MARX E IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE 3

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


TEORIE SUL PLUSVALORE
Commento all'APPENDICE del vol. III
(Storia dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1993)

MARX E IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE

IL VALORE DELLA CULTURA PER IL CAPITALISMO FINANZIARIO

Il socialismo cosiddetto “reale”, realizzato sotto lo stalinismo e con la stagnazione che lo seguì, può essere definito come una sorta di “feudalesimo statale”, in cui l’unico vero proprietario collettivo del bene pubblico era non il popolo o la società civile, bensì lo Stato, il cui organo dirigente era un partito politico che si serviva, a tutti i livelli, della burocrazia amministrativa. La storia ha dimostrato, facendo pagare ai popoli dei prezzi incredibili, che non può essere questa l’alternativa alle contraddizioni antagonistiche del capitale.

Per superare il capitalismo bisogna indubbiamente trovare soluzioni di collettivismo, cioè di organizzazione socialista (in cui la stessa parola “socialista” non voglia semplicemente dire un’astratta partecipazione “sociale” alla vita collettiva, ma proprio una gestione “comune” dei mezzi produttivi). Tuttavia ciò non può che avvenire conformemente ai valori della democrazia e delle libertà individuali, le quali ovviamente devono trovare il loro senso nel rispetto delle esigenze comuni. I cittadini non devono avere l’impressione, impegnandosi per realizzare il socialismo, di fare un passo avanti e due indietro, anche perché faranno fatica, in caso di fallimento degli ideali, a impegnarsi per una nuova forma di socialismo, come gli attuali fatti dimostrano.

Il socialismo implica l’accettazione volontaria di sacrifici per il bene comune: se i risultati non sono tangibili, scatterà inevitabilmente la demotivazione e a nulla varranno i tentativi artificiosi dei governi, autoritari o paternalistici, per tenerla in piedi (p.es. l’esigenza dell’unità nazionale contro il nemico esterno; la presunta superiorità, rispetto al nemico, in taluni campi scientifici; la propaganda delle contraddizioni più macroscopiche del nemico ecc.). Anche se tutti sanno che nel capitalismo una stretta minoranza di proprietari, arricchitasi accettando vergognosi compromessi, vuol far pagare a tempo illimitato i propri sacrifici (iniziali) alla stragrande maggioranza della popolazione. A ben guardare la principale differenza etica tra i due sistemi sociali sta proprio nel concetto di “sacrificio”, che sotto il socialismo non dovrebbe avere un carattere umiliante, non dovrebbe cioè mortificare l’amor proprio, col rischio di suscitare sentimenti di rivalsa personale.

Certo è che in futuro non sarà facile riconvertire la produzione di aziende capitalistiche, unicamente interessate a realizzare profitti e non a soddisfare bisogni. La fatica sarà tanto più grande quanto più grandi saranno state queste aziende. Il loro destino rischia di diventare analogo a quello delle terme romane al tempo delle invasioni barbariche, o a quello delle piramidi egizie al tempo delle invasioni romane. Le esigenze collettive abbandoneranno al loro destino i capolavori dell’egoismo umano.

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Qui si può tuttavia notare un aspetto davvero singolare del capitalismo finanziario, che Marx aveva scorto sul piano fenomenologico, ma che andrebbe analizzato anche su quello ontologico. Quanto più esso si sviluppa tanto più il capitale si estranea, formalmente, da ciò che l’aveva generato. “Nello sviluppo del capitale – scrive Marx – noi siamo partiti [nel I libro del Capitale] da D-M-D’, di cui D-D’ non era che il risultato. Ora troviamo D-D’ come soggetto”(Teorie del plusvalore, p. 501).

Per quale motivo il capitale cerca di dissimulare progressivamente il suo carattere antitetico al lavoro, il proprio antagonismo sociale? Il motivo è strettamente legato alla cultura. Può forse apparire paradossale che proprio nel momento del peggiore schiavismo romano, il maggiore filosofo dell’establishment imperiale, Seneca, scrivesse opere umanissime come La tranquillità dell’animo, La clemenza, La beneficenza, Le lettere a Lucilio ecc. Difficilmente si riuscirebbero a trovare spiegazioni dell’imperialismo romano o delle persecuzioni anticristiane leggendo i testi di Seneca. Questo scollamento di teoria e pratica dovrebbe indurci a riflettere, anche perché lo si incontra in tutti i sistemi antagonistici.

Quanto più la prassi diventa intollerante, tanto più la cultura diventa apparentemente democratica. In fondo l’impero romano, quando nacque, disse che aveva intenzione di sanare le contraddizioni della repubblica senatoriale. Oggi potremmo anche aggiungere che quanto più la cultura si democraticizza e si laicizza, tanto meno il capitale ha bisogno di elementi religiosi per mistificare il rapporto di sfruttamento economico. Nella sua essenza più sofisticata, il capitalismo finanziario illude i cittadini che il superamento dello sfruttamento sia una semplice conseguenza dello sviluppo della democrazia politica e della laicità. Non c’è dunque bisogno di realizzare il socialismo quando si è già culturalmente laici e politicamente democratici.

E’ significativo il fatto che quando i paesi del Terzo mondo cercano di far capire all’occidente che non vogliono più sottostare alla dipendenza economica neocoloniale (oggi fatta passare sotto l’esigenza del “globalismo”), ecco che l’occidente interviene accusandoli di essere culturalmente e politicamente arretrati, di non rispettare i diritti umani e persino l’ambiente (!), di volersi dotare di armi di sterminio, di appoggiare il terrorismo internazionale, di predicare il fondamentalismo religioso ecc.

Il capitalismo finanziario, quello che in occidente fa di tutto per dissimulare il rapporto di sfruttamento economico tra imprenditori e operai, tra occidente e Terzo mondo, si pone come “regno di giustizia e di libertà”. Non è stato un caso che l’inizio del revisionismo nell’ambito del socialismo scientifico sia avvenuto in occidente proprio a partire dalle analisi sul capitalismo finanziario.

Marx considerava “socialisti volgari” quelli che si limitavano a criticare il capitalismo finanziario, cioè la pura rendita, semplicemente in nome di quello industriale, il quale, secondo loro, pur pensando al “profitto”, assicurava comunque il “lavoro”. Marx non poteva prevedere che gli stessi socialisti un giorno avrebbero detto che in nome del capitalismo finanziario non occorre più alcuna rivoluzione proletaria.

Premessa - Il feticismo - Il valore della cultura nel capitalismo finanziario - Trasformazioni del capitale - Economia e cultura - L'emancipazione borghese - Conclusione


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015