TEORIE SUL PLUSVALORE
Commento all'APPENDICE del vol. III
(Storia dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1993)
MARX E IL CAPITALE PRODUTTIVO
D’INTERESSE
LE TRASFORMAZIONI DEL CAPITALE
Nella seconda parte dell’Appendice, Marx cerca di
chiarire subito che dal punto di vista del sistema capitalistico, l’interesse e
il commercio sono aspetti secondari rispetto all’industria. Non solo, ma sono
anche aspetti anteriori all’industrializzazione, presenti in sistemi
antagonistici completamente diversi dal sistema capitalistico.
Il capitale trova l’interesse (generalmente usurario) e il
mercato prima ancora di diventare produttivo in senso industriale, e per
potersi imporre su tutta la società deve prima sottomettere entrambe le forme
d’uso del denaro. Per sottomettere gli usurai è sufficiente il sistema
creditizio (l’istituzione delle banche) ed eventualmente la coercizione dello
Stato. Il denaro deve costare poco perché lo si possa trasformare in capitale:
i tassi d’interesse usurari, pur presupponendo il mercato, non portano mai una
società a diventare capitalistica; essi, storicamente, hanno soltanto
contribuito a distruggere il sistema feudale.
La vera figura che determina la transizione dal capitale
commerciale a quello industriale è quella del mercante, che ad un certo punto
si trasforma da mero distributore di merci prodotte dalle corporazioni
artigianali cittadine o dal mondo contadino (nazionale e internazionale), in un
imprenditore che acquista lavoro salariato, che lo organizza in manifatture al
fine di produrre beni per il mercato.
Marx sa che questa è stata la principale trasformazione del
mercante, ma non ne spiega la ragione culturale, cioè il mutamento di
mentalità e di valori che l’ha determinata. Non lo fa neanche quando s’accorge
di un’altra trasformazione sociale non meno significativa, e cioè il fatto che
il produttore compra ciò che gli serve per produrre per il mercato e si
trasforma quindi in commerciante. Così scrive Marx: “In origine il commercio
è il presupposto della trasformazione del lavoro corporativo, del lavoro a
domicilio nelle campagne e del lavoro agricolo feudale in produzione
capitalistica. Esso trasforma il prodotto in merce…”(p. 504) e quindi finalizza
la produzione esclusivamente per il mercato.
Marx però non riesce a spiegare il motivo per cui la
presenza di un capitale commerciale, anche su scala molto diffusa, di per sé
non genera il capitalismo. E’ sì un suo irrinunciabile presupposto, ma in sé il
commercio non è sufficiente per la transizione al capitalismo. Occorre un
mutamento di mentalità.
Responsabile principale di questo mutamento culturale,
comportamentale, ideologico doveva necessariamente essere la religione
cristiana, a quel tempo cultura dominante. La produzione esclusiva per il
mercato, e quindi la produzione di massa su scala sempre più ampia, alla
ricerca di mercati sempre più vasti, per soddisfare unicamente l’esigenza di
profitto: tutto ciò richiese una contestuale rivoluzione culturale, che rendesse
progressivamente obsoleta una tradizionale concezione di vita. Una rivoluzione
cioè che permettesse di concepire il lavoro come finalizzato principalmente a
un profitto, il quale a sua volta doveva poter essere ricavato da qualunque
tipo di merce.
Prima erano i mercanti (privi di patrimoni terrieri, di
ascendenze nobiliari ecc.) a far fortuna con le merci rare, preziose, esotiche…
Ora invece il capitale commerciale sta per essere subordinato a quello
industriale. Non solo, ma l’industria deve sottomettere a sé anche la proprietà
fondiaria, poiché questa è un freno allo sviluppo del profitto, almeno finché
si basa sulla semplice rendita. Il capitalismo industriale è una risposta (da
Marx giudicata positivamente) alle irrisolte contraddizioni della rendita
feudale e del servaggio che le è sempre stato connesso.
Marx qui ricorda volentieri l’idea di Ricardo, secondo cui
la proprietà fondiaria andava statalizzata, in modo che la rendita finisse
direttamente nelle casse dello Stato. Tuttavia il capitale non può far questo,
poiché non può inimicarsi un alleato così prezioso nella battaglia a favore
dell’idea generale di sfruttamento del lavoro altrui.
Il profitto è contro la rendita ma entrambi sono favorevoli
allo sfruttamento del lavoro. L’intesa tra profitto e rendita verrà ad un certo
punto trovata sulle modalità di tale sfruttamento, che sotto l’egemonia
capitalistica devono essere quelle del “lavoro salariato”, il che presuppone la
libertà giuridica formale, cioè la facoltà personale di vendere se stessi in
qualunque momento. Finché il contadino è incatenato al feudo, non potrà mai
trasformarsi in operaio salariato nella fabbrica di città, ove l’aria che si
respira è – come si diceva – “libera”.
Premessa -
Il feticismo -
Il valore della cultura nel
capitalismo finanziario - Trasformazioni del capitale -
Economia e cultura -
L'emancipazione borghese -
Conclusione
|