MARX E WEBER SULL’EVOLUZIONE
DELLE FORME ECONOMICHE E SOCIALI


Marx

Weber

La difesa del capitalismo e dei valori della civiltà borghese

parte terza

Prima di soffermarci sulla visione del capitalismo espressa da Max Weber, vorremmo sottolineare un dato peculiare di tutto il suo pensiero: il fatto cioè che, a differenza di Marx, egli non cerchi di fare previsioni in senso stretto sul futuro della società. Il suo lavoro è incentrato infatti sulla ricerca di costanti storiche, dette "tipi ideali" (o idealtipi), che - seppure chiaramente in modi sempre differenti - si ripropongono in una vasta gamma di situazioni.

Egli elabora quindi, attraverso le proprie analisi, una serie di concetti astratti (di natura non solo sociologica, ma anche istituzionale, politica, economica, ecc.) che rendano possibile rilevare le somiglianze e le diversità tra i differenti periodi e le differenti aree dello sviluppo umano. Concetti che tuttavia non aspirano (come invece le forme economiche di Marx) a costituire una vera e propria "ossatura" del divenire storico, ovvero a riflettere una necessaria progressione di momenti o fasi evolutive, ma a divenire strumenti di orientamento per la comprensione della storia nella sua totalità (seppure, come già si è visto, con particolare riferimento a quella europea e occidentale).

Gli idealtipi weberiani insomma nulla vogliono togliere alla contingenza, all’irriducibile complessità e all’imprevedibilità di ogni contesto storico-sociale, visto perciò in un’ottica non deterministica ma al contrario altamente probabilistica.

Coerentemente con questi presupposti, Weber rifiuta di fare previsioni 'forti' per quanto riguarda il futuro delle moderne società capitalistiche, limitandosi a individuare in esse delle tendenze di sviluppo la cui progressione non è affatto scontata, dipendendo peraltro anche dal 'fattore umano', ovvero dalla condotta che i membri della società sceglieranno di seguire.

In questo senso, allora, le critiche che egli rivolge all’Europa del suo tempo (e in particolare al suo paese, la Germania, all’interno della cui vita politica svolse anche un ruolo attivo), hanno il sapore di un monito finalizzato a scongiurare trasformazioni solo possibili, che a suo giudizio tradirebbero lo spirito originario di quella classe, la classe borghese, nei cui valori e nelle cui condotte, anche di carattere economico, egli si identificava.

A questo proposito, si deve ricordare come Weber distinguesse nel suo lavoro una parte a-valutativa (ovvero di ricerca pura, come tale prescindente da qualsiasi giudizio di valore) da una valutativa o valoriale (legata al giudizio che lo studioso, in quanto individuo storicamente determinato e partecipe di solito dei valori della propria classe di appartenenza, tende a formulare sui fenomeni presi in esame).

La critica o disamina che analizzeremo qui avanti, pur servendosi dei risultati di un’analisi del capitalismo che aspira ad essere obiettiva (e che abbiamo sommariamente descritto nel precedente capitolo), dovrà essere quindi inquadrata in questo secondo aspetto del suo pensiero.

Per quanto riguarda il discorso valoriale, è essenziale, per comprendere le posizioni di Weber in merito al capitalismo, ricordare una volta di più come egli si identificasse con i valori della società e della classe borghese: valori basati sulle idee di libera impresa privata e di responsabilità personale, e prodotto a suo avviso di un plurisecolare processo di razionalizzazione o demagizzazione del mondo. Egli credeva infatti nella capacità di tali valori di migliorare la vita umana, sia sul piano morale che su quello materiale.

E tuttavia, lungi dall’accettare in modo acritico e incondizionato la società capitalistica, Weber era anche consapevole dei suoi limiti intrinseci, oltre che delle sue possibili degenerazioni.

Quanto ai limiti intrinseci della modernità, abbiamo visto come essa coincida per Weber con lo sviluppo della razionalità ad ogni livello della vita sociale: cioè tanto conoscitivo (visione razionale del mondo) quanto pratico (pianificazione e calcolo come base dell’agire umano). Ma quella razionalità, o mentalità raziocinante, che caratterizza in modo tanto peculiare le moderne società europee (nonché, seppure in gradi diversi, quelle extra-europee) racchiude al proprio interno aspetti non solo positivi, ma anche negativi.

In riferimento a questi, Weber parla di essa come di una "gabbia d’acciaio" che finisce per inibire alcuni aspetti naturali e insopprimibili dell’esistenza umana. Il processo di razionalizzazione che ha avuto luogo in Occidente infatti, non ha portato solo alla liberazione degli individui da superstizioni e da antichi vincoli sociali (di casta), ma anche ad una graduale e progressiva rimozione degli aspetti magici, ovvero irrazionali e assoluti, della vita umana. (Osserva Weber a un tale proposito, in un celebre passo de "L’etica protestante e lo spirito del capitalismo", come la vita dell’imprenditore capitalista, e più in generale del moderno cittadino europeo, sia irrimediabilmente segnata dal gelido peso del calcolo economico).

Proprio per tale ragione la modernità ha finito col tempo per divenire sempre di più un’opprimente prigione per quegli stessi individui che usufruiscono dei suoi progressi (né è azzardato osservare, riguardo a questi concetti, la loro affinità sia con l’idea marxiana di alienazione che con quella freudiana di repressione).

Tra le altre cose, Weber sottolinea a questo proposito come la crescente complessità del lavoro e della conoscenza portino a una sempre maggiore parcellizzazione delle mansioni sociali e a una latente estraneità delle diverse sfere (nonché degli stessi individui) da cui la società è composta. Un processo questo, che non può non mandare in crisi il senso profondo della società stessa, intesa come complesso di soggetti tenuti insieme da tradizioni e da valori condivisi, da cui sono guidati collettivamente. Riguardo poi alla giustezza di tale bilancio, esso trova senza dubbio conferma negli eventi che pochi anni dopo la morte di Weber ebbero luogo in Europa, con l’instaurazione della dittatura hitleriana in Germania e di vari regimi fascisti in altri Stati europei (Italia, Spagna), segno di una crisi di valori senza precedenti della cultura e della società europee.

Quanto agli aspetti peculiarmente socio-economici delle società moderne (capitalistiche, o comunque già fondate su una produzione di carattere industriale), Weber individua alcune tendenze evolutive ad esse intrinseche, che portano allo sviluppo di sempre più vasti organismi sia economici sia politico-istituzionali, caratterizzati da apparati burocratici sempre più sviluppati.

La principale causa di questa trasformazione risiede, secondo Weber, nella crescita della complessità delle società moderne in tutti i loro aspetti, la quale determina una sempre maggiore esigenza di organizzazione e integrazione tanto tra i vari sistemi istituzionali e politici quanto tra quelli produttivi e finanziari, spesso peraltro associati tra loro ai fini di un reciproco vantaggio (alleanza tra Stato e grande industria). La razionalizzazione incalzante della società nei suoi vari aspetti, porterebbe quindi sui tempi lunghi allo sviluppo di grandi poteri - sia politici, sia economici - capaci per propria natura di limitare la libertà individuale dei propri membri.

Il paradosso di ciò risiede nel fatto che lo sviluppo razionalistico europeo, se fino a un certo ha favorito l’emergere della libera iniziativa privata, da un altro passa invece a favorire la nascita e il consolidamento di poteri sempre più vasti, organizzati piramidalmente e burocraticamente, e in grado di limitare per molti aspetti la libertà di scelta dei cittadini.

Da elemento di libertà dunque, l’attitudine alla razionalità finisce col tempo per divenire causa, da una parte, di un sempre maggior accentramento della proprietà e dei poteri politici, dall’altra, e specularmente, di una sempre maggior limitazione dell’iniziativa personale.

Anche Weber poi – come Marx – attribuisce gran parte della tendenza del capitalismo avanzato alla formazione di poteri monopolistici o oligopolistici, al meccanismo della concorrenza di mercato che porta alla progressiva elisione della piccola e media imprenditoria a favore dei grandi poteri industriali e finanziari.

Se fino a qui possiamo riscontrare - nonostante la diversità di punti di osservazione - una certa somiglianza tra i bilanci di questi due pensatori, più evidente si fa la loro diversità laddove si esaminino: a) l’idea di socialismo – cioè di un sistema economico alternativo a quello capitalistico – da essi proposta; b) il loro diverso modo di porsi rispetto al problema della concentrazione della proprietà privata dei mezzi produttivi (un fenomeno che, pure, è da entrambi giudicato negativamente).

Riguardo al socialismo, Marx vede in esso il necessario compimento della storia umana nelle sue varie fasi evolutive, nonché la fase ultimativa e "perfetta" di essa: quella con cui cioè – per usare una sua espressione – "si chiude la preistoria della storia umana".

Contro una tale visione, decisamente utopistica (anche se basata, secondo il suo autore, su principi rigorosamente scientifici), Weber oppone un’idea più realistica di socialismo. Per lui infatti esso è, anche e soprattutto in un contesto come quello moderno caratterizzato più o meno ovunque da una larga diffusione della produzione industriale e della mentalità razionalistica e pianificatrice, una forma alquanto praticabile di organizzazione economica e sociale.

Il socialismo è da lui visto quindi (in linea, peraltro, con quella che sarebbe stata la realtà degli Stati socialisti sorti nei primi decenni del XX secolo) come un’economia pianificata e fortemente burocratizzata, ovvero controllata centralmente dai poteri dirigistici dello Stato, all’interno della quale sarebbero banditi (almeno tendenzialmente) fenomeni come la concorrenza di mercato e l’iniziativa privata. Come tale, una simile organizzazione socio-economica non può essere da lui approvata, in quanto negatrice di quei valori in cui – seppure, come si è visto, con le debite riserve – egli vede la principale possibilità di miglioramento delle condizioni d’esistenza dell’umanità.

Né d’altronde era sfuggito a Weber come gli Stati nei quali una tale soluzione (burocratica e socialista) era maggiormente praticabile e quindi probabile, fossero quelli (come, ad esempio, la Cina e la Russia) nei quali non si era mai sviluppata una radicata cultura imprenditoriale privata, e in cui di conseguenza i poteri dirigistici dello Stato erano rimasti maggiormente saldi nel corso dei secoli.

Certo, come si è già mostrato, egli vedeva presenti i semi di una deriva verticistica e illiberale anche negli Stati europei, ma pensava anche che questi ultimi – in virtù delle loro peculiari tradizioni, sia economiche che culturali – contenessero nel proprio seno molti più 'anticorpi' contro di essa, rispetto ad altre aree del mondo, portatrici di una lunga storia di dispotismo e di sottosviluppo.

Per Weber dunque la sfida tra socialismo e capitalismo (le due istanze politiche ed economiche emergenti nei suoi anni) era affiancata in un certo senso da un’altra sfida, che si combatteva all’interno del capitalismo e della stessa società borghese: la sfida cioè tra un’economia e una società genuinamente liberali e un’economia e una società con forti tendenze burocratiche e monopolistiche.

Anche Marx aveva peraltro denunciato una tale trasformazione in corso, ma descrivendola come un processo inevitabile e irreversibile (seppure, come si è visto, per molti aspetti solo tendenziale). Differentemente da questi invece, Weber – con la sua fede nella libertà umana e nella vicendevole influenza tra le diverse sfere della società – vi aveva individuato una possibile soluzione nella sopravvivenza di una mentalità genuinamente liberale e imprenditoriale, oltre che in una serie (per la verità abbastanza imprecisata) di misure istituzionali volte ad impedire un eccessivo assembramento di ricchezze, ovvero la formazione di poteri economici capaci di schiacciare o condizionare pesantemente la concorrenza di mercato – il che significa, in sostanza, in quell’istituzione di vigilanza economica oggi chiamata "antitrust".

Senza per questo volersi esprimere a favore di una delle due visioni prese in esame, bisogna comunque rilevare come la teoria weberiana, almeno fino ad oggi, abbia saputo ispirare, molto più dell’altra, valide politiche di riforma sociale. Se poi ciò sia dovuto al fatto che la crisi irreversibile del capitalismo di cui parlava Marx sia in realtà solo una chimera, o al fatto che la visione weberiana del capitalismo e della storia dia adito a politiche più adatte a intervenire sull’attuale situazione mondiale, questo è un problema del tutto diverso…

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Adriano Torricelli - Homolaicus - Contatto - Sezione Economia

Cfr anche di Adriano Torricelli, Il modo di produzione asiatico: una categoria economica; Società di consumo, società di mercato; La Grecia tra oriente e occidente


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Aggiornamento: 12/09/2014