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TEORIE SUL PLUSVALORE
Commento all'APPENDICE del vol. III
(Storia dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1993)
MARX E IL CAPITALE PRODUTTIVO
D’INTERESSE
LA QUESTIONE DEL FETICISMO
Nell’ultimo capitolo delle sue Teorie sul plusvalore,
intitolato Il reddito e le sue fonti. L’economia volgare (messo come
“Appendice” nella Storia dell’economia politica, vol. III), Marx parla
estesamente di quel feticismo inerente all’idea che i redditi capitalistici si
ottengono a prescindere dallo sfruttamento del lavoro altrui. Le principali
analisi di questa “Appendice” verranno poi riprese in varie sezioni del III
volume del Capitale, anche se non integralmente.
E’ interessante notare come l’uso della parola “feticismo”,
pur essendo mutuato dalle scienze religiose, qui non abbia riferimenti
espliciti alla teologia. Eppure Marx aveva perfettamente intuito i nessi
“logici” e “culturali” di economia borghese e protestantesimo.
Scrive a p. 482, concludendo la sua disamina delle teorie di
Richard Jones (che, guarda caso, era un prete anglicano): “Per sua essenza [il
modo di produzione capitalistico] è cosmopolita, come il cristianesimo. Perciò
il cristianesimo è anche la religione specifica del capitale. In entrambi vale
solo l’uomo. In sé e per sé un uomo vale quanto un altro. Per l’uno tutto
dipende dal fatto se ha la fede, e per l’altro, se ha credito. Nel primo, però,
si aggiunge l’elezione di grazia; nell’altro, il caso di essere nato ricco o
no”.
Qui il riferimento al protestantesimo è evidente, che del
cristianesimo originario ha ereditato il culto dell’uomo astratto, cioè
l’idealismo della generica uguaglianza di tutti gli uomini davanti a dio,
l’uomo astorico che si salva semplicemente avendo fede nella grazia divina; quel
protestantesimo che però, nello stesso tempo, ha trasformato questo idealismo
in un crasso materialismo, specie quando sostiene che per salvarsi non basta la
fede, ci vuole anche il “credito”, e la “grazia”, in questo caso, consiste nella
fortuna di essere già ricchi, poiché il diventarlo dal nulla è cosa quasi impossibile.
“Nella produzione capitalistica – aveva scritto Marx poco più sopra – il
miglioramento dipende unicamente dal denaro, e ciascuno può illudersi di
diventare Rothschild”(ib.).
La teoria esclusivista americana poté sostenere l’idea di
una relativa facilità nel processo di arricchimento individuale partendo dal
nulla (mito del self-made man) soltanto perché, dopo il genocidio degli
indiani (il più grande della storia), si era in presenza di territori immensi
da conquistare. Oggi questa teoria, in presenza di gigantesche corporations
monopolistiche, ha molta meno credibilità. Gli ultimi clamorosi arricchimenti
individuali si sono verificati nel campo info-telematico, e se è vero che qui i
capitali di partenza furono infima cosa, non lo furono certo le competenze
intellettuali con cui farli fruttare.
Il feticismo non è tipico del solo sistema capitalistico, lo
si ritrova in tutti i sistemi sociali basati sullo sfruttamento del lavoro
altrui. Il “feticismo della nascita”, alla base delle differenze di casta,
influenza ancora oggi tanta parte della società indù, esattamente come quello
della “morte” influenzò tutta la civiltà egizia, al punto che chi non poteva
farsi imbalsamare e seppellire in una piramide era considerato meno di nulla,
certamente non meritevole di alcun aldilà.
Ciò che più stupisce nell’analisi di Marx è che egli, pur
avendo intuito i nessi di religione e capitalismo, non abbia mai pensato di
approfondirli: il peso della sua analisi strutturale è decisamente
sproporzionato rispetto a quello dell’analisi sovrastrutturale.
Egli è andato a cercare costantemente le ragioni dei
processi economici nella sola economia, senza accorgersi che avrebbe
potuto trovarli anche nella religione, ovvero nei mutamenti culturali
della società civile. P.es. quando scrive che il feticismo esiste, nel
Medioevo, là dove si ritiene che la fonte della rendita feudale provenga, più
che dal servaggio, dalla ricchezza naturale della terra, egli avrebbe fatto
meglio a contestualizzate tale assunto entro l’ambito semantico del
cattolicesimo-romano, la tipica ideologia del feudalesimo occidentale. Anche
perché non si può certo dire che a Marx mancassero gli strumenti per compiere
un’analisi critica della sovrastruttura. Anzi, se si guarda il suo iter
intellettuale, dobbiamo dire ch’egli, in Germania, esordì proprio criticando la
religione cristiana, la filosofia hegeliana del diritto, la politica prussiana…
tutti aspetti sovrastrutturali.
Dopo la parentesi rivoluzionaria francese, Marx si immerse,
anima e corpo, negli studi dell’economia politica borghese, tralasciando quasi
del tutto i nessi storico-culturali che legavano il capitalismo al
protestantesimo. E pensare ch’egli era perfettamente in grado di scorgere
differenze sostanziali nell’atteggiamento “feticistico” riguardo alle fonti del
reddito: cosa che nessun economista, prima di lui, era mai riuscito a fare.
Sono illuminanti, pur nella loro brevità, le ultime pagine
delle Teorie sul plusvalore. Chiarita la natura del feticismo feudale,
Marx prosegue descrivendo quello propriamente borghese, là dove dice che, sotto
il capitalismo, il lavoro, e non lo sfruttamento del lavoro, appare come
“fonte del salario”. Il cosiddetto “datore di lavoro”, nel sistema borghese,
non è l’operaio ma l’imprenditore. Il prodotto del lavoro non è tanto la
“merce” ma il “salario” con cui l’operaio può acquistarla.
Tale inversione di prospettiva Marx la individua anche nel
capitalismo commerciale, là dove si ritiene che il profitto avvenga nel momento
in cui, nello scambio, chi vende cerca di truffare chi compra. Questa
sensazione generale di truffa e di raggiro la si avverte senza metterla in
rapporto al più generale sistema di sfruttamento che incatena il nullatenente
alla volontà dell’imprenditore.
Tuttavia il culmine del feticismo viene raggiunto, secondo
Marx, nel capitale produttivo d’interesse, allorché l’interesse ottenuto da una
transazione meramente finanziaria o speculativa (tipica p.es. dell’investimento
borsistico o bancario), autovalorizza il proprio denaro, prescindendo
formalmente (cioè in apparenza) non solo dal processo di circolazione ma anche
da quello di produzione, essendo il soggetto che detiene il capitale interessato
unicamente al risultato finale. In sostanza si guadagna senza far nulla di
particolare, e si è convinti di poterlo fare semplicemente perché si dispone di
capitali. In questa illusione feticistica possono cadere tutti, anche quanti
dispongono di risorse infime (un’altra grandissima illusione è quella relativa
alle scommesse, alle lotterie ecc. in cui spesso lo Stato gioca un ruolo di
primo piano).
Scrive Marx: “La completa reificazione, il rovesciamento
e la follia del capitale come capitale produttivo d’interesse… è il
capitale… quando appare come un Moloch che pretende il mondo intero come
vittima a lui spettante, ma che per un fato misterioso non vede mai
soddisfatte, anzi, sempre frustrate le sue legittime richieste che derivano
dalla sua stessa natura”(p. 491).
L’importanza attribuita al denaro non è certo inferiore a
quella che durante il Medioevo si attribuiva alla terra: la differenza sta
soltanto nel fatto che le parti in gioco, sotto il capitalismo, sono
formalmente libere, cioè non è solo giuridicamente libero il proprietario di
capitali ma anche colui che non ne dispone. Tale differenza è stata resa
possibile dalla trasformazione del cattolicesimo, favorevole al servaggio in
quanto religione politica, in protestantesimo, confessione individualistica per
definizione.
Marx, res sic stantibus, non può che biasimare coloro
che, dandosi arie di “socialismo”, si limitano a criticare il capitale
produttivo d’interesse senza mettere in discussione il sistema qua talis.
E giustamente fa notare che quando, nel XVII secolo, gli imprenditori
capitalisti condannavano l’interesse usurario, lo facevano semplicemente per
poter essere messi in condizione di sfruttare gli operai senza dover ricorrere
ai capitali degli usurai. La lotta contro l’usura fu una delle armi vincenti
della borghesia per creare il capitalismo.
Sotto questo aspetto è singolare come i teorici
dell’economia borghese non vedessero una forma di sfruttamento nel fatto che
l’impiego della forza lavorativa crea più valore di quanto in essa contenuto,
quando lo stesso fenomeno si verifica nel capitale produttivo d’interesse,
allorquando il valore d’uso del denaro ha la proprietà, in virtù dello scorrere
del solo tempo, di creare “un valore di scambio maggiore di quello in esso
contenuto”; infatti viene “prestato come valore che valorizza se stesso”(p.
492), differenziandosi, in tal senso, dalla merce vera e propria.
D’altra parte gli economisti borghesi non potevano certo negare
le fondamenta dell’ideologia che li rendeva professionalmente tali. Come il
prete non può mai partire dal presupposto che dio non esiste, così l’economista
borghese non poteva neppure ammettere l’esistenza del plusvalore (e ancora oggi
continua a negarla, in quanto i salari rientrano nei “costi”, mentre nel
profitto finale il plusvalore è come dio: se c’è non si vede).
Nel capitale produttivo d’interesse il denaro non viene
venduto ma solo prestato per un certo periodo di tempo; viene venduto soltanto
il suo valore d’uso, affinché possa accrescere il suo valore di scambio. Stessa
cosa avviene nel rapporto imprenditore/operaio: quest’ultimo infatti non vende
se stesso (come all’epoca dello schiavismo, quando la causa erano i debiti), ma
vende temporaneamente la sua capacità lavorativa, che serve appunto ad
accrescere un profitto a lui estraneo, che non gli appartiene.
Marx qui vuole sostanzialmente dire che mentre nell’esame
del profitto si sarebbe anche potuto, con un minimo di onestà intellettuale,
giungere alla nozione di “plusvalore”, viceversa, nell’esame dell’interesse il
riferimento al plusvalore richiede una maggiore capacità di astrazione. Il
capitale produttivo d’interesse è infatti una forma sofisticata di quel
capitalismo che tende ad essere sempre più finanziario e sempre meno produttivo
(in senso industriale). Si nota sempre più l’attività di questo moderno
capitale nelle scalate dei grandi gruppi industriali da parte di cordate di
potenti azionisti, nelle fusioni bancarie o di corporations,
nell’esportazione massiccia di capitali ecc. La produzione continua ad esserci
ma la sua dinamica è del tutto subordinata a esigenze di tipo squisitamente
finanziario.
Il capitalismo vuol vivere di rendita, investe non tanto per
allargare la produzione quanto per aumentare i capitali, la cui entità è fine a
se stessa, poiché serve unicamente alla propria autovalorizzazione: è un
capitalismo “putrescente”, direbbe Lenin. Le banche insomma sono state utili
quando si trattava di vincere l’usura, ma ora sono diventate un freno allo
sviluppo, sia perché sono diventate esose come gli antichi usurai, sia perché
non sono mai riuscite, proprio per questo motivo, a sconfiggere definitivamente
l’usura, sia perché la loro utilità sociale è diventata inversamente
proporzionale alla loro grandezza: infatti stanno tagliando fuori dal circuito
del credito nazionale le piccole imprese, non avendo queste sufficienti
garanzie da offrire.
Nelle banche, negli istituti di credito e finanziari la
proprietà giuridica del capitale è separata da quella economica, nel senso
ch’essa risulta anonima e consociativa, mentre nel capitalismo industriale era
personale. “Con lo sviluppo della grande industria – scrive Marx – il capitale
monetario… è sempre meno rappresentato dal singolo capitalista… il capitale
prestabile della società [è] concentrato in pochi serbatoi”(pp. 499-500).
Le motivazioni che possono far scoppiare delle guerre locali
o regionali ora possono essere semplicemente il rifiuto di pagare i debiti o di
dichiararsi insolventi, il crac delle banche o delle grandi aziende o
addirittura degli Stati, persino il rifiuto di accettare crediti
internazionali, in forza dei quali – come noto – i paesi capitalisti incatenano
quelli del Terzo mondo, sempre facilmente ricattabili, a uno sviluppo economico
molto condizionato. Le motivazioni delle guerre sono sempre più dettate da
questioni finanziarie, e non tanto da questioni territoriali o energetiche.
Uscendo dal soggettivismo anarcoide del singolo
imprenditore, il capitalismo si consolida, ma nello stesso tempo diventa più
pericoloso, in quanto la responsabilità individuale viene meno, si tende ad
affermare sempre più la delega, scaricando su altri (che poi sono sempre i
piccoli risparmiatori) le conseguenze di scelte economiche sbagliate o
truffaldine.
Nel classico rapporto di lavoro industriale il proletariato
poteva rendersi conto direttamente dello sfruttamento. Ma quando il capitale si
trasforma da industriale a finanziario, si perde l’obiettivo contro cui
combattere. E la classe operaia purtroppo non ha una consapevolezza internazionale
delle dinamiche del capitalismo, non sa vedere le cose in maniera integrata,
olistica, globale: i suoi dirigenti non riescono a infondere una solidarietà di
classe a livello mondiale.
Questo è un problema serio, anche perché sotto il
capitalismo finanziario non solo sono avvenuti i peggiori crac della storia (quelli
di borsa e quelli di aziende che apparentemente sembravano solidissime), ma
questi crac hanno anche avuto effetti internazionali, essendo i singoli Stati
strettamente interconnessi sul piano economico.
Gli investimenti in titoli azionari e obbligazionari si
rivelano sempre più spesso drammatici per il risparmio delle famiglie, che non
a caso cercano d’investire con più frequenza nel “mattone”. Là dove si è più
convinti di aver fatto un buon investimento finanziario, lì si cela il rischio
di una truffa colossale, in cui a rimetterci saranno solo molto parzialmente
gli imprenditori o i manager aziendali, i quali sin dall’inizio della loro
attività sono in grado di avvalersi a piene mani dei cosiddetti “paradisi
fiscali”, in cui l’anonimato è garantito al 100%. Sicché quanto maggiore è il feticismo
nei confronti della capacità di autovalorizzazione del denaro (che prescinde
dalla mediazione del rapporto industriale), tanto più grande è il rischio di
una catastrofica disillusione.
Ciò appare in maniera del tutto paradossale, in quanto,
mentre il profitto è “la risultante di oscillazioni contraddittorie”(p. 497) –
dice Marx -, il tasso d’interesse invece viene fissato quotidianamente a
livelli più o meno generali. P.es. l’Europa, la cui recente unificazione è
stata più che altro il risultato di un’operazione squisitamente finanziaria,
rischia fortemente d’illudersi di poter fronteggiare con una moneta molto forte
le periodiche crisi strutturali dell’economia. Si è scelta la soluzione della
moneta dal corso elevato per eliminare la svalutazione, per assicurare un
credito a tassi agevolati, per non pagare il petrolio coi dollari ecc., ma se è
vero che la moneta in sé non perde di valore, è anche vero che il suo valore
rischia di essere troppo alto per economie fortemente indebitate come quella
italiana, per non parlare del fatto che una moneta così forte ha dato la
percezione (psicologica) di un’economia in grado di svilupparsi nonostante il
macroscopico debito pubblico e il disavanzo commerciale, sicché gli imprenditori,
i commercianti, gli esercenti si sono sentiti indotti ad alzare notevolmente i
prezzi dei loro beni: il che rende le stesse merci poco competitive sul mercato
mondiale e molto onerose su quello nazionale. Persino la tanto declamata
“crescita economica americana” è fondata su un debito colossale e non si
traduce in crescita della produzione e dell’export (in particolare
manifatturiero).
“Il saggio generale del profitto – scrive Marx – esiste di
fatto solo come cifra media ideale, in quanto serve per la valutazione
di profitti reali”(p. 497): non offre garanzie certe quando i lavoratori
oppongono una certa resistenza al loro sfruttamento. Tant’è che sempre più
spesso si vedono scomparire aziende apparentemente produttive, semplicemente
perché i loro dirigenti hanno preferito dislocarle altrove, dove il costo del
lavoro è di molto inferiore, oppure perché si è preferito investire i capitali
acquisiti in maniera più “finanziaria” che “industriale”. Le aziende che
vengono dismesse o delocalizzate all’estero erano sì produttive, ma non
abbastanza, e questo proprio in rapporto a quella “cifra media” di profitto di
cui parlava Marx.
Mentre le banche raramente scompaiono e più spesso si
fondono, si accorpano (nel senso che le maggiori inglobano le minori), le
operazioni di fusione (di trust o di cartello), quando si verificano in ambiti
industriali, comportano sempre tagli al personale molto drastici e dolorosi, e
spesso l’azienda accorpata finisce col chiudere i battenti o col perdere di
prestigio, ovvero col diventare una semplice filiale della casa-madre (la Fiat, p.es., prima che l’Italia entrasse nell’euro, eliminò ogni forma di concorrenza
automobilistica a livello nazionale).
Marx lo dice molto chiaramente, con una lungimiranza tale
che lo porterà ad elaborare la famosa tesi sulla caduta tendenziale del saggio
di profitto. “Se, in una sfera particolare, la caduta del saggio di profitto al
di sotto della media ideale si prolunga, ciò è sufficiente per sottrarre
capitale a questa sfera…”(p. 498), proprio perché il fine della produzione
capitalistica non è soddisfare bisogni ma realizzare profitti, nel modo più
semplice o sicuro possibile.
Un industriale diventa tale perché dai propri investimenti
vuole ricavare il massimo. Quando i livelli di profitto non raggiungono la
soglia prevista, ha molta meno pazienza di un agrario, che in fondo è diventato
capitalista contro la propria volontà. Oggi poi la disponibilità al rischio e
al sacrificio personale, avendo come fine il profitto, è praticamente ridotta
al minimo. Chi investe si aspetta qualcosa di significativo nel breve periodo.
Questo spiega anche il motivo per cui si preferisce l’investimento finanziario
a quello industriale.
Va inoltre detto che mettere in piedi dal nulla (come si
faceva un tempo) un’attività industriale in una società dominata dai monopoli,
incontra difficoltà spesso insormontabili, a meno che non intervenga
direttamente la politica a sponsorizzare l’iniziativa. Ma in genere le istituzioni
statali tendono a favorire le posizioni monopolistiche (le concentrazioni
industriali e le centralizzazioni dei capitali), specie là dove (come da noi in
Italia) il capitalismo sta passando da una gestione familistica dell’industria
a una gestione anonima della finanza.
Nel tempo intercorso tra le due forme di gestione
(familistica e anonima) abbiamo assistito a un progressivo smantellamento della
grande industria. Le attuali maggiori industrie nazionali (moda, alimentazione,
turismo ecc.) non sono né strategiche né a contenuto tecnologico avanzato
(ovviamente in rapporto ai livelli del capitalismo mondiale). Probabilmente
l’unica grossa industria strategica che in Italia ha saputo innovarsi nel tempo
è stata la Fiat, ma senza l’intervento diretto, protettivo, dello Stato non vi
sarebbe riuscita.
D’altra parte da noi si spende pochissimo in ricerca e
sviluppo; la fuga dei cervelli è considerevole; le università non sono
funzionali alle esigenze produttive delle imprese; gli stessi brevetti in
Italia sono ben poca cosa, se messi a confronto con quelli degli altri paesi
avanzati. Il capitalismo italiano è in progressivo declino e l’ingresso in
Europa, obbligandoci a un confronto con altri paesi nordeuropei, non ha fatto
che peggiorare il trend negativo.
La crisi sembra procedere a passi lenti soltanto perché con
il crollo del “socialismo reale” si sono improvvisamente aperti vasti mercati
orientali, prima quasi ermeticamente chiusi. Ma questa boccata d’ossigeno ha un
risvolto per noi spiacevole: l’Europa orientale, la Cina, l’India… sono seriamente intenzionate a diventare come noi, cioè paesi capitalistici
avanzati, in tempi molto brevi, in quanto hanno la possibilità di sfruttare il
loro enorme serbatoio di manodopera a costi irrisori (cosa che noi non possiamo
fare con la loro stessa libertà e quando ci viene permesso di farlo, le
delocalizzazioni delle nostre imprese finiscono inevitabilmente per danneggiare
la nostra stessa forza-lavoro).
Premessa - Il feticismo -
Il valore della cultura nel
capitalismo finanziario -
Trasformazioni del capitale -
Economia e cultura -
L'emancipazione borghese -
Conclusione
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