STALIN E L'AMERICA

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STALIN E L'AMERICA

Sotto Stalin vennero gettate, nell'ex-URSS, le basi della politica estera sovietica, inclusa quella verso gli USA. L'eco di questa politica si è sentita, praticamente, sino alla svolta gorbacioviana, allorché sono stati messi all'ordine del giorno i temi dello Stato di diritto, della separazione fra ideologia e Stato, dell'interdipendenza degli interessi mondiali, della sicurezza universale, della "casa comune europea" ecc. Ovviamente è impossibile ricostruire la politica estera di Stalin solo sulla base dei discorsi, interviste e articoli che gli appartengono. Occorrerebbe esaminare anche le pubblicazioni occidentali relative a "memorie", rapporti diplomatici ecc., nonché gli archivi del Pcus, del Ministero della Difesa e del KGB, gli archivi di L. Trotsky ad Harward e quelli dei Paesi ex-comunisti dell'Europa orientale, senza dimenticare che ai tempi di Krusciov e di Breznev furono distrutti tutti i documenti che potevano compromettere la figura di Stalin.

La visione politica estera staliniana ruotava attorno a due pilastri fondamentali: il rivoluzionarismo (altrimenti detto "romanticismo rivoluzionario") e l'idea di una Russia come grande potenza. Il romanticismo rivoluzionario rappresentava, in sostanza, la filosofia marxista nella sfera nella politica estera. Esso risaliva alla rivoluzione francese, la quale aveva proclamato la Francia "alleata naturale" di tutte le nazioni libere, disposta a sostituire alle relazioni diplomatiche una guerra rivoluzionaria per la liberazione dell'Europa. Il Manifesto di Marx ed Engels si fondava appunto, col suo appello all'unificazione del proletariato mondiale, sulle tradizioni della solidarietà rivoluzionaria. Quelle tradizioni che da più di mezzo secolo avevano visto intellettuali radicali europei disposti a partecipare a qualunque tipo di insurrezione per la libertà, fosse essa in Polonia, Francia, Italia, Grecia o Germania.

Secondo il Manifesto gli operai non hanno patria, e nel sec. XIX in effetti sembrava così. Anche alla vigilia della I guerra mondiale, i partiti socialdemocratici al potere ritenevano impossibile che i socialdemocratici tedeschi potessero sparare sui loro compagni francesi, belgi e russi (25 anni dopo gli operai sovietici pensarono che gli operai tedeschi non avrebbero sparato su di loro).

Insomma si voleva la rivoluzione mondiale. Si può immaginare con quale stato d'animo i bolscevichi firmarono il trattato di pace di Brest-Litovsk con la Germania. La stessa Internazionale Comunista, sin dal suo nascere, aveva assunto il ruolo di "quartier generale" della rivoluzione mondiale.

Naturalmente la rivoluzione mondiale non era per Stalin la stessa cosa che per L. Trotsky o G. Dimitrov. Stalin non la considerava come un aiuto disinteressato ai lavoratori d'altri Paesi in lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione, ma come un'espansione illimitata della rivoluzione russa, che avrebbe dovuto portare a un impero rivoluzionario.

Questo romanticismo rivoluzionario preoccupava alquanto l'America, che già nel lontano 1793 aveva espulso il rappresentante francese E.C. Genét che, a nome della Convenzione, aveva cercato di coinvolgere gli USA nel movimento rivoluzionario.

Non a caso F.D. Roosevelt, nello stabilire relazioni diplomatiche con l'URSS, pretese che la seguente complicata garanzia fosse prevista nel messaggio di M. Litvinov, ambasciatore sovietico negli USA: "Il governo sovietico s'impegna a non permettere la formazione o la presenza, nel suo territorio, di alcuna organizzazione o gruppo, o comunque ad adottare misure preventive contro l'attività di organizzazioni, gruppi o loro singoli rappresentanti, ovvero funzionari di qualunque apparato o associazione, che perseguano l'obiettivo, nei confronti degli USA o di una qualunque loro parte (territori o domini), di rovesciare o modificare con la forza il regime politico o sociale esistente".

Verso la metà degli anni '30, Stalin, tentando di uscire dall'isolamento diplomatico, ogniqualvolta incontrava i rappresentanti ufficiali del mondo occidentale, preferiva dissociarsi dall'idea della rivoluzione mondiale. La sue dichiarazioni, tuttavia, non suscitavano mai piena fiducia.

Il 1 marzo 1936 egli ebbe una interessante conversazione con l'editore americano Roy Howard: Stalin: "Se voi pensate che i sovietici vogliano modificare, anche attraverso l'uso della forza, la fisionomia politica degli Stati confinanti, vi sbagliate completamente. Certo, i sovietici vorrebbero tale mutamento, ma questo è un problema di quegli stessi Stati".

Howard: "State forse dicendo che l'URSS ha per così dire abbandonato i suoi piani e le sue intenzioni di fare la rivoluzione mondiale?"

Stalin: "Noi non abbiamo mai avuto questi piani e queste intenzioni" (E' sufficiente qui ricordare che nel 1925 Stalin aveva dichiarato, dalla tribuna del XIV congresso del partito, che l'URSS era "la base della rivoluzione mondiale" e, un anno più tardi, che il potere sovietico era il baluardo e il rifugio del movimento rivoluzionario del mondo intero).

Howard: "Mi sembra che da molto tempo il mondo la pensi diversamente".

Stalin: "è il frutto di un malinteso".

Howard: "Un tragico malinteso?"

Stalin: "No, comico, anzi tragicomico". Poi aggiunse: "Vede, noi marxisti crediamo che la rivoluzione accadrà anche in ogni altro Paese. Ma ciò avrà luogo solo quando i rivoluzionari di quei Paesi la riterranno possibile o necessaria. L'esportazione della rivoluzione non ha alcun senso".

In realtà per Stalin era assurdo soltanto un tipo di esportazione, quello basato sui metodi e mezzi della "cavalleria rossa", che certo ai suoi tempi era diventata anacronistica. Di fatto il Komintern era lo stato maggiore della rivoluzione mondiale. Di qui le violente controversie sulle vie di sviluppo della rivoluzione di questo o quel Paese, la formazione dei quadri per queste rivoluzioni, l'invio di consiglieri per organizzare la lotta armata, la regolamentazione della politica dei partiti comunisti degli altri Paesi, ecc.

Nel 1939 Stalin commise un tragico errore. Egli credette che il nemico n. 1 dell'URSS erano le democrazie occidentali (Inghilterra, Francia e USA), che -a suo giudizio- volevano spingere la Germania e il Giappone contro l'URSS. Questa visione delle cose dipendeva probabilmente dal fatto che Stalin nutriva ancora un forte odio per l'Intesa, da lui considerata come responsabile principale dell'intervento contro la Russia rivoluzionaria. Paradossalmente, egli riusciva meno a dimenticare la presenza di piccoli distaccamenti americani ad Arkhangelsk e a Vladivostok, che non il fatto che la Germania avesse occupato l'Ucraina, la Bielorussia e i Paesi Baltici, mentre il Giappone aveva cercato d'invadere l'Estremoriente. (Questo paradosso si spiega evidentemente col fatto che l'Intesa aveva appoggiato la guerra civile).

Inoltre la logica imperiale doveva fare di Stalin l'erede della germanofilia tipica della dinastia Romanov, rafforzata, nel suo caso, sia dalla buona cooperazione dell'URSS con la Repubblica di Weimar, sia da una loro certa solidarietà nei confronti degli accordi di Versailles, sia infine dal ruolo giocato da Trotsky nella pace di Brest-Litovsk, che -come noto- era stato molto ostile al governo tedesco allora in carica. Infine Stalin ha sempre provato molta più ostilità verso gli "eretici", come i socialdemocratici o i democratici in genere, che non verso il fascismo.

Al XVIII congresso del partito, Stalin affermò che il "clamore sospetto" sollevato dalla stampa anglofrancese e nordamericana, secondo cui il Reich tedesco voleva annettersi l'Ucraina sovietica, unificandola con l'Ucraina carpatica, aveva come scopo d'invelenire i rapporti tra URSS e Germania, portandole alla guerra. Ciò che poi avvenne tre anni dopo. Stalin era convinto che il principale nemico dell'URSS fosse l'Inghilterra e per molto tempo non considerò gli americani come alleati potenziali contro l'aggressione nazista.

Egli si era formato un'immagine dell'America sotto l'influenza delle concezioni maturate negli anni '20 e '30. All'inizio degli anni '20 egli aveva capito che il centro dello sviluppo economico (produttivo, commerciale e finanziario) s'era definitivamente spostato dall'Europa occidentale agli Stati Uniti. Con quest'ultimi, infatti, egli intendeva far competere l'URSS. Al XVIII congresso del partito alcuni commissari del popolo chiesero addirittura di acquisire i metodi americani relativamente all'uso delle macchine utensili, per poterli superare nella produttività del lavoro.

A quel tempo la società sovietica, nel suo complesso, aveva un'immagine piuttosto positiva degli USA. Basti pensare al poema di Mayakovsky, Il ponte di Brooklyn, che esalta il genio dell'industria americana. Lo stesso Stalin, nel 1931, pur con le sue solite riserve ideologiche, si era sentito indotto ad ammettere l'importanza del dinamismo americano, la sana attitudine verso il lavoro, il senso dell'efficienza e della praticità, il clima democratico che si respirava nell'industria e nelle produzioni tecnologiche, in netto contrasto -egli rilevava- con lo spirito aristocratico-feudale che ancora regnava nei Paesi capitalistici della vecchia Europa.

Stalin considerava Roosevelt un politico coraggioso e determinato, un realista. Egli inoltre apprezzava il poeta Whitman e nelle sue conversazioni col repubblicano Harold Stassen, affermò, non senza invidia, che l'America era una nazione fortunata non solo perché protetta da due oceani e confinante con due Paesi deboli: il Canada e il Messico, che certo non potevano impensierirla, ma anche perché dopo la guerra d'Indipendenza essa aveva vissuto in pace per almeno 60 anni, potendo così svilupparsi rapidamente. Senza considerare che la popolazione americana da tempo s'era affrancata dal giogo dei re e dell'aristocrazia feudale.

Stalin fece anche notare a Stassen che Germania e Giappone non erano in grado di competere con gli USA, che i mercati europeo, cinese e nipponico erano aperti ai prodotti americani e che delle condizioni così favorevoli gli USA non le avevano mai avute. Si stupì molto però quando apprese da Stassen che l'export americano non superava il 15%.

Durante la II guerra mondiale gli USA e l'Inghilterra non solo si allearono con l'URSS, ma -contro ogni aspettativa- riconobbero in Stalin uno degli artefici dei destini del mondo post-bellico. Esse praticamente compresero che senza l'appoggio dell'URSS non avrebbero potuto vincere il nazifascismo. E così, dalla periferia della politica mondiale, Stalin si trovò improvvisamente al centro, insieme a Roosevelt e a Churchill, avendo come obiettivo non più quello della rivoluzione mondiale, ma quello della ripartizione delle sfere d'influenza.

Ad un certo punto egli prese a considerare gli USA come suo partner principale e formulò la proposta di ripartire il mondo sulla base del principio della "coesistenza pacifica" (o "non-confronto"). "Si potrebbero forse evitare delle catastrofi belliche se ci fosse la possibilità di distribuire periodicamente le materie prime e i mercati di sbocco fra i diversi Paesi, in rapporto al loro peso economico, attraverso la ricerca di soluzioni pacifiche concertate". Così disse il 9 febbraio 1946, in un meeting con i suoi "elettori" al distretto elettorale di Mosca.

In via di principio, Stalin non era contrario alla idea leniniana di favorire la cooperazione fra due sistemi economici opposti. Egli anzi riconosceva che il capitalismo mondiale era entrato in una fase di relativa stabilità, ovvero ch'esso si stava sviluppando più velocemente che nel passato. Ammetteva addirittura che il sistema americano si reggeva sul consenso popolare. Esortava a rinunciare alla guerra di propaganda, a non qualificare il sistema sovietico di "totalitarismo" o quello americano di "capitalismo monopolistico". Egli stesso si definiva, per piacere agli americani, un businessman.

Questo suo atteggiamento sortì l'effetto sperato solo su Roosevelt, che, pur in presenza della guerra fredda, disse al suo amico e biografo J. Daniels, nel 1949: "Stalin mi piace, assomiglia a Tom Pendergast" (un leader del partito democratico degli anni '20 nello Stato del Missouri: un tipo energico e carismatico, ma caduto in disgrazia a causa di uno scandalo e di un'accusa per corruzione). Roosevelt era convinto che Stalin fosse come "prigioniero del Politburo".

Al di là delle simpatie di Roosevelt, il piano di Stalin di spartire pacificamente il mondo, fallì del tutto: sia perché l'occidente interpretò il suo discorso del 9 febbraio come una dichiarazione di "guerra fredda"; sia perché lo stesso Stalin non fece nulla per incontrare l'occidente a metà strada. Egli infatti era convinto, ideologicamente, che il sistema capitalistico fosse prossimo a crollare e che i suoi momentanei miglioramenti non facessero che accelerare la venuta del giorno fatidico.

A tale proposito Stassen gli aveva fatto notare che nelle condizioni del capitalismo regolamentato, le crisi che portano alla morte erano praticamente impossibili. Al che Stalin rispose che ciò avrebbe implicato la necessità di un governo molto forte e risoluto, che avrebbe potuto essere, indifferentemente, democratico o repubblicano.

Dalle conversazioni fra Churchill e Stalin risulta chiaramente che quest'ultimo considerava il pluripartitismo un'aberrazione. Egli inoltre era convinto che il popolo stimasse solo una cosa: la forza, e che, per questa ragione, in Inghilterra esso avrebbe votato, durante le elezioni del '45, per i conservatori. Cosa che invece non avvenne, poiché proprio con quelle elezioni furono i laburisti ad acquistare una solida maggioranza.

Stalin s'era indignato nel vedere che gli USA non avevano apprezzato la sua iniziativa di ripartire pacificamente il mondo. Proprio in nome di essa, egli aveva rinunciato sia all'idea d'impiantare subito dei regimi comunisti in Europa orientale, sia a quella di appoggiare il partito comunista cinese. Il ripensamento ebbe luogo nel 1948, con la decisione di far scendere gli eserciti comunisti sulle strade della Cecoslovacchia, poi venne edificato il muro di Berlino e si ruppero le relazioni con Tito.

L'influenza postuma di Stalin sulla società sovietica dimostrò ancora di più la vitalità degli stereotipi ch'egli aveva imposto, quegli stereotipi che s'erano formati negli anni '20 e consolidati negli anni '48-'52. Dopo il '48 Stalin cominciò a propagandare l'idea che gli USA fossero governati da un misterioso club di ricchi e che le istituzioni della democrazia borghese non servissero a nulla. In queste condizioni gli USA avrebbero scatenato la III guerra mondiale, servendosi dello strumento dell'ONU, dove - a giudizio di Stalin - dominavano i 10 Paesi-membri del Patto Nord-Atlantico. Tutte le nazioni che appoggiavano gli USA erano considerate da Stalin "nemiche dell'URSS". In sostanza, i due "blocchi" dovevano restare separati.

Pur di far credere che gli USA erano in procinto di crollare, Stalin, nel 1952, dichiarò che dopo la fine della II guerra mondiale, due tesi avevano perso la loro forza: la sua propria, sulla relativa stabilità dei mercati nell'epoca della crisi generale dell'imperialismo; e quella di Lenin, secondo cui, nonostante tale crisi globale, il capitalismo si sviluppava in modo più rapido che nel passato.

Al XIX congresso del partito, Stalin riprese i vecchi slogan sulla rivoluzione mondiale e sul crollo definitivo degli USA in virtù di tale rivoluzione. Gli USA furono accusati di continua ingerenza negli affari dell'URSS. Tutti questi stereotipi non fecero che alimentare il bisogno di un "nemico".

Stalin arrivò addirittura a sperare che scoppiassero nuove guerre mondiali imperialiste, all'interno delle quali Inghilterra e Francia da un lato, Germania e Giappone dall'altro, formassero due blocchi antiamericani.

Egli criticava quei compagni che ritenevano più forti le contraddizioni tra socialismo e capitalismo, che non quelle interimperialistiche. E criticava anche quanti sostenevano che gli USA erano già in grado d'impedire che gli altri Paesi capitalisti si combattessero tra di loro, indebolendosi a vicenda. A suo parere, la tesi sull'inevitabilità delle guerre tra Paesi capitalisti restava in vigore. Egli non considerava affatto la guerra il peggiore dei mali possibili. Anzi, deplorava che il movimento contemporaneo per la pace non avesse avuto alcuna intenzione di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, come durante la I guerra mondiale. Anche se non per questo egli escludeva che la lotta per la pace potesse trasformarsi, poste talune circostanze, in lotta per il socialismo.

Questo modo di vedere le cose non è morto con la morte di Stalin, ma è proseguito -seppure in forme ideologicamente più sfumate- con l'intervento armato in Ungheria nel 1956, durante la crisi caraibica del 1962, con la forme paranoiche di ostilità nei confronti della Cina, con l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e, per finire, durante la guerra d'Afghanistan. La nuova mentalità politica è nata solo nell'aprile 1985, con l'entrata in scena dell'umanesimo globale di Gorbaciov.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015

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