STUDI LAICI SUL CRISTIANESIMO PRIMITIVO
Dal Gesù storico al Cristo della fede


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FILOSOFIA PAGANA E TEOLOGIA CRISTIANA

S. Agostino, di Benozzo Gozzoli
S. Agostino, di Benozzo Gozzoli

La teologia cristiana ha spostato l'attenzione dalla natura delle cose alla natura di dio, ha cioè trasformato l'essere metafisico della filosofia idealistica (platoniana soprattutto) in un dio triadico, personale.

Tuttavia essa ha dato agli uomini una speranza che la filosofia greca non seppe dare. Come noto, infatti, tutta la filosofia greco-romana ed ellenistica era rimasta un'esperienza aristocratica, individualistica, sprezzante della condizione degli schiavi (a parte rarissime eccezioni). La teologia invece, forte di una complessa organizzazione socio-ecclesiastica (di derivazione ebraica), seppe dare alla vita degli oppressi un significato più liberatorio, benché sempre nei limiti idealistici della filosofia ellenistica (limiti in cui si è consumato il tradimento, più o meno immediato, dell'autentico messaggio del Cristo).

Questo almeno in un primo momento. Il secondo tradimento della teologia si è infatti verificato nel momento stesso in cui la chiesa ha accettato d'essere considerata come l'unica ideologia possibile. Questo tradimento fu strettamente connesso all'altro: l'aver trasferito nell'aldilà la liberazione dalla schiavitù.

L'aver trasformato la divinità da un ente più o meno astratto a una natura unica in tre persone, strettamente legate alla storia dell'uomo, non è stato il grande contributo del cristianesimo, ma la più grande illusione con cui esso ha potuto superare, sul piano dei contenuti di vita, la filosofia greca, che aveva risposto al tema dell'alienazione delle masse proponendo un dio astratto e metafisico.

A questa grande illusione del cristianesimo solo il socialismo scientifico è stato in grado di costituire un'autentica alternativa. Fino adesso, in verità, l'alternativa del marxismo s'è espressa più in forma teoretica che pratica, in quanto il socialismo amministrato ha fatto bancarotta, ma non si può certo dire che la realizzazione pratica del capitalismo abbia veramente costituito un'alternativa alla religione.

Il capitalismo non solo si serve di tutte le religioni per sopravvivere, ma ne crea anche di nuove, in forma laicizzata e secolarizzata. Non sono forse delle "religioni" o non vengono forse usate come tali la droga, lo sport, la moda, i films, le auto, il profitto, il potere, il sesso ecc.?

La religione cristiana ha avuto la pretesa di poter risolvere quei problemi lasciati insoluti dalla filosofia greca (e dalla società greco-romana), ma ha fallito il suo obiettivo. Non solo perché ha fatto regredire l'umanità sul piano tecnico-scientifico, ma anche perché ha sostanzialmente ingannato le masse, promettendo paradisi per l'aldilà e chiedendo rassegnazione per l'aldiqua.

FEDE E RAGIONE

Agostino di Ippona, di Maestro Teodorico di Praga, sec. XIV, Galleria Nazionale di Praga
Agostino di Ippona, di Maestro Teodorico di Praga, sec. XIV, Galleria Nazionale di Praga

La chiesa cristiana è stata responsabile dell'interpretazione unilaterale, in senso religioso, del concetto di fede. La fede religiosa - come noto - ha un vizio di fondo, quello di portare a credere che l'oggettività delle cose non stia nelle cose in sé ma in un'entità astratta. Questa fede è sempre un fideismo.

Ciò ovviamente non significa che il fideismo non sia possibile anche nel materialismo storico. In fondo, là dove esiste autoritarismo e dogmatismo, lì esiste pure cieca obbedienza, fanatismo (anche se, in questo caso, il materialismo è già divenuto metafisico o meccanicistico).

Tuttavia, il fideismo del materialismo volgare, deformato, consiste in un'applicazione sbagliata della teoria o in un'interpretazione errata di una teoria sostanzialmente giusta.

Viceversa, il fideismo della religione è sin dall'inizio un'errata posizione pratica e teoretica. Questo anche se le sue conseguenze sugli uomini possono essere meno gravi di quelle che può procurare un'altra forma di fideismo.

Di fatto, chiunque attribuisce al demonio le cause del malessere sociale o aspetta da dio la soluzione dei suoi problemi, non può accettare neanche per ipotesi ch'esista nelle cose un'oggettività da scoprire.

In tal senso, la fede deve riacquistare una propria dignità etica, superiore a quella quella religiosa. In fondo è facile aver fede in dio onnipotente e protettore o nella divina provvidenza. Si tratta soltanto di non lasciarsi scandalizzare troppo dal male del mondo, cioè di assumere nei confronti di questo male un atteggiamento distaccato, ai limiti del cinismo.

Molto più difficile è aver fede negli uomini così come sono, "santi e peccatori", soprattutto in quegli uomini che, pur essendo condizionati dalle contraddizioni sociali, credono ugualmente di poterle risolvere.

"Aver fede" che le cose possano cambiare è un segno di maturità. La ragione può aiutarci a capire in che modo, ma senza la fede, spesso le motivazioni della ragione (ai fini della mobilitazione pratica) non sono mai sufficienti. La verità oggettiva, finché non coinvolge il soggetto, è come una statua da contemplare.

IL DIO GRECO ED EBRAICO

Creazione di Adamo, part., Michelangelo Buonarroti, Cappella Sistina in Vaticano
Creazione di Adamo, part., Michelangelo Buonarroti, Cappella Sistina in Vaticano

Qualunque raffigurazione di dio si possa fare, essa è sempre a immagine dell'uomo, poiché l'uomo -in quanto parte della natura- è la vera realtà oggettiva, mentre tutto il resto è pura astrazione, fantasia più o meno repressa, più o meno sublimata.

Se un "dio" esiste, esso non è alla portata dell'uomo, almeno finché l'uomo, per credervi, è costretto ad elaborare sofisticate filosofie religiose e teologie. "Dio" era una maggiore evidenza quando l'uomo era primitivo, cioè quando l'uomo vi credeva spontaneamente. Nel momento stesso in cui l'uomo ha cominciato a riflettere su stesso, e soprattutto sull'alienazione che viveva, ecco che "dio" ha perso ogni evidenza, e gli uomini si sono sentiti indotti a cercarla in maniera speculativa, nell'ambito del pensiero, imponendo l'esito della ricerca alle masse oppresse e incolte. Non è singolare che l'uso strumentale della divinità (che è quanto di meno religioso si possa pensare) è iniziato proprio nel momento in cui l'uomo ha smesso di credere spontaneamente nella divinità?

Probabilmente deve essere esistito un periodo storico in cui gli uomini non avevano alcuna vera concezione della divinità, in quanto si rapportavano direttamente alla natura e non conoscevano tra loro conflitti di classe. Poi la nascita dei conflitti di classe ha fatto emergere la necessità di un "dio protettore". Col tempo questo "dio" ha assunto sempre nuove fisionomie, adeguandosi alle condizioni sociali degli uomini. Il suo bisogno è relativo al bisogno che hanno non gli uomini in generale, ma quelli che sottostanno ai rapporti di classe, di sentirsi in qualche modo protetti; questo almeno fino a quando gli oppressi non si convinceranno che esiste un'alternativa realmente praticabile all'antagonismo di cui sono vittime.

In fondo, quando i greci s'immaginavano un dio immobile, freddo, lontano dalle vicende degli uomini, avevano una concezione religiosa più realistica, più spontanea e immediata. Si rendevano conto che nessun dio ha rapporti con gli uomini. Il loro difetto è che spesso si servivano di questa cruda immagine per giustificare l'oppressione della loro società. Essi infatti attribuivano al fato (cui persino gli dèi erano sottoposti), e cioè a una sorta di superdivinità, la causa delle contraddizioni sociali del loro tempo.

In tal senso, il dio ebraico era più interessante. Un dio che si lascia "coinvolgere" con la storia degli uomini, soffrendo con loro, è un dio che merita d'essere adorato. Ma una concezione religiosa di questo genere presuppone necessariamente l'unità del popolo e un certo senso del progresso, cioè una fiducia nel futuro. Il dio freddo e distaccato dei greci presupponeva invece l'individualismo e il fatalismo. D'altra parte se una popolazione come quella greca avesse risolto il problema della schiavitù non avrebbe avuto una concezione così amara della divinità (nel migliore dei casi, poiché nel peggiore la concezione era frivola): non avrebbe avuto alcuna concezione.

Un dio freddo e distaccato forse può non sembrare così spontaneo come sembra, poiché nelle tribù primitive, meno intellettuali dei greci e meno interessate alla scienza, la concezione religiosa della divinità era più "calda" (vedi ad es. le superstizioni, la magia, il feticismo, l'animismo ecc.).

E tuttavia, il fatto di percepire la divinità come lontana dai processi storici, costituisce un progresso rispetto alle superstizioni del mondo primitivo; un progresso che, se vogliamo, avvicina la civiltà greca a quella fase dell'epoca primitiva in cui ancora non si credeva in alcuna divinità. La filosofia greca, in tal senso, può essere considerata come una giustificazione teorica di quell'ateismo spontaneo dell'uomo primitivo.

La differenza dove sta? Nel fatto che mentre l'uomo primitivo spontaneamente religioso non avvertiva la propria religiosità come un peso di cui liberarsi, il filosofo greco invece doveva fare non poche dimostrazioni teoretiche per dimostrare, a se stesso, che dio non esisteva e, al potere costituito, che forse da qualche parte esisteva. L'ateismo rigoroso è sempre stato perseguitato nella Grecia di Platone e di Aristotele.

Che poi questa concezione "fredda" della divinità sia scaturita da un contesto sociale individualistico e fortemente diviso in classi, ciò è un altro discorso. La storia ha voluto che fossero gli ebrei e non i greci a sperimentare l'unità del popolo.

Peraltro la stessa cosa successe nel Rinascimento italiano, allorché i nostri intellettuali, divisi tra loro e nei confronti delle masse popolari, non riuscirono a realizzare, pur essendo i più progressisti d'Europa, né la Riforma protestante né l'unificazione nazionale.

GRECI ED EBREI NEL MONDO CLASSICO


Omero

Il politeismo del mondo greco classico non era racchiuso in nessun libro ed era essenzialmente di tipo mitologico, con due tipologie di personaggi cui le città avevano riservato forme di culto: gli eroi e le divinità.

A eccezione di poche sette marginali (p. es. l'orfismo) non esisteva in quel mondo un equivalente alla “sacra scrittura” ebraica, che esponesse in forma definita e assoluta le verità della fede (per quanto lo stesso Antico Testamento sia stato oggetto di molteplici manipolazioni, a seconda delle esigenze dei potenti di turno: basti pensare a quella di Esdra).

Non c'era comunque spazio per il dogmatismo nel mondo greco. Le credenze veicolate dai miti non avevano un carattere di obbligatorietà, non costituendo un corpo dottrinario che doveva offrire certezze indiscutibili sul piano intellettuale.

D'altra parte, se si escludono alcuni precetti fondamentali e i famosi Dieci comandamenti (ch'erano peraltro delle regole di comportamento pratico, ancora oggi in vigore peraltro, quelli laici, in tutte le legislazioni del mondo), anche l'ebraismo su molti aspetti religiosi ha conservato opzioni interpretative molto diverse (in riferimento p. es. alla vita ultraterrena, all'immortalità dell'anima, alla resurrezione dei corpi ecc.).

A ben guardare son pochissime le cose che distinguono a tutt'oggi un ebreo da un non ebreo: la circoncisione, il sabato, il monoteismo assoluto, l'irrappresentabilità di dio, le regole dietetiche... Poi ci sono le feste e i culti che indicano se uno è solo “credente” o anche “praticante”.

È dunque vero, il mondo greco classico non ha mai avuto neppure un dogma, ma nessuno, se non gli induisti, oggi crede nel politeismo, mentre gli ebrei credono nelle stesse cose di quattromila anni fa e non possiamo certo dire che gli ebrei abbiano dato alla storia dell'umanità meno cultura dei greci.

Ancora oggi gli ebrei possono sentirsi tali in qualunque parte del mondo sulla base di pochissime regole da rispettare. Una cosa del genere sarebbe stata impensabile per un greco, proprio perché il greco aveva molto sviluppato il senso dell'individuo, della sua libertà personale, della sua solida identificazione a una stirpe e a una città.

L'ebreo invece aveva il senso del collettivo, ed è noto che un qualunque collettivo, per sopravvivere, deve darsi delle regole sufficientemente rigorose, specie se attorno a sé è circondato da popolazioni che la pensano diversamente.

L'eroe greco aveva più che altro il compito di infrangere delle regole che altri (i popoli nemici, gli dèi e lo stesso fato) gli volevano imporre. L'eroe greco viene sempre presentato come uno che non vuol sottostare a delle regole che nella narrazione del mito vengono considerate negative. Il che non significa che lo fossero davvero.

A noi son giunti dei miti che avevano lo scopo di mostrare la necessità del passaggio dal comunismo primordiale (clanico-tribale) allo schiavismo. È evidente quindi che quando si descrive Ulisse intento a raggirare e a ferire il pastore e agricoltore Polifemo, il lettore doveva essere messo in grado di credere che ne avesse tutte le ragioni, proprio perché era lui, Ulisse, che doveva rappresentare la necessità della transizione. Polifemo invece doveva essere raffigurato come un essere mostruoso, che indicasse il passato da abbandonare senza rimpianti.

Non a caso Polifemo rappresenta l'ateismo, che, proprio perché tale, è qualcosa di disumano, mentre Ulisse può dimostrare il proprio culto degli dèi, fatto passare per «tradizionale» e «civile». E così il lettore dell'Odissea non riesce a comprendere che l'assenza di qualunque dio, nella vita di Polifemo, era un segno di spirito collettivistico, mentre il bisogno di avere tanti dèi era segno di affermazione individualistica e antagonistica dei rapporti sociali.

Se si guarda invece l'epopea abramitica e mosaica il processo è del tutto rovesciato: questi due eroi devono far uscire il loro popolo da una condizione di schiavitù per cercare di recuperare qualcosa del paradiso primordiale. E quando si danno delle regole e delle leggi devono per forza essere tassativi, proprio perché lo schiavismo, nell'area mesopotamica, mediterranea e nord-africana, era diventato imperante.

L'eroe greco doveva dimostrare che lo schiavismo (basato sui commerci, l'astuzia, la forza militare, l'inganno, la religione, le istituzioni di potere, la soggezione del debole, della donna, della natura, la cultura scritta ecc.) era assolutamente superiore alla civiltà agricolo-pastorale in cui il concetto di proprietà privata neppure esisteva.

E lo dimostrava non attraverso dei legislatori come Mosè, ch'erano anche leader politici, o dei capi-tribù come Abramo, ma attraverso degli intellettuali che, col passar del tempo, elaborarono un'infinità di canti epici, poesie liriche e corali, inni, opere tragiche e comiche... Sono questi poeti, al servizio dei potenti, che costruiscono la mitologia, che è sempre una giustificazione romanzata, edulcorata, mistificata di scelte arbitrarie, compiute da quegli stessi potenti che li hanno nel libro-paga.

Certo, esiste anche una mitologia che si oppone ai potenti (p.es. Prometeo), ma essa non è mai in grado di porre le basi per uscire dallo schiavismo; anzi con Dioniso ci si oppone alla dittatura degli schiavisti rinunciando a qualunque forma di regola, facendo del sesso e delle bevande inebrianti la fonte di tutte le trasgressioni.

Nel mondo ebraico invece si ha bisogno di un legislatore che dia al popolo il senso dell'unità e della diversità (rispetto alle civiltà schiavistiche limitrofe). Qualunque scimmiottamento di queste civiltà, qualunque tentativo di imitazione è destinato a finire male. Quando si afferma la monarchia di Saul, Davide e Salomone, quando si accettano i condizionamenti di tipo «ellenistico», i risultati sono sempre catastrofici: la nazione si divide, s'indebolisce di fronte al nemico, viene invasa e deve soffrire la schiavitù, l'esilio e umiliazioni d'ogni sorta.

Gli ebrei non riuscirono mai a tornare al comunismo primitivo, ma il fatto che non siano mai diventati una grande potenza, dimostra la presenza di uno straordinario scrupolo all'interno di questa civiltà.

Il messaggio di Gesù Cristo, poi storpiato dalla predicazione petro-paolina, voleva proprio innestarsi in quella esigenza plurisecolare che gli ebrei avevano avuto di voler recuperare lo stato edenico perduto, a causa del peccato dell'arbitrio individuale contro le regole non scritte del collettivo primordiale.

Ammazzando il messia, gli ebrei han perso una grande occasione e forse avrebbero potuto risparmiarsi, a loro e a noi, la mistificazione cristiana. Tuttavia l'esigenza di un ritorno all'innocenza primordiale resta, nonostante tutte le loro debolezze.

FILOSOFIA E RELIGIONE NEL I SEC. D.C.

S. Ambrogio dottore della Chiesa, di L. Signorelli, Sagrestia di S. Giovanni, Loreto
S. Ambrogio dottore della Chiesa, di L. Signorelli, Sagrestia di S. Giovanni, Loreto

Quando, nel I sec. d.C., la filosofia si trasforma in una religione, si ritorna, in un certo senso, alle origini orfiche, pre-filosofiche, ma senza l'ingenuità di allora. La nuova religione vuole porsi come superamento di una filosofia astratta, aristocratica, isolata. Ma ciò che essa propone non è meno astratto, anche se, nell'immediato, appare come un credo «popolare», con tanto di riti, dogmi e sacramenti: una vera consolazione sociale per l'aldilà.

Engels direbbe che, dati i tempi, cioè le condizioni storico-oggettive, questo era inevitabile. In realtà, invece di parlare d'inevitabilità bisognerebbe attribuire quei limiti a delle cause soggettive, cioè allo scarso livello di consapevolezza politica dell'alternativa.

Gli uomini (e questo è possibile anche oggi e lo sarà anche domani) non avevano sufficiente fiducia nelle loro capacità di trasformare le cose. Forse perché pensavano che le cose potessero trasformarsi da sole, o con l'aiuto di qualche leader carismatico.

Questa sfiducia è certo il prodotto soggettivo di un limite oggettivo, ma non si può sostenere che il limite oggettivo di allora fosse molto più grande di quello odierno. Questo è un modo di vedere le cose positivistico.

Bisognerebbe invece dire che i limiti oggettivi sono in relazione all'ambiente in cui gli uomini vivono. Non si può infatti sostenere che nei secoli passati la liberazione sociale non fosse possibile perché non ne esistevano ancora i presupposti materiali. Non si può condannare il passato in nome del presente, altrimenti si finisce col rimandare a un futuro imprecisato quella liberazione che nel presente non si è stati capaci di realizzare.

Le condizioni dunque c'erano: solo che gli uomini non le hanno sapute sfruttare. La liberazione era possibile in relazione al livello di consapevolezza raggiunto. La rinuncia (più o meno volontaria) a questa liberazione non ha affatto aumentato, storicamente, la consapevolezza della sua necessità, poiché tale consapevolezza resta sempre un frutto della libertà. Ai fini della liberazione gli uomini di oggi non sono più avvantaggiati di quelli di duemila anni fa, solo perché ci sono duemila anni di storia che li separano. La differenza fra gli uomini di oggi e quelli di allora sta unicamente in questo: la liberazione oggi riguarda il mondo intero.

ORFISMO E CRISTIANESIMO

Formazione dell'Antico Testamento - ZOOM
Formazione dell'Antico Testamento

Nel cristianesimo c'è molto più orfismo di quanto non si creda: non a caso questa mitologia mistico-religiosa, nel corso del sec. VII a. C., si sviluppò soprattutto tra i meteci (stranieri) e gli schiavi e fu accolta da molti filosofi greci, tra cui Anassimandro, Pitagora, Empedocle, Platone ecc.

Essa, da un lato, con il concetto di «peccato originale» giustificava lo stato di soggezione dello schiavo; dall'altro, con il concetto di «divinità dell'anima» infondeva nella coscienza dello schiavo una speranza per l'aldilà. Se lo schiavo non poteva essere un protagonista attivo nella vita della società, non essendo considerato un cittadino e a volte neppure una persona umana, poteva però riscattarsi dopo la morte, purificando se stesso con i sacrifici e la volontà personale su questa terra.

La differenza fondamentale tra orfismo e cristianesimo stava nell'idea di sacrificio, che per il primo coincideva con la metempsicosi, mentre per il secondo con la crocifissione del Cristo. L'orfismo è una religione orientale, individualistica e rassegnata; il cristianesimo è una religione sorta in ambito ebraico, animata dal senso del collettivo e dall'ottimismo escatologico.

La croce di Cristo non abolisce i sacrifici che gli uomini devono compiere per purificarsi, ma pone il modello oggettivo cui gli uomini devono ispirarsi se vogliono veramente salvarsi, cioè se vogliono essere sicuri che i loro sacrifici non siano vani. Il cristianesimo infatti parla proprio di «salvezza» e non solo di «purificazione» (come invece faceva ad es. il Battista, influenzato, in questo, dall'orfismo presente negli ambienti essenici).

Ritenuto quello del Cristo il sacrificio più grande (in quanto il «figlio di dio» ha accettato di morire per i peccati degli uomini), ogni altro sacrificio - dice il cristianesimo - deve trovare nella croce la propria giustificazione. Il cristiano non ha bisogno di aspettare mille reincarnazioni prima di essere sicuro della propria purificazione. Ha soltanto bisogno di credere che il sacrificio di Cristo lo ha definitivamente liberato dal peso del peccato d'origine.

Paolo infatti dirà che «il giusto vive di fede», cioè per lui sarà anzitutto la fede nella grazia salvifica del dio-padre, mediata dal dio-figlio, che lo riscatterà dal peccato d'origine. I sacrifici personali, o rientrano in questa modalità religiosa di vivere la fede, oppure sono inutili. La reincarnazione non offre sicure garanzie.

Il tradimento del cristianesimo sta però proprio in questo, nell'aver trasformato la crocifissione in uno strumento di espiazione universale dei peccati dell'intera umanità (passata, presente e futura). Per il cristiano la croce non è stata la scelta etico-politica contingente di un rivoluzionario che aveva accettato di sacrificarsi per risparmiare al suo movimento politico tragiche conseguenze, ma è diventata la scelta necessaria del «figlio di dio» di sacrificarsi per impedire che la colpa d'origine pesasse sull'uomo come un'eterna maledizione. Il Cristo sulla croce avrebbe dimostrato che la decisione di dio di perdonare gli uomini era irrevocabile.

L'ottimismo del cristianesimo non è quindi rivolto al presente ma solo al futuro, cioè al momento in cui con la parusia del Cristo renderà evidente a tutto il genere umano il valore di questo sacrificio religioso.

In questo senso la differenza tra cattolici e ortodossi è minima. Per i primi il Cristo «doveva» morire per adempiere alla volontà del padre, nel senso cioè che la colpa d'origine poteva essere riscattata solo con un sacrificio cruento (la chiesa cattolica è nata come chiesa giuridica, prima di diventare chiesa politica). Oggetto del sacrificio non poteva essere che il dio-figlio, poiché nessun sacrificio umano avrebbe potuto placare l'ira del dio-padre. D'altra parte proprio tale sacrificio offre agli uomini la sicurezza del perdono (e questo concetto – come si sa – porterà i cattolici a giustificare l'uso arbitrario della libertà politica, e i protestanti a giustificare l'uso arbitrario della libertà economica).

Per gli ortodossi invece l'incarnazione del dio-figlio sarebbe avvenuta anche senza peccato d'origine, mentre il sacrificio del Cristo, pur in presenza delle conseguenze del peccato d'origine, non è avvenuto senza il libero consenso del dio-figlio (questa è in nuce la differenza tra il vangelo manipolato di Giovanni e i Sinottici). Né si deve pensare che il Cristo non avrebbe potuto riscattare le colpe degli uomini senza morire sulla croce. Gli ortodossi cioè avvolgono nel mistero il fatto che gli uomini siano stati perdonati definitivamente proprio nel momento in cui compivano il delitto più orrendo della storia.

Fonte

Le religioni dei misteri. Vol. 1: Eleusi, dionisismo, orfismo, 1980, Mondadori

COSCIENZA E PERSONA NEL CRISTIANESIMO

S. Agostino, di S. Botticelli, Chiesa di Ognissanti, Firenze, 1480
S. Agostino, di S. Botticelli, Chiesa di Ognissanti, Firenze, 1480

Il cristianesimo ha notevolmente sviluppato il concetto di “persona”, introducendo, per così dire, il valore della responsabilità personale, l'idea di libera scelta, il primato della coscienza...

Prima del cristianesimo era considerato «persona» solo l'individuo che disponeva di un certo potere o che ricopriva un qualche ruolo ufficialmente riconosciuto. Non si era “persona in sé”, a prescindere da tutto, ma soltanto in rapporto a qualcosa di estrinseco. Il valore di una persona era dato da qualcosa di “esterno”, che l'individuo doveva “possedere” per essere considerato qualcuno.

Nel mondo romano occorreva almeno lo status di cittadino libero: cosa che distingueva il romano dallo straniero, il libero dallo schiavo. Poi naturalmente vi erano i ruoli politici, sociali, culturali, religiosi. Fra i cittadini liberi, l'uomo era più “persona” della donna, e il vecchio più del giovane.

Il cristianesimo invece, dando importanza al concetto di «persona in sé», ha avuto il coraggio di affermare che l'essere umano, in coscienza, può essere «libero» anche se fisicamente o giuridicamente è “schiavo”. Questo concetto fu rivoluzionario, poiché poteva impedire al potere costituito di servirsi del concetto di «ruolo» in maniera arbitraria.

È vero che il cristianesimo sosteneva che alle autorità bisognava obbedire non solo per “dovere” (come sempre era stato), ma anche per “motivi di coscienza” (col che si può pensare che il cristianesimo abbia legittimato eticamente il servilismo dei cittadini nei confronti delle autorità costituite); ma è anche vero che, una volta introdotto il concetto di “coscienza”, il cristianesimo veniva inevitabilmente a porsi in maniera concorrenziale col potere costituito, in quanto, se da un lato, il cristiano poteva predicare la subordinazione, dall'altro poteva anche predicare il contrario, a seconda delle circostanze contingenti, ovvero degli interessi in gioco.

In tal senso si può tranquillamente affermare che il cristianesimo, circoscrivendo il concetto di «coscienza» nell'angusto ambito della religione, ha fatto di questa uno strumento politico da poter usare anche in maniera eversiva (cosa che nell'ambito del paganesimo assai raramente avveniva: le religioni pagane che si opponevano al sistema, normalmente predicavano l'evasione dalla realtà).

La storia del cristianesimo ha dimostrato che ogniqualvolta le autorità cristiane chiedevano al credente di servirsi della propria coscienza per opporsi all'autoritarismo (vero o presunto) delle autorità laico-statali, lo scopo era anzitutto quello di aumentare i poteri politici della chiesa, cioè quello di servirsi dell'obiezione di coscienza per trasferire il totalitarismo da un potere istituzionale a un altro. Questo almeno è quanto è accaduto nell'ambito del cattolicesimo-romano. Eccezioni se ne possono trovare nei primissimi secoli della nostra èra o in molti fenomeni ereticali, allorché i credenti si servivano della loro coscienza per opporsi anche al totalitarismo della chiesa.

Fintanto che il primato della coscienza sul ruolo è rimasto organico all'esperienza ecclesiale comunitaria, i vantaggi sul piano socio-culturale sono stati notevoli per la chiesa; e proprio in forza di questi vantaggi il cristianesimo ha potuto vincere la propria battaglia sul paganesimo.

I guai sono venuti quando il cristianesimo, nella forma storica del cattolicesimo-romano, ha rinunciato politicamente alla prassi comunitaria, trasformando il ruolo del pontefice in una monarchia teocratica assoluta. La conseguenza è stata la trasformazione del valore della persona in un concetto meramente astratto, oggetto di speculazione filosofica, cui appellarsi soprattutto quando la prassi individualistica (si pensi a quella borghese-protestantica) comportava degli eccessi pericolosi.

Nel momento stesso in cui la contraddizione fra politica autoritaria del clero cattolico e collettivismo più o meno democratico delle masse contadine è giunta al limite della intollerabilità, è nato il protestantesimo, che ha legittimato l'individualismo borghese anche sul piano sociale. Ed è stato così che è poi nato il capitalismo.

Il capitalismo poteva nascere solo in un ambito che «cattolico» era più sul piano teorico che pratico, più sul piano politico che sociale. A questo punto le alternative erano due: o il cattolicesimo si trasformava in protestantesimo, permettendo al capitalismo d'imporsi con relativa facilità; oppure il capitalismo in fieri veniva politicamente costretto a ridimensionarsi, onde permettere al feudalesimo di sopravvivere. In Italia la chiesa cattolica scelse, attraverso la Controriforma, questa seconda strada.

A questo punto ci si può chiedere: perché il protestantesimo non ha promosso lo schiavismo invece del capitalismo? Perché lo schiavismo avrebbe potuto promuoverlo solo in termini non-cristiani, cioè solo là dove non fosse esistita alcuna coscienza cristiana (sul valore della persona).

Il capitalismo non è che la maschera cristiana dello schiavismo, cioè è il modo cristiano individualistico (e quindi protestante) di vivere lo schiavismo in un ambito dominato ideologicamente dal cristianesimo. Infatti, il capitalismo, a differenza dello schiavismo, garantisce formalmente la libertà a tutti i cittadini e lavoratori.

Questa maschera non è stata necessaria nei paesi extra-europei, dove, anche se sul piano pratico l'esigenza comunitaria si manifestava con un certo vigore, non si era ancora arrivati, in mancanza della profondità del cristianesimo, a elaborare un'ideologia del valore assoluto della persona. L'individuo veniva semplicemente considerato come una parte del tutto e mai, in nessun caso, come un elemento che, in virtù della propria consapevolezza di sé, poteva porsi al di sopra dei limiti comunitari e naturali.

Il cristianesimo ha vinto sulle culture non cristiane perché ha imposto il dominio politico e ideologico della persona astratta sul collettivo concreto, che ancora non aveva sufficiente consapevolezza della propria forza morale. Ed era il dominio di una istituzione che di umano non aveva e ancora oggi non ha più nulla, se non le parole astratte sulla dignità umana, sui diritti umani, che nella sostanza si traduce nella consapevolezza di poter usare la libertà per compiere le azioni più negative.

Naturalmente c'è un rovescio della medaglia, che il cattolicesimo-romano non poteva prevedere: l'uso arbitrario del concetto di “persona” è possibile appunto perché questo concetto esiste. La sua esistenza può indurre gli esseri umani a considerare negativamente ogni forma di abuso e di arbitrio.

Le culture non cristiane, schiavizzate dal cattolicesimo-romano e dal protestantesimo, possono trovare nel cristianesimo originario la forza per emanciparsi, anche se la storia ha dimostrato, nel frattempo, che tale emancipazione può avvenire solo se i valori del cristianesimo vengono definitivamente laicizzati.

STOICISMO E CRISTIANESIMO

Seneca
Seneca

Davvero il cristianesimo proviene dallo stoicismo? Fino a che punto? Certamente quello greco può aver influito sul cristianesimo petro-paolino. Ma come si può pensare che lo stoicismo di Marc'Aurelio, vissuto oltre un secolo e mezzo dalla nascita di Cristo, non sia stato minimamente influenzato dal cristianesimo?

Dovremmo piuttosto chiederci il contrario: perché, pur ereditando molti precetti e teorie di derivazione cristiana, gli imperatori continuarono a perseguitare questa concezione di vita fino a Diocleziano? Avevano forse capito ch'era l'unica alternativa di un certo spessore al fallimento del loro impero e non volevano ammetterlo? In altre parole lo stoicismo romano si poneva come una forma di laicizzazione del cristianesimo, proprio perché voleva costituirne una valida alternativa? È forse possibile sostenere che il neo-platonismo di Plotino (che è una forma di stoicismo spiritualizzato) veniva a porsi come filosofia laicizzata del cristianesimo, disposta a lasciarsi strumentalizzare dal potere dominante, pur di non permettere il trionfo della chiesa?

Se è così, allora bisogna dire che il cristianesimo non è altro che una forma di stoicismo in cui l'elemento ecclesiastico (concorrenziale a quello imperiale) gioca un ruolo particolarmente rilevante (in Europa occidentale la chiesa diventerà addirittura uno Stato autonomo rispetto al potere imperiale).

Lo stoicismo romano era caratterizzato da una contraddizione insostenibile: da un lato si sforzava di migliorare la condizione degli schiavi, iniziando a considerarli come esseri umani e trasformandoli in coloni; dall'altro continuava a perseguitare i cristiani che chiedevano la stessa cosa. Lo stoicismo appare come la filosofia di vita di un impero che non può più espandersi, ma solo difendersi e che avverte i confini di questo vastissimo impero sempre più minacciati dai cosiddetti «barbari»; e di fronte a questa minaccia sa benissimo di non poter contare sui cristiani, che considera come dei nemici interni, possibili alleati degli stranieri che premono in massa ai confini.

Solo con Costantino si capirà che se non si scende a patti coi cristiani, i confini non potranno essere difesi. La mancanza di un patto significativo nella parte occidentale dell'impero determinerà la sua rovinosa caduta, mentre nella parte orientale si andrà avanti, tra alti e bassi, per altri mille anni.

Lo stoicismo romano (sino alla sua forma spiritualizzata del plotinismo) non rappresenta altro che la filosofia della paura di dover perdere tutto: è il tentativo, disperato, da parte del potere politico, di prendersi il meglio (dal punto di vista etico) del cristianesimo, senza però concedere nulla su quello politico (assolutamente non si vuole rinunciare né alla divinizzazione del principe né allo schiavismo). Non si vuole riconoscere la chiesa come un «potere religioso»: questo è ancora molto evidente nell'imperatore Giuliano l'apostata. In fondo le tradizioni pagane non avevano mai messo in discussione il potere assoluto dello Stato.

Quando, a partire da Costantino, si comincerà a capire che l'impero poteva concedere una parte del proprio potere politico alla chiesa, per poter continuare a comportarsi come «impero schiavista», il gioco sarà fatto. Sarà però un gioco che durerà poco, in quanto l'arrivo delle tribù barbariche imporrà un sistema servile e non schiavile.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Nuovo Testamento - Sez. Religioni - Sez. Storia
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