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TEORIE SUL PLUSVALORE
Commento all'APPENDICE del vol. III
(Storia dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1993)
MARX E IL CAPITALE PRODUTTIVO
D’INTERESSE
Premessa
Raramente ci si rende conto che allo sfruttamento del Terzo
mondo non partecipa soltanto l’industria occidentale, ma l’intero occidente.
Per “Terzo mondo” s’intendono i paesi cosiddetti “in via di
sviluppo (sottinteso: capitalistico)”, cioè quei paesi che, resisi formalmente
o politicamente indipendenti, a partire soprattutto dal secondo dopoguerra,
restano economicamente dipendenti dalle economie di Stati Uniti, Europa
occidentale (che oggi sta inglobando anche quella centro-orientale) e Giappone
(oltre a certe aree avanzate dell’Asia: Taiwan, Hong Kong, Singapore, Sud-Corea
ecc.).
Usa, Europa (Germania, Francia, Regno Unito, Italia) e
Giappone, i tre principali centri dell’imperialismo mondiale, costituiscono,
con l’aggiunta del Canada, quell’organo internazionale chiamato G7 (diventato
G8 nel 1998, quando si è permesso alla Russia di non assistere più come
spettatrice alle sue sedute), che determina il trend dell’economia mondiale. Nei
paesi del G8 vive circa il 15% della popolazione mondiale che produce il 52%
del prodotto lordo e il 69% delle esportazioni di beni e servizi (dati del
2007).
Naturalmente ai paesi del Terzo mondo vanno aggiunti quelli
del cosiddetto “Quarto mondo”, definiti tali in quanto poverissimi, incapaci di
qualunque forma di sviluppo borghese.
Oggi dal nucleo dei paesi terzomondiali vogliono decisamente
uscire sia la Cina che l’India, ma anche il Brasile.
In particolare la Cina ha già superato il pil di nazioni
come Italia, Francia, Regno Unito, Canada… Ma per essere in grado di “gestire
l’economia mondiale” non è sufficiente avere un pil molto alto: occorre anche
entrare nelle “grazie politiche” dei paesi cosiddetti “occidentali”, sottostare
a certe regole in virtù delle quali detti paesi vogliono tutelare i loro
acquisiti privilegi. I paesi occidentali vogliono continuare a gestire in
maniera politica un potere economico che col tempo è andato sempre più
indebolendosi, soprattutto in rapporto ai trend produttivi delle potenze asiatiche.
Da notare che fino al crollo del “socialismo reale” si
consideravano paesi del “Secondo mondo” quelli appunto a orientamento
socialista, prescindendo dal loro prodotto interno lordo. Oggi questa
distinzione non ha più senso.
Vendendo a caro prezzo le proprie merci in tutto il mondo o
ricavando sottocosto le proprie materie prime prevalentemente dai paesi
sottosviluppati, di fatto l’occidente sfrutta il Terzo mondo proprio in quanto
“occidente”, nel senso che, pur esistendo gradi e forme diverse di sfruttamento,
nell’insieme il soggetto che opprime è unico (per quanto sui mercati mondiali
si stiano affacciando i colossi asiatici).
In altre parole, è vero che un operaio occidentale viene
sfruttato da un imprenditore occidentale, che peraltro lo paga con un salario
in cui intrinsecamente esiste una quota derivata dallo sfruttamento di
lavoratori non-occidentali, proprio in forza del rapporto di scambio non equo
tra noi e il Terzo mondo. Ma è anche vero che se questo operaio sfruttato versa
una parte, risparmiata, del suo salario, in una banca occidentale, acquistando
fondi azionari o obbligazionari emessi dai paesi terzomondiali (che ovviamente
hanno interessi appetibili), detto operaio diventa, a sua volta, nel suo
piccolo, uno sfruttatore finanziario delle condizioni di sottosviluppo di un
qualche paese del Terzo mondo (di cui peraltro non è neppure tenuto a sapere
nulla). Cioè egli, mentre viene sfruttato nel mondo occidentale, può percepire,
allo stesso tempo, un interesse derivato da uno sfruttamento diretto delle
condizioni lavorative nel Terzo mondo.
Marx naturalmente non aveva esposto le cose in questi
termini, ma ne aveva poste le basi teoriche essenziali per poterle capire, e
infatti Lenin esaminò le dinamiche dell’imperialismo mondiale proprio in questa
direzione.
Quando Marx scrive che il capitale produttivo d’interesse è
denaro che crea più denaro, secondo la formula D-D’ (che supera quella
capitalistica originaria: D-M-D’ in cui M è la merce venduta), egli in sostanza
faceva capire che il capitalismo finanziario tendeva ad assumere un’importanza
centrale, sempre più preponderante, nel sistema capitalistico, proprio perché
il profitto che si realizza nella forma dell’interesse è più facile, meno
rischioso, soprattutto meno faticoso, anche se di recente si è scoperto, a
proprie spese, che i rischi non sono affatto pochi: basti pensare ai bond
argentini, alle azioni della Parmalat, della Cirio, della Bipop, della Federconsorzi…,
della Bank of Credit And Commerce International (la più grande banca “criminale”
della storia), della Enron (il più grosso crack nella storia del mercato
statunitense), alla bolla speculativa del web, detta "New Economy",
agli inizi del duemila, … sino alla recentissima crisi dei mutui ipotecari
americani, che hanno scosso le borse di mezzo mondo.
Le aziende più significative sono quotate in borsa e quindi
si muovono a livello internazionale, ma più si muovono a livello internazionale
e meno possono essere controllate dagli azionisti, specie da quelli piccoli.
L’attività delle aziende sembra essere fatta apposta per arricchire soltanto i
loro manager e i grandi azionisti (di cui i maggiori sono le stesse banche): il
successo di queste aziende dipende da un rapporto di fiducia nei confronti di
operatori che sul piano etico non hanno alcun titolo per meritarsela.
Tutti dunque aspirano a diventare quel tipo di imprenditore
il cui reddito proviene unicamente dall’interesse percepito sui propri
investimenti finanziari.
Sono infatti due le forme feticistiche con cui il sistema
borghese illude i propri cittadini: una è quella tecnologica (il
possesso degli ultimi ritrovati illude sulle capacità di determinare il proprio
destino, di controllare la realtà, di dominare la natura, di risolvere i guasti
ambientali causati dalla stessa tecnologia, ecc.); l’altra è quella finanziaria
(il possesso di capitali da investire in titoli, azioni, obbligazioni… illude
sulla possibilità di vivere di rendita o comunque sulla possibilità di vivere
non soltanto del proprio lavoro, ma anche e soprattutto sfruttando il lavoro
altrui).
Marx, che non ha mai attribuito alla tecnologia alcunché di
feticistico, pur non avendo mai messo in discussione la necessità storica di
una rivoluzione tecnico-scientifica, era convinto che questa malattia mortale
del capitalismo raggiungesse nel capitale produttivo d’interesse la sua massima
espressione. Infatti, essendo un capitale completamente scisso dalla
immediatezza di un rapporto di lavoro, la sua redditività (una produttività che
si autovalorizza) risulta avere un che di magico.
Marx diceva queste cose per criticare quegli economisti
borghesi che sostenevano l’inesistenza dello sfruttamento del lavoro proprio in
virtù del fatto che anche il lavoratore poteva beneficiare di interessi
monetari.
Premessa - Il feticismo -
Il valore della cultura nel
capitalismo finanziario -
Trasformazioni del capitale -
Economia e cultura -
L'emancipazione borghese -
Conclusione
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