I COLCOS E GLI SVILUPPI DELLO STALINISMO

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I COLCOS E GLI SVILUPPI DELLO STALINISMO

Il problema della ristrutturazione del modo di vita agricolo dei 120 milioni di contadini russi (i 4/5 dell'intera popolazione), fu quello più importante, sul piano economico, dopo la rivoluzione d'Ottobre. Il nuovo regime socialista non era affatto in rottura con la mentalità, i fondamenti economici e il modo di vita contadino, tant'è vero che le prime aziende agricole -le "comuni", in cui venivano socializzati il lavoro, i mezzi produttivi e i lotti di terra individuali, mentre la ripartizione dei redditi si basava sul principio livellatore; gli "artel", in cui venivano socializzati i mezzi produttivi e il lavoro, mentre la casa con il lotto, i beni personali restavano in godimento individuale; le società per la lavorazione collettiva della terra, oppure associazioni cooperativistiche analoghe, in cui venivano socializzati soltanto il lavoro e alcuni mezzi produttivi durante i lavori stagionali- sorsero subito dopo la rivoluzione, e la maggior parte spontaneamente. Il carattere democratico di gestione dell'economia agricola era conforme agli interessi del contadinato (dall'elezione dei dirigenti sino all'adozione delle decisioni mediante assemblee generali).

Perché dunque la collettivizzazione agricola si effettuò in maniera così assurda a cavallo degli anni '20 e '30? Le cause sono numerose. La principale è ben nota: la violazione dei princìpi dell'organizzazione dei colcos, come il libero consenso e l'iniziazione graduale dei contadini all'economia collettiva. Ma ve n'era un'altra, di ordine ideologico, non meno importante. Appena scoppiata la rivoluzione d'Ottobre, il governo sovietico, con Lenin in testa, aveva la ferma intenzione di finirla il più presto possibile con i rapporti mercantili-monetari. Già all'inizio del 1919, nel progetto del nuovo programma del partito, Lenin chiedeva di "continuare fermamente a sostituire il commercio con una distribuzione dei prodotti pianificata e organizzata a livello statale". L'intenzione era anche quella di sopprimere la moneta. Quando s'accorse dell'errore di voler passare immediatamente alla produzione e divisione comunista, Lenin affermò: "abbiamo subìto nella primavera del 1921 una sconfitta più grave di tutte quelle che ci inflissero i vari Kolciak, Denikin o Pilsudski". Fu questa crisi che determinò la svolta verso la NEP (1921-29).

Con la Nuova Politica economica fu imposta una tassa sui beni alimentari (prima in natura, poi in denaro), pagata la quale il contadino aveva il diritto di vendere i suoi prodotti ai prezzi formati dalla domanda e dall'offerta. Quanto più il contadino produceva tanto più vendeva (una volta pagata l'imposta). Da solo copriva le spese e si autofinanziava orientandosi sul futuro incremento del prodotto vendibile e quindi sulla crescita della redditività. Nell'arco di pochi anni le campagne sovietiche ricostruirono il loro potenziale produttivo distrutto dalla I guerra mondiale e dalla guerra civile (dal 1914 al 1920) e l'agricoltura garantì al Paese i prodotti alimentari. La NEP trasse il Paese fuori dal dissesto economico, vinse l'inflazione, allontanò il pericolo della carestia, ristabilì la normale formazione dei prezzi e un sistema monetario stabile, creò infine una consistente riserva finanziaria e materiale per la successiva industrializzazione e il riequipaggiamento tecnico di tutti i settori dell'economia.

Nel "comunismo di guerra" (causato dalla guerra civile e dall'intervento straniero: 1919-21), i contadini, dopo essersi trattenuti, per le proprie esigenze personali, una quantità rigidamente limitata di grano, dovevano consegnare allo Stato tutte le eccedenze (non solo di grano ma anche di altri prodotti) pagate a prezzi fissi, mentre lo Stato, a sua volta, distribuiva questi prodotti alle città, non in base ai risultati del lavoro, ma col metodo del razionamento fra chi era incluso in apposite liste o poteva esibire la tessera di socio di una cooperativa di consumo. Il partito allora era convinto che con un graduale aumento delle razioni si sarebbe potuto raggiungere il benessere collettivo. Ecco perché si pensò che il sistema dei prelevamenti avrebbe potuto continuare anche in tempo di pace.

La flessibilità di Lenin, tuttavia, è sempre stata molto spiccata. Egli in pratica, rendendosi subito conto dell'errore commesso, aveva capito:

  • che nei confronti del mondo agricolo ogni precipitazione non avrebbe fatto che allontanare i contadini dalle idee del socialismo e dalle innovazioni tecnico-scientifiche;
  • che le cooperative disponevano di un meccanismo che avrebbe potuto colmare la lacuna fra il contenuto politico della rivoluzione d'Ottobre e le sue premesse socio-economiche e culturali;
  • che la cooperazione poteva offrire a quei lavoratori psicologicamente non preparati al lavoro collettivo (in primo luogo ai contadini patriarcali) la possibilità di accedere ai metodi razionali di produzione (ovvero alle conoscenza agrotecniche e alle forme superiori di cooperazione). Il suo piano di cooperazione prevedeva la realizzazione d'una base materiale e tecnica per una cooperazione produttiva, per il miglioramento del livello culturale del contadino, senza il quale egli non avrebbe compreso i vantaggi di una partecipazione di massa alla cooperazione.

La NEP infatti sembrava offrire le migliori garanzie. Grazie ad essa i contadini medi (non ricchi come i kulaki ma neppure così poveri d'essere costretti al bracciantato) erano diventati i principali protagonisti della vita agricola. Nel 1927 le aziende medie erano triplicate (61% contro il 20% del periodo pre-rivoluzionario). I contadini poveri erano di molto diminuiti. Larghe masse di agricoltori, proprio in virtù della NEP, avevano preso gusto a un lavoro libero e creativo. In quello stesso anno i colcos e i sovcos fornivano, insieme, solo il 2% delle derrate alimentari e il 7% dei prodotti da mercato. Non pochi di essi operavano in perdita. La quota complessiva delle aziende collettivizzate era allora inferiore all'1%.

Anche il XV congresso (dicembre 1927) prevedeva che la transizione verso un'economia collettiva avvenisse in accordo con la volontà dei contadini. Ancora non si era prospettata la forzata costruzione di massa dei colcos e dei sovcos. E tuttavia, un'altra tendenza si fece strada. Se nella primavera del 1928 ci si propose di collettivizzare 1,1 milioni di aziende contadine familiari (4% circa del totale), nell'estate dello stesso anno si arrivò a 3 milioni (circa il 12%) e nel piano quinquennale approvato definitivamente nella primavera del '29, la cifra era già passata a 4-4,5 milioni (16-18%).

Nello spazio di un solo anno il progetto del piano era cambiato diverse volte e nella sua variante definitiva gli indici erano quadruplicati. Nella primavera del '29 il numero delle aziende agricole che si erano associate per formare dei colcos aveva raggiunto la cifra prevista per la fine del quinquennio. Questo soprattutto nelle regioni cerealicole. Stalin cercò di giustificare il fatto dicendo alla conferenza degli agricoltori marxisti, nel dicembre 1929, che la prudenza con cui Engels si era espresso circa la possibilità d'instradare le piccole aziende contadine verso la collettivizzazione, non aveva ragione d'esistere in URSS, dove la terra non era più di proprietà privata. Stalin in pratica, che -come Trotski e Zinoviev prima di lui- utilizzava in funzione anti-NEP alcune espressioni di Lenin formulate nel periodo del "comunismo di guerra", faceva coincidere la nazionalizzazione della terra con la realizzazione del socialismo. Rinunciando alla proprietà privata, i contadini -a suo giudizio- dovevano acquisire automaticamente il senso della proprietà collettiva. Non solo, ma egli faceva coincidere "proprietà collettiva" con "proprietà statale", sottoponendo il regime dei colcos a regole non molto diverse da quelle del regime dei sovcos (le aziende statali vere e proprie).

Al plenum del CC del partito (novembre 1929) si levarono le prime voci di protesta: la fretta e il dirigismo dei bolscevichi, nell'organizzare i colcos, non piacevano; meno che mai la parola d'ordine: "Chi non entra nei colcos è nemico del potere dei soviet". Si segnalava non solo che il principio del libero consenso era sistematicamente violato, ma anche che nessuna misura decisiva veniva presa contro gli abusi. Per tutta risposta, Stalin propose, all'inizio del 1930, di fissare dei tempi ancora più corti per la collettivizzazione, soprattutto nelle principali regioni cerealicole: autunno 1930-primavera 1931 per il Caucaso del Nord e il Basso e Medio Volga; autunno 1931-primavera 1932 per le altre regioni. Verso il 20 gennaio 1930 il 21,6% delle aziende contadine erano state collettivizzate, e il 52,7% verso il 20 febbraio. Quanto più lo strato essenziale del contadinato -cioè quello "medio", soprattutto nelle regioni non cerealicole e non russe- si opponeva a entrare nei colcos, tanto più si faceva ricorso a misure coercitive. Erano pochi i colcos organizzati sulla base del libero consenso.

Perché dunque non si riuscì a materializzare la dottrina leniniana secondo cui il socialismo doveva anzitutto essere una società di "cooperatori civilizzati"? Si può dire che da una parte, a causa del suo debole livello di civilizzazione e di sviluppo industriale, nonché del suo isolamento internazionale, la Russia non poteva accedere al socialismo che imboccando una via lunga e difficile (invece di lasciare interagire democraticamente la grande produzione statale con le cooperative e le aziende private si preferì puntare -soprattutto con lo stalinismo- sul controllo statale diretto della produzione e della distribuzione); dall'altra le oggettive condizioni del Paese (come ad es. la mancanza di cultura, di coscienza professionale, di manodopera qualificata) hanno potuto facilmente indurre i comunisti massimalisti (l'ala gauchiste del bolscevismo) ad accelerare il progresso in Russia, mirando all'egualitarismo totale, alla distribuzione delle ricchezze altrui, alla crudeltà nei confronti dei proprietari... Masse ignoranti aspiravano a soluzioni semplicistiche e unilaterali, a prescindere dalla loro riuscita economica. Difficilmente si sarebbe potuta sopportare l'idea di un'autonomia economica dell'azienda privata, in una Russia appena uscita dalla zarismo e ancora sconvolta dall'interventismo straniero e dalla guerra civile.

Per tenere sotto controllo un Paese del genere (le cui enormi dimensioni peraltro non vanno sottovalutate) si preferì scegliere la strada del burocratismo. Già nel 1920 il numero dei funzionari a Mosca e a Pietroburgo superava, rispettivamente, del 46% e del 50% quello del 1917. Nel '26 l'apparato statale contava 832.000 funzionari (contro i 432.000 del pre-Ottobre). Nel '27 erano aumentati ancora di 49.000 unità. Alcuni dipartimenti spendevano per mantenere l'apparato amministrativo fino al 40% del fondo salariale destinato agli operai. A partire dalla seconda metà degli anni '20, partito e Stato si erano posti di fronte a questa alternativa: o ridurre l'apparato amministrativo comprimendone le spese, oppure sfruttare la campagna a beneficio della città. Felix Dzerjinski, ad es., era favorevole alla prima alternativa e contestava la posizione di Trotski, favorevole alla seconda. Dzerjinski era convinto che a spese dell'agricoltura non ci sarebbe potuta essere un'efficiente industrializzazione.

Da notare, peraltro, che la strada della burocratizzazione era già stata ampiamente battuta nella Russia zarista. Nelle grandi imprese industriali dello Stato, a differenza di quelle private, non si conoscevano affatto i metodi di gestione capitalistici. Qui si ricevevano gli ordini di costruire un certo quantitativo di merci e si eseguiva senza discutere. I costi di produzione non interessavano a nessuno. Il prezzo veniva determinato a posteriori, alla fine dell'intero ciclo produttivo. Quanto più alti erano i costi, tanto maggiore era l'utile dell'impresa. In genere si aggiungeva ai costi di produzione un 15% circa, di cui il 10% finiva nelle tasche dei dirigenti sotto forma di premi.

Questo sistema ovviamente non produceva alcun incentivo economico alla crescita dell'efficienza del settore statale. Le cause di ciò non erano economiche ma politiche: l'autocrazia zarista, che esprimeva gli interessi della nobiltà semifeudale, era timorosa del rafforzamento politico ed economico della borghesia. I membri più oscurantisti della Duma (Parlamento) e i ministri reazionari insistevano per lo sviluppo delle aziende statali come contrappeso all'economia capitalistica. Inoltre, pensavano così di contenere i prezzi e regolare i profitti delle imprese private, le quali però fabbricavano i loro prodotti più rapidamente, meglio e a minor prezzo. Nelle fabbriche dello Stato, che potevano contare su commesse garantite, nessuno rispondeva della puntualità delle consegne, né della qualità dei prodotti. Vigeva insomma il principio: "non importa se le aziende pubbliche sono scadenti, in compenso garantiscono l'esecuzione degli ordini".

Lenin, nello scritto Riusciranno i bolscevichi a mantenere il potere, affermava che questo apparato statale doveva essere distrutto, mentre quello monopolistico privato andava sottratto ai capitalisti e affidato ai soviet. Stalin invece preferì tornare al sistema semifeudale pre-rivoluzionario perché capì che era più consono ai suoi metodi autoritari e amministrativi. Non fu neppure necessario nazionalizzare le imprese statali zariste, bastò affidarle ai nuovi direttori, mentre alle imprese private s'impose una gestione extra-economica.

La gioventù ebbe un ruolo assai attivo nell'organizzare il regime colcosiano. Più di 5 milioni di giovani contadini entrarono nei colcos verso il 1930. Si trattava dello strato sociale rurale più istruito e più disponibile a creare nuove forme di gestione della produzione agricola. Ma, nonostante questo, nell'insieme del Paese la violenza, nei confronti dei contadini medi, era lo strumento principale per accelerare la collettivizzazione. La conseguenza di ciò fu drammatica: in numerose regioni, già a partire dal gennaio 1930, i contadini cominciarono a ritirarsi dai colcos (Medio Volga, Regione centrale delle Terre nere, Siberia), rompendo l'alleanza con gli operai. Dal gennaio fino alla metà di marzo vi furono circa 1700 rivolte anticolcosiane di massa (senza contare l'Ucraina), che avevano coinvolto più di 550.000 contadini. Circa 50.000 lettere di protesta, nell'inverno e nella primavera del 1930, vennero indirizzate a Stalin; altre 85.000 a M. Kalinin, presidente del Soviet supremo. L'articolo pubblicato da Stalin, Vertigine da successo, scaricava tutte le responsabilità degli abusi sulle amministrazioni locali, le quali, in verità, non facevano che applicare direttive venute dall'alto. Peraltro, le difficoltà erano anche oggettive: troppo basso era il livello della base materiale e tecnica dell'agricoltura, prima della collettivizzazione totale. Solo 1/4 dei colcos disponeva di trattori. Nel '29 essi non avevano lavorato che l'1% dei campi. Anche le altre forme di cooperazione agricola erano assai deboli.

Lo stalinismo cominciò ad accusare l'ala buchariniana di "disfattismo" e "sabotaggio". Bucharin, in un primo momento, fu dell'avviso che la principale forma di socializzazione nelle campagne fosse la cooperazione del commercio. Egli riteneva che il sistema delle organizzazioni cooperative -quelle dei contadini poveri (colcos), dei contadini medi (cooperative di rifornimento, smercio e credito) e dei kulaki (contadini ricchi che disponevano di bracciantato agricolo)- avrebbe finito per integrarsi nelle relazioni economiche socialiste. Tuttavia, quando prese piede il movimento di massa della collettivizzazione agricola, Bucharin, con i suoi sostenitori (A. Rykov e M. Tomski), rinunciò a insistere sulle sue originarie convinzioni. Non rinunciò però Stalin ad accusarlo di "deviazionismo di destra", tanto che Bucharin venne escluso dall'ufficio politico.

Intanto la resistenza accanita dei kulaki si trasformò in un movimento insurrezionale e degenerò in un sanguinoso terrore. Essi avvertirono con estrema chiarezza che se non avessero reagito, la loro fine sarebbe stata segnata. Già nel 1918 si erano visti confiscare 50 su 80 milioni di ettari: il peso di questo strato di contadini ricchi era diminuito da due a tre volte.

Eppure Lenin avrebbe preferito una strada meno traumatica: "l'espropriazione dei kulaki -diceva- non può in alcun modo costituire il compito immediato del proletariato vittorioso, poiché le condizioni materiali, in particolari tecniche, e quelle sociali della collettivizzazione di queste aziende sono ancora separate". Prima dell'inizio della collettivizzazione totale, lo Stato sovietico praticava una politica mirante a limitare la propensione dei kulaki allo sfruttamento della manodopera, senza però chiudere loro l'accesso alla cooperazione e ai colcos. Verso il 1927 questo strato di possidenti formava circa il 4% del totale delle aziende (circa un milione). Tuttavia essi disponevano del 15% di tutte le terre da semina, l'11,2% del bestiame e offrivano, in media, una produzione superiore di 10 volte a quella dei contadini poveri. In queste condizioni, il potere stalinista non poteva vedere di buon occhio la concentrazione dei mezzi produttivi nelle mani dei kulaki, o il loro sfruttamento del lavoro salariato agricolo, o anche solo un aumento numerico delle loro file.

L'energica eliminazione economica e l'isolamento politico dei kulaki esasperò la lotta di classe nelle campagne e rafforzò la resistenza degli elementi capitalistici. Soltanto nel 1929 ebbero luogo più di 1300 rivolte di massa. Circa 10.000 comunisti, militanti rurali e colcosiani -quasi 10 volte di più che dal 1o gennaio 1926 al 1o settembre 1927- caddero vittime della lotta kulaka.

La cosiddetta "dekulakizzazione" fu talmente violenta che vennero espropriati persino i contadini medi: circa 600.000 famiglie nel solo biennio '30-'31. Di queste più di 240.000 vennero deportate nel Nord, negli Urali, in Siberia e nel Kazakhstan, dove cominciarono a lavorare su terre incolte, nelle foreste, oppure nell'industria. Da 200.000 a 250.000 kulaki preferirono vendere o abbandonare i loro beni, andando a vivere nelle città, per lavorare nei grandi cantieri edili o nei centri industriali.

La sottocommissione diretta dal segretario regionale del partito di Mosca, K. Bauman, aveva proposto di ammettere nei colcos la categoria più numerosa dei kulaki, quella disponibile a sottomettersi e a far prova di lealtà verso il potere dei soviet, concedendo ad essa un periodo di tempo dai 3 ai 5 anni, e utilizzando i membri delle loro famiglie (circa 5 milioni di persone) per svolgere lavori socialmente utili. Ma questa proposta non venne neppure presa in considerazione dalla commissione del CC, presieduta da V. Molotov. In quanto classe sociale, i kulaki cessarono di esistere verso la fine del 1932.

Tuttavia, benché il tasso di collettivizzazione si fosse elevato al 61,5% nel 1932, contro il 23,6% del 1o giugno 1930, i colcos si mostravano assai deboli sul piano economico-organizzativo. La raccolta cerealicola globale diminuì di quasi 140 milioni di quintali in rapporto al 1930 (100 milioni in meno di quintali rispetto al 1913). Mentre il patrimonio zootecnico, verso il 1933, diminuì più di due volte rispetto al 1929. Stalin spiegò questa caduta della produttività con la riorganizzazione dell'agricoltura, facendola passare per una legge oggettiva dello sviluppo. In realtà le ragioni andavano cercate nella violazione del principio dell'incentivazione materiale dei colcos e dei sovcos, nonché nella carente organizzazione del lavoro e della produzione (si pensi ad es. alla forzata socializzazione dei bovini e degli ovini).

Alcuni dirigenti in vista del partito e del governo, soprattutto S. Orgionikidze e Y. Rudzutak, si pronunciarono contro gli abusi. Il noto scrittore, M. Sholokov, fece sapere a Stalin che per realizzare il piano, il distretto di Vechenski (in cui egli viveva) doveva consegnare allo Stato circa 5000 vacche, dopodiché non gliene restava che una per ogni 5-6 aziende. Nessuno naturalmente voleva vendere la sua ultima vacca. "Sin dai primi giorni -scriveva Sholokov- i colcosiani opposero in tutti i colcos un'accanita resistenza: essi cominciarono col rinchiudere le loro vacche nelle stalle, a tenerle costantemente sotto chiave, ad armarsi di bastoni per resistere ai soprusi di chi veniva a requisirle...".

La situazione fu particolarmente critica nel 1932-prima metà del '33: l'Ucraina, il Caucaso del Nord, la regione del Volga, il Kazakhstan, le regioni meridionali delle Terre nere, gli Urali e parzialmente la Siberia occidentale erano alla fame. Ciò dipendeva tanto dalla siccità quanto dall'abbandono dei contadini di migliaia di ettari di terra, prima ancora che si facessero i raccolti. L'organizzazione dello stoccaggio del grano era pessima. Mentre il volume della raccolta cerealicola globale diminuiva, i piani degli ammassi aumentavano le pretese. Nel 1932 lo stoccaggio del grano fu, in totale, superiore del 32,8% a quello del 1930. La fame era praticamente assicurata, nell'immediato, anche perché si stoccava sia il grano commerciale che le sementi e il foraggio.

Benché una fame senza precedenti avesse coinvolto -a detta dello stesso Stalin- circa 25-30 milioni di persone, ben 18 milioni di quintali di cereali furono destinati all'export, nel 1932, per poter finanziare lo sviluppo industriale. Un sacrificio così grande ai contadini non era stato chiesto neppure ai tempi dello zarismo. Le responsabilità dello stalinismo nei confronti dell'agricoltura sono state enormi. Gli abusi, le violazioni della legalità socialista, le repressioni di massa furono innumerevoli.

Estremamente severa fu la legge sulla tutela della proprietà socialista, redatta dallo stesso Stalin e ratificata il 7.VIII.1932 dal governo. Essa faceva obbligo "di applicare, onde punire gli autori di furto di beni colcosiani e cooperativi, l'estrema misura di difesa sociale: la pena di morte per fucilazione, con confisca di tutti i beni, ovvero la commutazione della pena, in caso di circostanze attenuanti, con la privazione della libertà per un periodo di almeno 10 anni, con confisca di tutti i beni". Dopo neanche 5 mesi dall'applicazione di tale legge, furono condannate circa 55.000 persone.

La situazione economica non migliorò che durante il secondo piano quinquennale (1933-37), in quanto si modificarono taluni aspetti organizzativi ed economici dei colcos e dei sovcos, incluse le norme di stoccaggio del grano. Determinate forniture obbligatorie di grano, equivalenti, in sostanza, a una tassa, vennero introdotte nel 1933. Ma questa misura non creò gli stimoli materiali necessari allo sviluppo produttivo, poiché vennero conservate le quote elevate delle precedenti forniture per ettaro e il basso prezzo di vendita del grano.

La collettivizzazione agricola fu terminata nel 1937: 243.000 colcos raggruppavano il 93% delle aziende contadine e il 99% delle superfici seminate. La produzione cerealicola globale, per anno, fu in media di 72,9 milioni di tonnellate (contro i 69,3 milioni nel 1924-28). Particolarmente buono fu il raccolto del 1937: 97,4 milioni di tonnellate. Aumentò pure di due volte la produzione della barbabietola da zucchero e di tre volte quella del cotone grezzo. Gli allevamenti bovini, suini, ovini e caprini crebbero, rispettivamente, di 1,5, 2,6, e 1,8 volte. I colcos e i sovcos offrivano il 72,2% di tutta la produzione agricola: le aziende ausiliarie dei colcosiani (operai e impiegati) fornivano il 26,3%, mentre quelle individuali solo l'1,5%. Durante la II guerra mondiale furono appunto i colcos che sostennero il peso maggiore dell'approvvigionamento alimentare dell'esercito, della popolazione delle città e degli operai dei centri industriali.

Tuttavia, proprio a partire dagli anni '40, nuovi tentativi furono intrapresi per rafforzare ulteriormente il centralismo statale, al fine di realizzare una progressiva trasformazione dei colcos in sovcos. I difetti del sistema amministrativo nei riguardi delle campagne si fecero particolarmente sentire nel dopoguerra. Nel 1953 il plenum del CC del Pcus decise di aumentare di alcune volte i prezzi all'ingrosso dei principali prodotti agricoli, cancellò gli enormi debiti dei colcos e dei sovcos, ridusse le imposte e aumentò la retribuzione del lavoro. Questa nuova linea fu seguita dal 1954 al 1956, conseguendo certi miglioramenti. Poi però nel 1957 venne bloccata la crescita della remunerazione del lavoro, così la redditività degli investimenti e i ritmi di crescita della produzione agricola globale si ridussero di due volte.

I metodi amministrativi tornarono in auge sino al 1965, allorché il Pcus emanò la direttiva sulle "Misure urgenti per l'ulteriore sviluppo dell'agricoltura". Di nuovo vennero annullati i debiti dei colcos e sovcos, aumentati bruscamente i prezzi all'ingrosso dei principali prodotti, ampliati i diritti delle aziende nella programmazione della loro attività, fu promesso che il piano quinquennale sarebbe stato stabile e ridotto. Il governo sperava così che tale piano sarebbe stato superato notevolmente, dato che per pagare il grano eccedente, che il colcos vendeva allo Stato, fu stabilito un prezzo maggiorato del 50%. L'economista allora più favorevole al "calcolo commerciale" fu Victor Novozilov (1892-1970), che capì perfettamente come la strategia dei pianificatori non fosse in grado di sostituire quella dei consumatori, senza rischiare di produrre beni inutili.

Tuttavia, anche questo esperimento fallì. Per la semplice ragione che le aziende non rispettarono le consegne. Esse infatti preferirono consumare i loro prodotti piuttosto che ricevere dallo Stato una moneta con la quale non avevano nulla da comprare. Di qui il ritorno alla pratica dei prelevamenti, mentre gli obblighi imposti ai contadini venivano aggiornati quasi ogni settimana. Le consegne libere furono abolite e l'aumento dei prezzi all'ingrosso fu ridotto gradualmente a zero con la crescita di quelli delle macchine agricole, dei concimi, dei materiali da costruzione e dei combustibili.

La crisi agricola fu così forte che nell'XI piano (1981-85) gli investimenti nell'agricoltura raggiunsero la cifra astronomica di 170 miliardi di rubli, mentre il rendimento di ogni centinaio di rubli spesi per le macchine agricole, i concimi, i materiali da costruzione, continua ad abbassarsi. Finché, ad un certo punto, il Pcus fu costretto ad ammettere che i rapporti di proprietà vigenti erano diventati un ostacolo gravissimo al progresso socio-economico del Paese. Il XXVII congresso del Pcus (1986) riscoprì per la seconda volta, dopo il X congresso del Pc (b) del 1921, l'importanza della cooperazione. Al plenum del CC del Pcus (29.VII.1988) Gorbaciov spiegò chiaramente che "tutte le misure di rafforzamento della base materiale nelle campagne non avevano sortito l'effetto sperato, perché non erano state contemporaneamente sostenute da un corrispondente lavoro di modificazione dei rapporti economici nell'agricoltura". Modificare questi rapporti -egli ha detto- significa anzitutto permettere che "il contadino diventi davvero padrone sulla terra che lavora". "Socialismo" significa appunto "porre fine alla separatezza dell'uomo dai mezzi di produzione".

I COLCOS E LA PERESTROJKA

Le difficoltà che oggi deve affrontare l'agricoltura sovietica dipendono ancora, in qualche modo, dalla forzata collettivizzazione delle terre negli anni '20 e '30, dallo scambio ineguale tra città e campagna, dall'insufficiente sviluppo delle infrastrutture commerciali, socio-culturali dell'ambiente rurale... I coltivatori sono stati completamente demotivati, le campagne si sono spopolate. Per tornare alla "normalità", oggi è impossibile limitarsi a un mero aumento salariale. Il problema piuttosto è diventato quello di far sentire l'agricoltore vero "proprietario" della sua terra. Finché il proprietario resta lo Stato, i lavoratori si sentiranno sempre degli esecutori della volontà dell'apparato burocratico e politico-amministrativo. Lo Stato quindi deve riconoscere il primato alla società e, nell'ambito di questa, deve permettere che i lavoratori, nel rispetto di talune regole generali fondamentali, fruiscano di un'ampia autonomia economico-finanziaria. Gli organi statali devono limitarsi a una funzione di indirizzo e di coordinamento, mantenendo naturalmente i rapporti coll'estero: non possono e non debbono occuparsi della gestione operativa, del management.

Se questa autonomia sarà garantita, non ci sarà alcuna necessità di sopprimere i colcos: basterà trasformarli in vere cooperative agricole. Le aziende individuali non sono l'unica alternativa, né esse avrebbero la forza di diventarlo. Rimborsare i debiti contratti verso la campagna, in questi ultimi 60 anni di storia dell'URSS, non significa necessariamente procedere a una "decollettivizzazione" forzata. Il decreto dell'aprile 1989 sui "contratti d'affitto" costituisce sicuramente un passo importante verso la realizzazione di una nuova forma socio-economica di management agricolo. Esso prevede che nello stadio iniziale il contratto d'affitto sia di breve durata; i locatari ricevono le commesse dall'alto, e pagano un canone fisso per i macchinari e le terre loro concesse. In un secondo momento, i locatari sono in grado di acquistare ciò di cui hanno bisogno coi redditi guadagnati, senza dover ricorrere al credito. L'amministrazione statale non ha il diritto di interferire nei loro affari. A questo stadio avanzato, la formula del contratto d'affitto non riguarderà più singoli settori dell'azienda agricola, ma l'intera azienda.

Ora, visto e considerato che, a partire dalla perestrojka, si è per così dire rilanciata la politica della NEP, in quanto l'attuale accento posto sul calcolo economico, sulle leve e gli stimoli economici concorda nettamente con lo spirito della svolta del 1921, ci si può chiedere se davvero ha senso ritenere che la perestrojka altro non sia che un mera riedizione della NEP classica, seppure col vantaggio del progresso tecnico-scientifico, o se non sia piuttosto una riforma più profonda. Alcuni esperti ritengono che sia proprio il divieto di avere dipendenti salariati a costituire la fondamentale differenza tra le due esperienze (per quanto -è bene ricordarlo- nel 1923 meno del 16% dei lavoratori era presente nelle imprese private e nel 1928 circa il 6%).

In effetti, ai tempi della vecchia NEP, quando venne introdotta l'imposta in natura, facilmente nascevano figure sociali come il kulak, il mercante, l'imprenditore (nel mercato si potevano acquistare anche certi mezzi produttivi): queste figure si arricchivano sia sfruttando la favorevole congiuntura che la forza-lavoro salariata. Nel complesso quindi si apriva uno spazio notevole per l'azione delle forze spontanee dell'economia, che in prospettiva avrebbero anche potuto sottomettere il socialismo. Il potere politico acconsentì coscientemente alla creazione di una situazione di aperta competizione fra il settore capitalista e quello socialista dell'economia. Solo il tempo avrebbe potuto stabilire quale settore doveva prevalere. Lo stesso Lenin, nel 1922, presentò un progetto di risoluzione all'XI congresso del partito, nel quale si sosteneva che "a proposito dell'impiego di manodopera salariata in agricoltura e dell'affitto di terre, il congresso del partito raccomanda a tutti i lavoratori del settore di non soffocare con formalità eccessive né l'una né l'altra di queste prassi e di limitarsi... a individuare misure ragionevoli con cui evitare gli eccessi dannosi nei rapporti sopra citati".

Stando a molti economisti sovietici (p.es. G. Shmeliov), il lavoratore sovietico non è padrone dei suoi mezzi produttivi, ma è un "dipendente statale". Con la rivoluzione, infatti, la terra, il sottosuolo, le fabbriche e le aziende sono passate in proprietà allo Stato, certo non al popolo, il quale non ha mai potuto esercitare direttamente il potere di amministrare la proprietà pubblica. Quindi il lavoratore sovietico è sempre stato un "salariato". Paradossalmente, si potrebbe dire che c'è più "socialismo" in quei Paesi dove gli operai possiedono azioni delle imprese in cui lavorano.

Ora però anche nell'URSS socialista le cose stanno cambiando: la legge sull'attività lavorativa individuale ha praticamente reintrodotto il concetto di "proprietà privata", seppure su piccola scala, mentre la legge sull'affitto e i rapporti d'affitto permette ai lavoratori di diventare affittuari non solo della terra ma anche dei rapporti produttivi. Il che è come se si fossero spezzate le due tavole della legge mosaica, in quanto pochi economisti sovietici (neppure il progressista A. Aganbeghian) avrebbero potuto pensare che la "NEP" della perestrojka si sarebbe spinta fino ad accettare di far entrare nel ciclo commerciale privato i mezzi di produzione, permettendo così l'assunzione di manodopera salariata.

Gli economisti radicali (tra cui G. Popov) non hanno remore di sorta. "Mercato socialista" vuol dire mercato delle merci, del denaro, dei titoli e anche del lavoro. Essi affermano che se il lavoratore è "padrone" della propria forza-lavoro, dev'essere anche "libero" di contrattarla con qualunque imprenditore, lasciando allo Stato solo il compito di garantire al lavoro privato condizioni di lavoro e assistenza sociale non inferiori a quelle presenti nel settore pubblico.

A questo punto però vien da chiedersi se l'obiettivo degli economisti radicali sia effettivamente quello di realizzare un "socialismo autogestito di mercato" o non piuttosto una qualche variante del "capitalismo di stato". Si può essere infatti d'accordo che un lavoratore dev'essere lasciato libero di fare il dipendente salariato o il socio di una cooperativa, ma questa libertà dovrebbe poterla godere in qualsiasi momento e non solo adesso, nel momento in cui deve scegliere, cioè nel momento in cui tutti i principali mezzi produttivi sono ancora nelle mani dello Stato sovietico. Questi radicali sembrano volere una sorta di sistema sociale in cui lo Stato sia "socialista" e la società sia "capitalista", ma non può essere questo il modo in cui si costruisce il "socialismo democratico".

La proprietà statale dei mezzi produttivi non può essere messa all'asta, a disposizione del migliore offerente. Tale proprietà va progressivamente trasferita nelle mani dei lavoratori, solo ai quali, collettivamente intesi, spetta il compito di gestirla e controllarla. Certo, è oltremodo superata l'idea di salvaguardare lo Stato socialista tradizionale, onde impedire che la perestrojka, sul piano dei rapporti socio-economici, rischi di stimolare la reintroduzione del capitalismo. Questo modo di vedere le cose è tipico di chi vuol fare le riforme a metà, cioè di chi si fida di più, in ultima istanza, dei metodi amministrativi che non di quelli economici. In realtà costoro si devono rendere conto che non c'è nulla e nessuno che, usando la forza, può impedire agli uomini di scegliere strade sbagliate. Solo la forza dell'esempio -insegna il leninismo- può portare gli uomini a scegliere la giusta via.

Dunque la vera differenza fra la vecchia e la nuova NEP non sta semplicemente nel fatto -come vuole, ad es., l'economista L. Voskresenski- che ai lavoratori, ma soprattutto agli agricoltori, si può oggi garantire una maggiore autonomia economica, nonché un forte sviluppo tecnico-scientifico; non sta -come vuole, ad es., l'economista D. Vasilev- nel fatto che oggi manca la "base economica" per rischiare di cadere nel capitalismo (in quanto nell'URSS è ancora esclusa l'assunzione di manodopera, l'uso privato dei grandi mezzi produttivi, ecc.), né sta nel fatto che gli odierni colcos non sono imprese private, in quanto operano sulla base di una "proprietà collettivizzata" a livello dell'intera URSS, e neppure sta nel fatto che gli odierni colcos preferiscono vendere le loro eccedenze allo Stato, ritenuto più solvibile dei privati. La vera differenza sta nel fatto che la coscienza dell'uomo moderno (incluso quello sovietico) riuscirebbe a tollerare molto meno l'eventualità che dopo l'attuale "NEP" la società ripiombi nel buio della dittatura. Solo a partire da questa consapevolezza gli uomini riusciranno ad accettare le profonde riforme dell'attuale prestrojka.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015

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