neopositivismo e del pragmatismo che al
positivismo fecero esplicito riferimento, sia pure in modo critico.
Nel senso più
generale la pratica o la prassi è l'attività materiale di trasformazione della
realtà, come distinta o separata dall'attività intellettuale e in particolare
dalla teoria. Marx, soprattutto nella sua
critica all'ideologia e alla filosofia, ha sviluppato una concezione dei
rapporti che intercorrono fra prassi e teoria e della funzione della prassi,
radicalmente contrastante con le interpretazioni che l'idealismo e il materialismo meccanicistico del
'700, e lo stesso materialismo di Feuerbach, che egli definisce «ingenuo»,
avevano dato di questi problemi.
Secondo l'analisi di Marx l'origine della separazione fra attività manuale,
pratica, e attività intellettuale, teorica, è da ricercarsi non esclusivamente
in una differenza naturale tra questi due aspetti dell'attività umana, ma nel
processo storico che, attraverso la divisione
del lavoro, ha approfondito la distinzione tra il ruolo della teoria e
quello, ad esso contrapposto, della prassi, che appare così privo di qualsiasi
funzione conoscitiva. Nella società capitalistica questa separazione si
presenta nel suo massimo approfondimento: prassi è solo appropriazione e
trasformazione degli oggetti materiali e teoria è solo comprensione e
ragionamento; la teoria sembra avere in se stessa la sua origine e la sua
completezza, e la prassi non ha apparentemente alcun collegamento con essa.
La concezione materialistica e dialettica della prassi e della sua funzione
trae origine dalla negazione di questa astratta e schematica separazione, e
afferma la necessità storica di una riunificazione di prassi e teoria sia come
attività umana in generale che come lavoro manuale e comprensione teorica.
Questa concezione della pratica assume come fondamento la realtà materiale e
storica in cui gli uomini sono inseriti. Nelle Tesi su Feuerbach Marx
chiarisce in forma estremamente sintetica (questi scritti erano appunti
personali) alcuni aspetti del superamento critico della concezione di
Feuerbach, che a sua volta costitutiva un tentativo di critica all'idealismo hegeliano.
Queste «tesi» sono prevalentemente dedicate al problema della pratica.
Nell'VIII viene affermato:
«Tutta la vita sociale è essenzialmente
pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo
trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di
questa prassi» (in Opere, V, p. 5).
Uno dei punti centrali dell'interpretazione marxista della pratica è infatti
l'affermazione materialistica della superiorità, della priorità, del momento
concreto di trasformazione del mondo su quello della semplice interpretazione
teorica. Questa priorità della prassi tuttavia nel marxismo non dà luogo in
alcun modo a quello che viene comunemente inteso come pragmatismo, cioè
a una svalutazione complessiva della teoria e alla negazione, in definitiva,
della necessità della comprensione teorica. Inoltre, essendo la pratica per sua
natura sociale, essa resta incomprensibile qualora venga considerata come
fenomeno puramente individuale: deve dunque essere compresa all'interno dei rapporti
sociali in cui essa si svolge. Il lavoro umano risulta così il fondamento
materiale di tutta la società e quindi la pratica sociale è il fondamento anche
della teoria che non viene più intesa come attività separata, ma come
un'attività che acquista il suo pieno significato solo nel suo rapporto con la
prassi:
«La questione se al pensiero umano
spetti una verità oggettiva, non è questione teorica bensì una questione pratica.
Nella prassi l'uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il
carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del
pensiero - isolato dalla prassi - è una questione meramente scolastica» (ivi,
II Tesi, p.4).
Infatti la prassi in quanto realizzazione della teoria può essere intesa come
criterio della verità o falsità di una teoria. Lenin riprendendo e sviluppando
sia le considerazioni svolte da Marx nelle Tesi su Feuerbach, che quelle
di Engels in Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica
tedesca, affronta nella sua opera Materialismo ed empiriocriticismo il
problema del rapporto tra pratica e conoscenza scientifica, affermando che il materialismo dialettico è la
concezione che meglio si adegua all'effettivo sviluppo delle scienze proprio
perché collega strettamente la pratica e la teoria, garantendo attraverso il
«criterio della pratica» di evitare il rischio di cadere nel dogmatismo:
«Il punto di vista della vita, della
pratica, dev'essere il punto di vista primo e fondamentale della teoria della
conoscenza ... Certo, non si deve dimenticate che il criterio della pratica, in
sostanza, non può mai confermare o confutate completamente una
rappresentazione umana qualunque essa sia. Anche questo criterio è talmente
«indeterminato» da non permettere alle conoscenze dell'uomo di trasformarsi in
un «assoluto»; ma nello stesso tempo è abbastanza determinato per permettere
una lotta implacabile contro tutte le varietà dell'idealismo e
dell'agnosticismo. Se ciò che la nostra pratica conferma è la verità obiettiva,
unica, finale, ne deriva l'ammissione che l'unica via che conduce a questa
verità è la via della scienza che si mette dal punto di vista del materialismo»
(Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, pp. 130-131).
Con questo
termine si intende la capacità o la possibilità di una teoria di operare, attraverso l'analisi e il
giudizio sul presente, una previsione e una rappresentazione di eventi che si
attueranno, o per la cui realizzazione si opera.
In particolare per il marxismo il termine rimanda direttamente al legame fra teoria e pratica
e cioè alla capacità da parte di un soggetto politico di creare, attraverso
l'analisi teorica dei presupposti, dei processi e delle potenzialità concrete
di una situazione storica, le condizioni pratiche del suo superamento (Dialettica). Ad esempio la critica di Marx
all'economia politica borghese prefigura il rovesciamento dei rapporti di
produzione capitalistici e l'instaurazione del socialismo.
Nel pensiero gramsciano il termine assume un significato originale e specifico,
indicando la necessità e la possibilità da parte dei comunisti di operare
politicamente e culturalmente per la creazione - già all'interno della società
borghese - di valori, comportamenti ed embrioni di una nuova cultura che prefigurino
quelli comunisti, tali cioè da preparare, attraverso un progetto egemonico, al
contempo il rovesciamento dei modelli culturali del capitalismo e 1'«abitudine»
ai nuovi valori e a una pratica diversa nel rapporto fra gli uomini.
E' il nome in
denaro del valore di una merce. In altri termini il prezzo è la
rappresentazione di una merce nella forma di un equivalente generale, cioè
di una merce che possa essere immediatamente scambiata, in quantità
determinate, con tutte le altre. Secondo Marx:
«Il prezzo, ossia la forma di denaro
delle merci, è, come la loro forma di valore in generale, una forma distinta
dalla loro forma corporea tangibilmente reale, quindi è solo forma ideale,
ossia rappresentata» (Il Capitale, libro I, p. 128).
Infatti i prezzi possono essere considerati come espressione della quantità di
denaro necessaria per acquistare una merce. Marx mette in rilievo la
possibilità di una incongruenza quantitativa fra grandezza di valore e prezzo
di una merce prodotta capitalisticamente, tuttavia il fatto che questa
incongruenza si verifichi non è un difetto della forma di prezzo, «anzi al
contrario ne fa la forma adeguata d'un modo di produzione nel quale la regola
si può far valere soltanto come legge della sregolatezza, operante alla cieca».
Inoltre Marx mostra l'infondatezza delle concezioni che fanno derivare il plusvalore da una disparità tra prezzo e
valore delle merci, come se il plusvalore derivasse esclusivamente dalla sfera
della circolazione in particolare dalla vendita delle merci a un prezzo
superiore al loro valore.
Il prezzo di costo di una merce prodotta è costituito dalla somma del capitale costante e capitale
variabile impiegati nella sua produzione. E' quindi inferiore al valore
della merce prodotta che invece è dato da tale somma più il plusvalore. La
trasformazione del plusvalore in profitto nel
momento della vendita della merce si realizza quindi anche se la merce prodotta
viene venduta al di sotto del suo valore, a condizione che sia venduta a un
prezzo superiore al prezzo di costo.
Il prezzo di produzione è, invece, la somma di prezzo di costo e
profitto medio (Profitto). A un grado
notevole di sviluppo del modo di produzione capitalistico i prezzi delle merci
risultano apparentemente come determinati dal loro prezzo di produzione:
«Il prezzo di produzione contiene il
profitto medio ... quegli stessi economisti, i quali non ammettono che il
valore delle merci sia determinato dal tempo di lavoro, dalla quantità di
lavoro che esse contengono, parlano sempre dei prezzi di produzione come di
centri attorno ai quali oscillano i prezzi di mercato. Essi se lo possono
permettere perché il prezzo di produzione è già una forma del tutto esteriore e
prima facie [al primo aspetto] vuota del contenuto del valore, una forma
che appare nella concorrenza, nella coscienza del capitalista volgare e per
conseguenza può essere presente anche nell'economista volgare» (ivi, libro
III, p. 242).
Concezione
secondo la quale il momento tecnico e quantitativo della produzione viene
privilegiato rispetto all'elemento umano e sociale presente nell'organizzazione
del lavoro.
Nella società capitalista, al fine di raggiungere la più alta produttività
possibile in tempi e costi minori, e quindi per l'accumulazione di sempre
maggior profitto, il produttivismo tende a usare ogni innovazione tecnica e a
trovare sempre nuovi metodi di lavorazione, spesso a scapito delle condizioni
fisiche e psicologiche del lavoratore.
E' un fenomeno tipico della società americana; si manifesta accanto al
consumismo come negazione o appiattimento della personalità stessa dei
lavoratori, anche se è spesso stato presentato come presupposto del mito del
benessere.
Una delle forme di produttivismo esasperato della società americana è il taylorismo,
dal nome del Taylor che per primo pensò alla razionalizzazione del lavoro e
alla sua suddivisione tramite programmazioni scientifiche, per aumentare la
produzione. Del taylorismo Gramsci scrive:
«Il Taylor esprime con cinismo brutale
il fine della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli
atteggiamenti meccanici ed automatici, spezzare il vecchio nesso psicologico
del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione
attiva dell'intelligenza, dell'iniziativa, della fantasia del lavoratore e
ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale» (Quaderni
del Carcere, p. 2116).
Anche nelle società socialiste possono verificarsi casi di produttivismo quando
il raggiungimento dell'obiettivo produttivo venga anteposto all'organizzazione
sociale del lavoro.
E' il
plusvalore considerato come parte del valore complessivo della merce in cui è
incorporato il pluslavoro. La distinzione tra profitto e plusvalore è
necessaria innanzitutto perché il primo «non viene intascato tutto
dall'imprenditore capitalista» mentre il secondo è da questi «spremuto
direttamente dall'operaio». Si consideri l'esempio comunissimo di un
imprenditore che paghi l'affitto del terreno sul quale è posta la sua fabbrica
e, nel contempo, si sia fatto prestare una certa somma di denaro da un altro
capitalista o abbia da pagare macchine e materie prime ad altri, il che, nei
limiti di questo esempio, è lo stesso. Quando egli si sia impossessato di un
plusvalore di cento milioni, ne dovrà sborsare, poniamo, dieci per l'affitto
del terreno e trenta per gli interessi. Il suo profitto sarà di sessanta
milioni contro un plusvalore di cento milioni prodotto dalla forza-lavoro da
lui comperata. Ecco quindi che:
Il Rendita fondiaria, interesse e
profitto industriale sono soltanto nomi diversi per diverse parti del
plusvalore della merce, o del lavoro non pagato in essa contenuto, e
scaturiscono in ugual modo da questa fonte e unicamente da questa fonte. Essi
non derivano dal suolo come tale o dal capitale come tale; ma suolo e
capitale danno la possibilità ai loro proprietari di ricevere la loro parte
rispettiva del plusvalore che l'imprenditore capitalista spreme dall'operaio»
(Marx, Salario, prezzo e profitto, pp. 67, 68).
Le interpretazioni borghesi dell'economia politica usano in generale
esclusivamente il termine «profitto» per indicare il cosiddetto «guadagno
dell'imprenditore»: cosi il profitto perde qualunque rapporto con il
plusvalore, in quanto viene calcolato detraendo dal prezzo di vendita della
merce il suo prezzo di costo, determinato non già come somma del capitale
costante e del capitale variabile impiegati nella produzione, ma come somma di
capitale fisso e circolante. Occorre anzitutto notare che nel cosiddetto capitale
circolante, ad esempio, è contenuto non solo il valore dei salari ma anche il
valore delle merci utilizzate nella produzione: «Il profitto, quale ci appare
qui è dunque la stessa cosa che il plusvalore, soltanto in una forma
mistificata, che per altro sorge necessariamente nel modo capitalistico di
produzione».
Il profitto può anche essere considerato come la realizzazione del valore del
plusprodotto (Plusvalore). Anche da questo
punto di vista può evidentemente sorgere una differenza quantitativa tra
plusvalore e profitto, poiché il prezzo a cui viene venduta la merce prodotta
può subire notevoli variazioni determinate dalla concorrenza e da altri
fattori. Infatti il prodotto può essere venduto al di sopra o al di sotto del
suo valore; in quest'ultimo caso il profitto che ne trae il capitalista è
soltanto una parte del plusvalore di cui si è appropriato. Ma la restante parte
di plusvalore viene anch'essa immessa nella circolazione come profitto del
compratore, che ha comprato la merce al di sotto del suo valore reale.
«Se dunque la merce è venduta al suo
valore, si realizza un profitto che è pari all'eccedenza del valore rispetto al
prezzo di costo, vale a dire all'intero plusvalore incorporato nel valore della
merce. Ma il capitalista può vendere la merce con profitto, anche se la vende a
meno del suo valore. Fintanto che il prezzo di vendita, pur essendo inferiore
al valore, supera il prezzo di costo, si realizza pur sempre una parte del
plusvalore contenuto nella merce, vale a dire si determina pur sempre un
profitto» (Il Capitale, libro III, p. 63).
Nell'analisi del profitto e del saggio del profitto
Marx mette in particolare rilievo il processo di trasformazione del profitto in
profitto medio, e del saggio del profitto in saggio medio del
profitto o saggio del profitto medio. I capitoli dedicati a questo problema
sono molto complessi; si possono tuttavia riassumere molto brevemente alcuni
aspetti essenziali. Considerando un singolo settore produttivo, i capitalisti
che impiegano capitali della stessa grandezza ottengono approssimativamente lo
stesso profitto. Infatti, nonostante il fatto che i profitti dovrebbero essere
diversi nella misura in cui il plusprodotto sia costituito di merci di valore
diverso, la concorrenza tra i capitalisti dello stesso settore li costringe a
vendere i loro prodotti ai prezzi di mercato, che non permettono di realizzare
interamente il valore del plusprodotto di cui sono proprietari. I loro pro-
fitti vengono livellati attorno a una media dalla concorrenza nella vendita
delle merci.
Anche considerando i diversi settori produttivi la concorrenza fa sì che la
proporzione di profitto ottenibile con capitali uguali oscilli intorno a una
media. Infatti, anche se nei settori produttivi in cui la composizione organica
del capitale
richiesto per la produzione è inferiore dovrebbero venire realizzati profitti
superiori, nel concreto sviluppo della società capitalistica i capitalisti,
proprio perché impiegano i loro capitali principalmente dove esiste la
possibilità di ottenere maggiori profitti, a lungo andare provocano le
condizioni di una sovrapproduzione e
i prezzi delle merci prodotte in quei settori diminuiscono, e quindi i loro
profitti tendono a ritornare ai valori medi degli altri settori produttivi. In
una fase avanzata di sviluppo del modo di produzione capitalistico la stessa
quantità di capitale impiegata in settori diversi, uguale rimanendo il saggio
del plusvalore e il tempo di rotazione del capitale, dà origine a
profitti sostanzialmente uguali.
Storicamente
il proletariato moderno è andato costituendosi durante lo sviluppo
dell'economia capitalistica tra il XVI e il XVIII secolo, quando l'industria
manifatturiera (Manifattura) si sostituì
alla produzione artigianale individuale: nell'impossibilità di reggere alla
concorrenza, gli artigiani furono costretti a separarsi dai propri mezzi di
lavoro e a vendersi come semplice forza-lavoro; parimenti i proprietari di
piccoli appezzamenti di terreno, costretti a lasciare la campagna, si vendevano
come forza-lavoro al proprietario della manifattura.
La prima definizione del proletariato è dunque quella di essere, nel sistema di
produzione capitalistico, la classe produttrice che non possiede i mezzi di
produzione e che di conseguenza vende la propria forza-lavoro.
Con la trasformazione della manifattura in grande industria
mediante l'introduzione delle macchine, il proletariato subisce un'ulteriore
dequalificazione e arretramento: la fabbrica è il luogo della completa
sottomissione del lavoro al dominio del capitale; non solo i mezzi di produzione non appartengono
all'operaio, ma anche l'organizzazione, gli scopi e il prodotto del suo lavoro
gli sono ignoti e, per dirla con Marx, «estranei» (Estraniazione).
«Il lavoro dei proletari, con
l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro ha perduto
ogni carattere d'indipendenza e quindi ogni attrattiva per l'operaio. Questi
diventa un semplice accessorio della macchina, un accessorio da cui non si
chiede che un'operazione estremamente semplice, monotona, facilissima ad
imparare» (Manifesto, p. 34).
Tuttavia questa condizione di massima degradazione dell'uomo reca in sé i segni
storici del suo riscatto: quanto più la fabbrica livella e riduce a oggetti gli
operai, tanto più questi prendono coscienza dapprima della propria forza
numerica, quindi, organizzandosi, della propria forza politica, infine del
proprio ruolo storico. Questo è del resto insito nel processo produttivo
stesso: il proletariato è infatti l'unica classe della storia la cui
emancipazione sia legata alla fine della divisione in classi della società; in
altre parole, come dice Marx, «Di tutte le classi che si contrappongono oggi
alla borghesia solo il proletariato costituisce una classe realmente
rivoluzionaria».
La storia dei paesi ad alto sviluppo capitalistico sembra smentire questa
funzione del proletariato, le cui caratteristiche socio-economiche sono assai
mutate; ma è necessario tener presente che l'epoca attuale è quella
dell'imperialismo e che lo scontro di classe, come dice Lenin, non può essere
visto solo nell'ambito delle singole nazioni, ma su scala mondiale, anche come
lotta contro un «pugno di paesi progrediti» che opprimono la stragrande
maggioranza della popolazione del mondo.
Il grande merito di Marx e di Engels davanti al proletariato di tutto il mondo,
scriveva Lenin, si può cosi riassumere: insegnarono al proletariato a conoscere
se stesso, a trovare la propria coscienza, ad abbandonare le illusioni
per mettere al loro posto la scienza. In queste poche parole è tracciato il
rapporto tra il marxismo e il proletariato: l'uno è la «coscienza teorica»
dell'altro, il sapere di cui la classe si appropria, la conoscenza scientifica
che guida l'azione rivoluzionaria.
E' il
processo attraverso il quale coloro che appartengono a classi e ceti diversi
entrano a far parte del proletariato.
Il termine viene talvolta usato anche per indicare la genesi del proletariato
moderno, cioè la perdita dei mezzi e delle condizioni di lavoro dei lavoratori
indipendenti durante il periodo dell'accumulazione
originaria. Nell'epoca dominata dal modo di produzione capitalistico accade
che
«Quelli che furono sinora i ceti medi,
i piccoli industriali, negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli
artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato,
in parte perché il loro esiguo capitale non basta all'esercizio della grande
industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in
parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi
modi di produzione. Così il proletariato si recluta da tutte le classi della
popolazione» (Manifesto, p. 35).
Questo processo può essere valutato in termini numerici: negli USA per
esempio, la popolazione attiva consisteva nel 1880 del 36,9% di imprenditori e
del 62% di salariati, nel 1960 del 14% di imprenditori e dell'84,2% di
salariati.
Attualmente si parla spesso di proletarizzazione in modo diverso, facendo
riferimento alla tendenziale e progressiva assimilazione dei nuovi strati
tecnici e intellettuali impiegati prevalentemente nel terziario (Ceto) al
proletariato.
Indica
genericamente la facoltà di disporre pienamente ed esclusivamente di beni di
varia natura entro i limiti fissati dalle leggi nei vari momenti storici.
All'interno del marxismo, l'interesse è centrato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e non su quella dei
mezzi di sussistenza o di altri beni di consumo.
Da un punto di vista molto generale la nascita della proprietà privata è
connessa con la comparsa della divisione del lavoro;
Marx noterà che le due espressioni indicano la stessa cosa sotto due aspetti
diversi: uno riguardante il prodotto dell'attività lavorativa, l'altro
l'attività lavorativa stessa. Tra le popolazioni primitive esisteva una
comunanza della produzione che pur svolgendosi entro limiti assai ristretti
comportava
«... il dominio dei produttori sul loro
processo di produzione e sul loro prodotto. Essi sanno che cosa avverrà del
loro prodotto e lo consumano senza che esso lasci le loro mani, e la
produzione, finché viene condotta su questa base, non può soverchiare i
produttori né produrre, di fronte a loro, lo spettro di potenze estranee; il
che accade regolarmente ed inevitabilmente nella civiltà. Ma in questo processo
di produzione si insinua lentamente la divisione del lavoro. Essa mina la
comunanza della produzione e dell'appropriazione, innalza a regola prevalente l'appropriazione
individuale e produce con ciò lo scambio tra individui ... Gradatamente, la
produzione delle merci diventa la forma dominante» (Engels, L'origine della
famiglia, della proprietà privata e dello Stato, p. 204).
Gli sviluppi successivi portarono attraverso varie fasi alla proprietà privata
nel senso moderno del termine e, insieme, al corrispondente adattamento delle
norme giuridiche (Diritto); ogni volta che
l'industria e il commercio hanno prodotto nuove forme di scambio, nota Marx, il
diritto fu obbligato a registrarli come modi per l'acquisto di proprietà.
La proprietà privata esiste quando i mezzi e le altre condizioni del lavoro
appartengono a privati; che, occorre ricordare, possono essere essi stessi
lavoratori: contadini che coltivano la propria terra e artigiani che lavorano
nella propria bottega. Un tempo, anzi, questo modo di produrre era diffusissimo
ma aveva il difetto di presupporre una divisione minuta del suolo e una
dispersione dei mezzi di produzione che non permetteva alcun sensibile
avanzamento nell'opera di controllo e di sfruttamento delle risorse naturali;
perciò, giunto a un certo limite, cominciò a sviluppare al suo interno le
condizioni del proprio disfacimento. Esse coincidono con le prime fasi del
processo di accumulazione primitiva
o, come anche dice Marx, con la preistoria del capitale, alla cui fine la
microscopica proprietà di molti si sarà trasformata nella massiccia proprietà
dei pochi; nasce così la proprietà privata capitalistica basata
sull'espropriazione della piccola proprietà e sulla conseguente disponibilità
di una grande massa di libera forza-lavoro.
Quando questo processo di radicale cambiamento della società, che ha
trasformato milioni di lavoratori in proletari (Proletariato, Proletarizzazione) è giunto a un
sufficiente grado di sviluppo, comincia un nuovo ciclo di espropriazioni
riguardanti non più il piccolo proprietario ma il capitalista stesso: è il
processo di centralizzazione del capitale, primo passo verso la
costituzione del monopolio;
contemporaneamente si sviluppano in misura sempre più avanzata le forme di cooperazione
nel processo lavorativo, l'uso consapevole delle conoscenze scientifiche nelle
tecniche di produzione, la distribuzione dei prodotti su scala internazionale,
ecc. Cresce anche la classe operaia, non semplicemente in senso numerico.
Accentramento dei mezzi di produzione e socializzazione del lavoro vengono
allora a trovarsi in contraddizione con la forma capitalistica nella quale sono
sorte e che li domina: «Suona l'ultima ora della proprietà privata
capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati».
Il modo di appropriazione capitalistico, continua Marx, sorge dal modo di
produzione capitalistico e porta alla proprietà privata capitalistica che è
dunque «la prima negazione della proprietà individuale, fondata sul lavoro
personale». Ma la produzione capitalistica produce essa stessa, con
l'inesorabilità di un evento della natura, le premesse e le condizioni della
propria negazione. Da questa «negazione della negazione» sorge la nuova
«proprietà individuale» derivante da nuove forme di cooperazione, dal «possesso
collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso».
La critica marxiana della proprietà privata ha dunque ben altra dimensione e
significato dei banali rifiuti del comunismo rozzo (Comunismo) o delle astratte condanne di un
Proudhon che proclamava drammaticamente «La proprietà è il furto» senza
preoccuparsi di analizzare i concreti rapporti economici nei quali si affermano
le diverse forme storiche e le relative forme giuridiche di proprietà.
E' la
tendenza a istituire tariffe e dazi doganali per limitare l'importazione di
merci dall'estero; per «proteggere» la produzione, all'interno di un paese,
dalla concorrenza del capitalismo straniero.
Marx polemizzò con l'economista F. List che sostenne in Germania la necessità
di misure protezionistiche in difesa della sorgente industria tedesca, per la
quale, essendo la Germania ancora divisa in numerosi stati, auspicava un’unione
doganale.
Una forma esasperata di protezionismo può essere considerato il cosiddetto
regime autarchico in cui vige un isolamento pressoché completo dagli altri
paesi.