MARX E IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE 5

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


TEORIE SUL PLUSVALORE
Commento all'APPENDICE del vol. III
(Storia dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1993)

MARX E IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE

Economia e cultura

Tutta l’Appendice delle Teorie sul plusvalore appare solo in forma di bozza, scritta da Marx in maniera abbastanza frettolosa, con molte parole ed espressioni lasciate in lingua inglese. Servì soltanto come base per lavorare al III libro del Capitale, ma non tutti gli argomenti dell’Appendice furono ripresi. Marx non ne ebbe il tempo.

P.es. una delle differenze maggiori che si notano tra queste prime bozze e le seconde (in fondo anche il III libro del Capitale, come d’altra parte il II, restò in forma di bozza), esattamente là dove gli stessi argomenti vengono ripresi e approfonditi in maniera organica, è il fatto che nel Capitale Marx si arrischia molto meno a fare paralleli tra struttura e sovrastruttura. E’ come se, sapendo di non avere una preparazione adeguata, lo scrupolo scientifico gli impedisse di cimentarsi in cose non sufficientemente dimostrabili.

Marx si sentiva un economista, un fenomenologo dell’esistenza materiale, uno storico dell’economia, un critico dell’economia politica borghese: non ha mai preteso di affrontare l’economia come parte di un tutto, cioè in maniera olistica. Quando notava dei nessi evidenti tra cultura (religiosa) ed economia, non li approfondiva, sapendo che avrebbe dovuto esaminare testi di tipo teologico, che gli piacevano ancor meno di quelli economici (l’insofferenza per i testi borghesi di economia, posteriori ai classici, è una costante nell’epistolario con Engels).

Egli d’altra parte aveva sempre sostenuto che la religione è un riflesso dell’economia, delle condizioni materiali d’esistenza. Non ha mai accettato l’idea che determinati mutamenti materiali potessero essere favoriti dai cosiddetti “mutamenti di mentalità” o di “cultura”. L’economia –secondo lui- doveva trarre da se stessa le ragioni del proprio sviluppo o della propria evoluzione verso questa o quella formazione sociale o questo o quel modo di produzione.

Quando Marx esamina i testi di Lutero o di Aristotele, s’interessa soltanto di quelle parti specificatamente riguardanti l’economia. In realtà il lavoro da fare oggi è molto più vasto e complesso, che solo un’équipe di specialisti potrebbe affrontare. Si tratta infatti di analizzare soprattutto quelle parti del pensiero religioso che nel loro svolgimento pratico avrebbero potuto portare a determinate conseguenze sul piano socioeconomico; conseguenze che non necessariamente sono identiche a quelle che si possono desumere analizzando invece i testi più direttamente economici; conseguenze che non necessariamente potevano o dovevano essere previste dallo stesso autore che aveva scritto quei testi. P.es. la teoria della predestinazione di Lutero non sembrava aver nulla di economico, eppure Calvino la trasformò in una teoria favorevole allo sviluppo capitalistico.

Questo per dire che quando ci si accinge a leggere i testi marxiani, non bisogna mai dimenticarsi dei limiti che caratterizzarono la sua analisi. Limiti di fondo, strutturali, il cui superamento non implica il superamento di tutte le tesi marxiane (sono tante le tesi rimaste ancora oggi scientificamente inconfutate), ma implica il superamento di quei presupposti culturali che sono serviti a Marx per compiere le sue analisi economiche.

Il primo presupposto riguarda appunto i rapporti tra cultura ed economia. Oggi si è arrivati alla conclusione che la cultura influisce sull’economia tanto quanto questa influisce su quella. Non c’è un prima o un dopo, non c’è una prima e un’ultima istanza, come tentò di dire Engels, rendendosi conto che il marxismo rischiava di diventare un determinismo economicistico. Non c’è, nel rapporto economia-cultura, un aspetto essenziale e uno secondario, meno che mai uno principale e l’altro derivato. C’è soltanto l’essere umano, che va inteso nella sua globalità e interezza.

Questo significa che per creare e sviluppare storicamente il capitalismo non è sufficiente una determinata base materiale, occorre anche una determinata base culturale. Questa base è stata di tipo “religioso” nella fase iniziale del capitalismo (dapprima nella forma politica del cattolicesimo-romano, successivamente in quella sociale del protestantesimo), ma nella fase avanzata del capitalismo (quella imperialistica), la base culturale ha sempre meno necessità d’essere “religiosa”, o comunque può anche non essere d’ispirazione “cristiana”.

Il Giappone p.es. è diventato una grande potenza industriale, commerciale e finanziaria partendo da basi culturali shintoiste, che si sono adeguate prontamente all’americanismo del dopoguerra e prima ancora, con maggiore fatica (in quanto si erano conservate molte forme feudali) all’occidentalismo. L’odierna Cina, dal canto suo, ha accettato il capitalismo su basi nettamente “ateistiche”.

Quel che qui si vuole dire è che occorre una determinata cultura per favorire processi connessi a uno sviluppo capitalistico della vita sociale. Questa cultura è nata in Europa occidentale, avendo qui avuto due momenti di rottura autoritaria e individualistica ben precisi: il 1054, con lo scisma cattolico, e il 1517, con lo scisma protestante, preceduti entrambi da secoli di preparazione, con maggiore o minore consapevolezza.

Successivamente lo scisma protestante ha trovato il suo terreno più favorevole alla propria diffusione negli Stati Uniti d’America, ove minima era l’influenza della cultura cattolica, la quale – come noto - accetta l’individualismo solo sul piano politico e non anche su quello sociale, poiché qui deve invece dominare l’obbedienza alla gerarchia e l’organizzazione sociale di tale obbedienza.

Ora, la cultura protestante, depurata dei suoi elementi religiosi, si va diffondendo anche tra le società non occidentali, contribuendo allo sviluppo capitalistico mondiale. La progressiva laicizzazione della cultura cristiana ha permesso al capitalismo di diffondersi anche in paesi tradizionalmente non-cristiani.

La caratteristica principale della cultura cattolico-protestante, quella che deve avere una cultura utile a promuovere il capitalismo, è la doppiezza, cioè la capacità di far sembrare le cose in maniera opposta a come sono nella realtà. Tale doppiezza è, se vogliamo, intrinseca al cristianesimo sin dalle sue origini, in quanto sulla base di essa si è potuto trasformare un politico rivoluzionario della Palestina in un redentore morale dell’universo.

Marx, in tal senso, è stato un maestro nello svelare le mistificazioni degli economisti borghesi. Oggi va compiuta la stessa cosa a livello planetario, avendo ben presente che le mistificazioni più importanti avvengono sul terreno del laicismo, che sono sicuramente molto meno individuabili di quelle di natura religiosa, che la storia s’è incaricata di superare. La cultura che oggi giustifica il capitalismo su scala planetaria è sostanzialmente di tipo ateistico, anche quando il presidente degli Stati Uniti chiede la benedizione del proprio dio cristiano in favore dei soldati in guerra.

Bisogna in tal senso fare attenzione a un fatto del tutto inedito: una volta le posizioni ateistiche apparivano rivoluzionarie rispetto a quelle religiose; oggi invece, pur continuando a restare reazionarie quelle religiose, le posizioni ateistiche in sé non hanno più nulla di rivoluzionario, tant’è che sono rinvenibili in ambienti sia di destra che di sinistra e vengono spesso usate per giustificare sistemi sociali oppressivi.

Che significa questo? Significa che mai come oggi l’umanesimo laico va tenuto strettamente associato a una concezione di socialismo democratico alternativa a quella del capitalismo industriale e finanziario. Oggi una semplice battaglia a favore del laicismo o dell’ateismo, senza una contestuale battaglia politica a favore del socialismo, diventa una battaglia di retroguardia e rischia facilmente di non sortire alcun effetto significativo.

Il secondo aspetto che bisogna considerare è il fatto che Marx non ha mai messo in discussione la necessità di una rivoluzione tecnico-scientifica. Egli semplicemente riteneva che il proletariato industriale avrebbe dovuto impadronirsene per svolgerla in maniera democratica, così come doveva appropriarsi di tutti i principali mezzi produttivi, ponendo fine alla separazione tra capitale e lavoro.

I mezzi scientifici e tecnici avrebbero dovuto essere usati, sotto il futuro socialismo, per proseguire la produzione industriale generalizzata, su vasta scala, e per assicurare a tutti l’equa ripartizione dei redditi. Ovviamente la produzione socialista non sarebbe stata generata dal profitto ma dai bisogni.

Oggi, alla luce degli enormi disastri ambientali causati dalla tecnologia avanzata, questo ragionamento non regge più. Va rimesso in discussione tutto, anche ciò che prima sembrava avere un’apparenza neutrale. Di neutrale a questo mondo non c’è nulla. La nascita e lo sviluppo di un socialismo autenticamente democratico dovrà esserlo anche nei confronti della natura.

Marx arrivò a scoprire i segreti del sistema capitalistico alcuni secoli dopo che questo era nato. Li scoprì non tanto guardando gli effetti sociali ch’esso produceva (questo era noto assai prima di lui, da Tommaso Moro sino ai socialisti utopisti), quanto piuttosto analizzandone le oggettive contraddizioni interne, strutturali al sistema, quelle per le quali si rendeva necessaria una transizione al socialismo, al fine di evitare guasti irreparabili, immani sprechi di risorse, crisi cicliche di sovrapproduzione, soluzioni militari a problemi economici ecc.

Vi sono, in tal senso, alcune espressioni emblematiche, nella sua analisi, che meritano non solo d’essere riportate per intero, ma anche ulteriormente approfondite. Prendiamo p.es. questa: “Il denaro… si appropria nel processo di un plusvalore… solo perché è già presupposto come capitale prima del processo di produzione… dal punto di vista delle caratteristiche, che però si realizzano solo nel processo e, in generale, non hanno realtà che nel processo stesso. Se non vi entrasse come capitale, non ne uscirebbe neppure come capitale…”(pp. 509-510).

Queste parole, che ben sintetizzano il circolo vizioso da cui l’analisi di Marx ha sempre cercato di uscire, spiegano molto bene la differenza tra un processo capitalistico vero e proprio e uno semplicemente mercantile, ma non spiegano la ragione ultima che ha fatto scattare la transizione. Processi di tipo mercantilistico sono sempre esistiti: essi anzi coincidono con la nascita delle civiltà. Li troviamo persino durante il Medioevo, e tuttavia Marx decise di far nascere il capitalismo europeo solo nel XVI secolo, proprio perché occorreva non solo un capitale intenzionato a fare profitti, ma anche la possibilità legale di estorcere plusvalore dal lavoro.

Ma che cosa poteva trasformare il denaro da semplice mezzo d’acquisto a strumento che valorizza se stesso? Marx aveva appena intuito la risposta a questa domanda, senza mai riuscire ad approfondirla. E’ appunto in questa direzione che bisogna sviluppare la sua ricerca. Quand’egli dice che il denaro è capitale “latente” o “potenziale” dice una cosa vera, nel senso che il capitalismo non si forma solo là dove esiste la circolazione delle merci o l’uso del denaro come equivalente universale.

Tuttavia Marx non spiega sino in fondo il motivo per cui una cosa semplicemente latente ad un certo punto diventa “manifesta”, e perché proprio in Europa occidentale e non altrove. Non basta avvalersi, nell’analisi economica, di “determinazioni quantitative” per spiegare un salto così “qualitativo”, che andrà a scardinare completamente lo stile di vita tradizionale. Deve per forza esserci stata, nel XVI secolo o comunque nel processo che ha portato alla rottura storica in quel secolo, una motivazione extraeconomica, una molla di tipo “culturale”, una rivoluzione di mentalità, che, per quei tempi, non poteva che riguardare l’ambito religioso.

Ora, noi siamo soliti far risalire al protestantesimo l’origine culturale del capitalismo. La sociologia della religione di Max Weber ha inaugurato senza dubbio molti studi in questa direzione, anche se essi sono stati fatti per rinunciare all’idea di socialismo. In realtà nell’Italia comunale erano già state poste le premesse “teologiche” per un trapasso progressivo dal feudalesimo al mercantilismo.

Questa rivoluzione culturale inizia col distacco dalla teologia ortodossa e con la riscoperta dell’aristotelismo da parte della Scolastica. Ricerche in questa direzione Marx non le ha mai fatte. E anche le ricerche della sociologia borghese non hanno mai saputo mettere chiaramente in luce il ruolo della Scolastica nel favorire la nascita del mercantilismo o comunque il suo radicamento sociale. Generalmente gli storici tendono ad opporre Scolastica a mercantilismo, in quanto effettivamente la dottrina sociale della chiesa si basava su una teoria convenzionalista del denaro e non aveva ancora il concetto di “capitale”.

Tuttavia le teorie tomiste relative al “giusto prezzo” della merce e del “giusto salario” dell’operaio sono, nella loro doppiezza, l’anticamera del mercantilismo, in quanto solo apparentemente avevano come scopo principale lo scambio equo o la giustizia commutativa: nella realtà servivano per tutelare una forma di proprietà privata non coincidente con quella terriera. Agli inizi del 1300 Duns Scoto elaborò una teoria del valore basata sul costo e sull’impiego di lavoro, che verrà ripresa nel XIX secolo da Ricardo e da Marx e, a metà del secolo scorso, in forma ampia e articolata nei modelli di Leontiev e di Sraffa. Forse più che le tesi di Weber, bisognerebbe approfondire quelle di Sombart, che scorgeva appunto nel tomismo e nella tarda Scolastica le argomentazioni per giustificare il guadagno fine a se stesso.

Nell’analisi marxiana ci sono dei passi che indicano addirittura in maniera drammatica quanto forte fosse sentita in lui l’esigenza di chiarire la trasformazione del denaro in capitale. Egli andava cercando nella storia le motivazioni di talune assurdità tipiche del mondo borghese: p.es. il fatto di percepire un interesse non per il proprio lavoro ma per il proprio non-lavoro. L’improduttività economica, quella che non produce profitto, viene premiata sotto il capitalismo se si è possessori di denaro che agisce come capitale. Il profitto era nato combattendo la rendita feudale, ma ora, nei panni dell’interesse, si andava trasformando in una nuova rendita parassitaria.

Cos’è che rende “capitale” il denaro prima che entri nel processo? La risposta di Marx, sul piano economico, è sufficientemente circostanziata anche quando viene formulata in “brutta copia”: “Il fatto che al lavoro vivo si contrappone il lavoro morto, all’attività il prodotto, all’uomo la cosa, al lavoro le sue proprie condizioni oggettive come soggetti, personificazioni estranee, autonome, a se stanti, in breve come proprietà altrui… come proprietà del non-lavoratore…”(p. 510). In tutto ciò vi è una “determinatezza sociale antagonistica”(p. 511).

Marx è come se fosse arrivato sull’orlo del precipizio camminando all’indietro: s’è fermato proprio sul ciglio, avvertendo la fine del percorso, ma non ha potuto girarsi per vedere quanto lo strapiombo fosse profondo. Cioè non è riuscito a vedere che all’origine del capitalismo vi è una scelta culturale di tipo religioso, di natura individualistica, con la quale s’è voluta infrangere, in maniera progressiva e con sempre maggiore convinzione, passando da una fase spontaneistica a una consapevole, una tradizione basata sul collettivismo agrario. Questa scelta religiosa negativa è stata per la prima volta teorizzata dalla chiesa romana con l’istituzione di un papato superiore al concilio, superiore a ogni altra autorità terrena, praticamente onnipotente e in questa presunta onnipotenza, teologicamente infallibile.

Detto individualismo affermato in sede politica (che ha trovato la sua massima espressione teorica nel Concilio Vaticano I, ma la sua massima espressione pratica a partire dalla riforma gregoriana bassomedievale), verrà poi confermato dal protestantesimo a livello di società civile, secondo il principio: “ciò che può fare il pontefice può essere fatto da chiunque altro”.

Non può certo essere stato un caso che nel basso Medioevo l’affermazione della teocrazia sia andata di pari passo con quella del mercantilismo. Il mercantilismo non poteva trovare una giustificazione di sé nel momento stesso in cui è emerso come attività pratica, né, tanto meno, poteva trovarla in chiave laica. I processi devono sedimentarsi nella vita della gente, ma questo non significa che non abbiano bisogno, nel momento in cui vengono a porsi concretamente, di una qualche giustificazione teoretica, che sulle prime sarà necessariamente informale, ufficiosa, poco motivata, ma che col tempo, scontrandosi con la volontà di forze opposte, andrà sempre più raffinandosi nelle sue argomentazioni. Questa giustificazione, inizialmente, dovette per forza fornirla il cattolicesimo-romano in rotta con l’ortodossia bizantina.

Vi sono tracce di questa giustificazione, seppur in maniera indiretta, come era d’altra parte naturale, persino nella disputa accademica sugli “universali”, che fu un segno eloquente della crisi della teologia e della necessità di trovare spiegazioni contestuali ai fatti della vita. La posizione nominalista, interessata a scoprire le leggi e le cause della natura esclusivamente all’interno della natura stessa, lasciando alla fede il solo dominio delle verità religiose e allontanando progressivamente la ragione dalla ricerca intorno a tali verità, era in sostanza una posizione materialistica che favoriva lo sviluppo della borghesia.

In Italia le teorie favorevoli alla superiorità del papato sul concilio sono andate di pari passo con la prassi mercantilistica della borghesia comunale e quindi col progressivo sviluppo di teorie anticattoliche, minoritarie, sempre più laiche. Affermando l’autoritarismo politico, la chiesa romana era costretta a transigere sul piano della prassi economica, favorendo lo sviluppo di elementi borghesi fino a quel punto rimasti in ombra.

Qui non si vuole riproporre il simpatico quesito dell’uovo e della gallina, ma è evidente che tra struttura e sovrastruttura esiste un reciproco condizionamento. Lo sviluppo del mercantilismo è avvenuto entro il feudalesimo dell’Europa occidentale, con il tacito consenso della chiesa cattolica e, nel contempo, contro i principi feudali sostenuti dalla stessa chiesa insieme alla classe nobiliare. L’ambiguità del processo dipese appunto dal fatto che cattolicesimo e mercantilismo erano due realtà individualistiche, di cui la prima dotata del potere politico e ideologico.

Il mercantilismo è esistito molto tempo prima del cristianesimo, ma solo sotto il cattolicesimo-romano ha potuto porre le basi per una propria lenta trasformazione in capitalismo.

La riforma medievale di papa Gregorio VII si proponeva, tra le altre cose, il miglioramento dei costumi (l’autoritarismo politico s’impone meglio se fatto all’insegna della riforma morale), ma riuscì soltanto, com’era inevitabile, essendo un mero disegno politico accentratore, ad affermare esplicitamente (passando cioè da una situazione de facto a una de jure) la nuova identità teocratica del papato, cioè le sue pretese politico-ideologiche a livello planetario. La chiesa autoritaria non solo non riuscì ad arginare il fenomeno crescente del mercantilismo urbano, ma ad un certo punto cominciò persino a giustificarlo (si veda p.es. il grande dibattito sul prestito ad interesse), nella convinzione di poterne trarre un vantaggio materiale personale.

E la riprova inconfutabile degli stretti legami tra economia e religione la si è avuta nel fenomeno di lunga durata delle crociate, scatenate dall’Europa cattolico-occidentale sia in Medio oriente (col pretesto dell’avanzata islamica) che nei Paesi Baltici (col pretesto di una latinizzazione di quelle terre pagane e in parte già rese cristiane dagli ortodossi) e in genere in tutta la parte orientale dell’Europa. Le crociate sono state una sorta di colonialismo cristiano-borghese ante-litteram, in quanto il vero colonialismo gli storici lo fanno risalire alla scoperta-conquista dell’America.

La chiesa romana ha smesso di giustificare il mercantilismo soltanto quando questo, consolidatosi sul piano socioeconomico, pretendeva un peso politico equivalente.

Premessa - Il feticismo - Il valore della cultura nel capitalismo finanziario - Trasformazioni del capitale - Economia e cultura - L'emancipazione borghese - Conclusione


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015