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Hume: le cose, il mondo e l’io

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Giuseppe Bailone

“Sembra evidente che gli uomini sono portati da un istinto o prevenzione naturale a porre fede ai loro sensi; e che, senza alcun ragionamento, o almeno prima dell’uso della ragione, noi ammettiamo sempre che esista un mondo esterno e che non dipende dalla nostra percezione, ma esisterebbe anche se noi e qualsiasi essere sensibile non ci fossimo o fossimo annientati. Anche gli altri animali sono governati da un’opinione simile e conservano questa fede negli oggetti esterni in tutti i loro pensieri, intendimenti e azioni.

Sembra evidente anche che, quando gli uomini seguono quest’istinto di natura, cieco e potente, suppongono sempre che le stesse immagini presentate dai sensi siano gli oggetti esterni e non nutrono mai alcun sospetto che le prime siano soltanto rappresentazioni dei secondi. Questa tavola, che vediamo bianca e che sentiamo dura, si crede che esista indipendentemente dalla nostra rappresentazione e che sia qualche cosa di esterno alla nostra mente che la percepisce. La nostra presenza non le conferisce l’essere; la nostra assenza non l’annienta. Essa conserva la sua esistenza uniforme e completa, indipendente dagli esseri intelligenti che la percepiscono o la contemplano.

Ma quest’opinione universale e primaria di tutti gli uomini è presto distrutta dalla più sottile filosofia che ci insegna che alla mente non può essere presente se non un’immagine o percezione, che i sensi sono soltanto le porte attraverso cui queste immagini passano, senza che riescano a produrre alcuna relazione immediata tra la mente e l’oggetto. La tavola che vediamo sembra diminuire se ce ne allontaniamo; ma la tavola reale, che esiste indipendentemente da noi, non subisce alterazioni; era, perciò, soltanto la sua immagine che era presente alla mente. Questi sono gli ovvi dettami della ragione e nessuno che non rinunci a riflettere ebbe mai a dubitare che le esistenze che consideriamo quando diciamo questa casa e quest’albero non siano le percezioni della mente, e copie evanescenti o rappresentazioni di altre esistenze, che restano uniformi e indipendenti.

Fin qui, dunque, siamo costretti dal ragionamento a contraddire o ad allontanarci dagli istinti primari della natura, e ad abbracciare un nuovo sistema riguardo all’evidenza dei nostri sensi. Ma qui la filosofia si trova molto imbarazzata quando vuol giustificare questo nuovo sistema ed evitare i cavilli e le obiezioni degli scettici. Essa non può più a lungo addurre a pretesto l’infallibile ed irresistibile istinto di natura, poiché questo ci porta ad un sistema completamente diverso, che si riconosce per fallibile e perfino erroneo. E il giustificare questo preteso sistema filosofico, con un seguito di argomenti chiari e convincenti, o anche con qualche cosa che ne abbia la parvenza, supera il potere della capacità umana presa in blocco.

Con qualche argomento si può provare che le percezioni della mente devono essere causate da oggetti esterni, completamente diversi da esse per quanto ad esse somiglianti (se ciò è possibile), e che non potrebbero venire né dall’energia della mente stessa, né dall’intervento di qualche spirito invisibile e sconosciuto, né da qualche altra causa ancor più sconosciuta a noi? Si ammette che di fatto molte di queste percezioni non provengono da qualche cosa di esterno, come nei sogni, nella follia e in altre malattie. E non c’è nulla di più inesplicabile del modo in cui il corpo dovrebbe operare sulla mente per trasmettere continuamente un’immagine di se stesso ad una sostanza che si suppone sia di natura così diversa e perfino contraria”.[1]

Se le percezioni dei sensi siano prodotte da cose esterne che assomigliano ad esse è una questione di fatto. Andrebbe, quindi, risolta con il ricorso all’esperienza, come tutte le questioni di fatto. L’esperienza, però, in questo caso non ci dice assolutamente nulla: “La mente non ha mai presenti se non percezioni e non è possibile che le riesca di conseguire esperienza alcuna della connessione delle percezioni cogli oggetti”. La questione non può essere affrontata neppure come un tipo di rapporto causale, perché questo si verifica solo tra le percezioni, non tra le percezioni e le presunte realtà esterne cui queste rinvierebbero.

Questo dubbio, creato dalla riflessione filosofica, non ha soluzione né empirica né razionale.

“Questo dubbio scettico, tanto rispetto alla ragione, quanto ai sensi, è un male che non può essere radicalmente curato, ma deve ripetersi ad ogni momento, per quanto lo cacciamo, e talvolta crediamo di essercene liberati. È impossibile difendere, con qualsivoglia sistema, o il nostro intelletto o i nostri sensi; e non facciamo che esporli sempre di più alla critica, tentando di giustificarli per questa via. E poiché il dubbio scettico è il frutto naturale di un’intensa e profonda riflessione, esso aumenta tanto più, quanto più spingiamo innanzi le nostre riflessioni, sia in opposizione sia in accordo con esso. Non curarsene, non badarci: ecco l’unico rimedio. Al quale mi affido interamente. Scommetto che, qualunque sia in questo momento l’opinione del lettore, da qui a un’ora egli sarà convinto che esiste tanto un mondo esterno quanto un mondo interno”.[2]

Su questo dubbio la riflessione non può trovare un punto di approdo: essa va all’infinito, avvitandosi su se stessa. L’attività pratica, però, non può attendere che la filosofia risolva questo problema; non può restare del tutto paralizzata. Si potrebbe dire che la vita buona si realizza con un equilibrato rapporto tra la tendenza naturale a credere e la tendenza, altrettanto naturale, a riflettere, a dubitare e a mettere in discussione le nostre credenze.

L’alternativa tra il dubbio e la credenza non può mai risolversi a vantaggio di uno solo dei due. Essi devono convivere in equilibrio, come le nostre due gambe del corpo, in quella caduta controllata che è il camminare.

L’uomo non è solo attività conoscitiva, ma anche pratica. La natura ha dotato l’uomo, come gli animali, dell’istinto come guida delle sue azioni. Per Hume, anche la ragione, però, in quanto tendenza naturale a verificare e a fare revisioni critiche, è una specie di istinto. Anche la curiosità, che spinge a indagare, ad andare oltre le apparenze, a cercare la giustificazione di ciò che si crede, fa parte della natura umana. È naturale che l’uomo abbia dei dubbi, si ponga dei problemi, voglia fare chiarezza sulla propria natura.

Trovato il rimedio al “male che non può essere radicalmente curato”, resta, il problema dell’origine della credenza naturale, umana e animale, nella esistenza di un mondo esterno. Per Hume, infatti, come per Locke, nulla è scritto nella nostra mente se non dall’esperienza e dalla riflessione su di essa. Come si forma allora questa credenza nella nostra mente?

La sua genesi prima è nella maggiore vivacità e intensità delle impressioni rispetto a quella delle idee. Hume sa bene che ci sono impressioni poco vivaci e poco intense, mentre ci sono delle idee molto vivaci e di forte intensità; ma, sostiene, il ricordo di un dolore o di un piacere non può avere la stessa intensità delle rispettive impressioni, e la mente non ha difficoltà a distinguere l’uno dalle altre.

A rafforzare questo sentimento della realtà, radicato nella forza e vivacità delle impressioni, provvede, poi, l’abitudine.

È l’abitudine ad associare determinate impressioni che mi porta a credere che il foglio che ho davanti agli occhi sia una realtà unitaria, indipendente dalle mie impressioni, durevole, reale anche quando non sia oggetto delle mie impressioni visive e tattili. Abituandomi a riprovare le stesse sensazioni di ieri e dell’altro ieri, sono spinto dalla mia immaginazione a credere che questo foglio potrò ritrovarlo anche domani, se non verrà da me o da altri distrutto. È vero che io non percepisco quel corpo che chiamo foglio, che ho solo una serie di raggruppamenti simili di sensazioni, non permanenti, intermittenti, ma registro che esse si ripresentano quando dirigo la mia attenzione su quel presunto oggetto esterno. Il ripetersi di questa esperienza, e di tante altre analoghe, crea l’abitudine che mi porta a credere all’esistenza del mondo esterno e alla sua stabilità.

Tra i corpi, che credo esistenti, c’è anche il mio, la cui idea si forma in maniera analoga e il cui valore di conoscenza è ugualmente probabile, ma non certissimo, mai sottratto definitivamente al dubbio.

C’è, infine, la credenza nell’io, nella sua unità e permanenza.

“Ci sono alcuni filosofi, i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro io: che noi sentiamo la sua esistenza e la continuità della sua esistenza; e che siamo certi, con un’evidenza che supera ogni dimostrazione, della sua perfetta identità e semplicità. Le sensazioni più forti, le passioni più violente, dicono essi, invece di distrarci da tale coscienza, non fanno che fissarla più intensamente e mostraci, col piacere e col dolore, quanta sia la loro influenza sull’io. Tentare un’ulteriore prova di ciò sarebbe, per essi, indebolirne l’evidenza: non c’è nessun fatto del quale noi siamo così intimamente coscienti come questo; e se dubitiamo di questo, non resta niente di cui si possa esser sicuri.

Disgraziatamente, tutte queste recise affermazioni sono contrarie all’esperienza stessa da essi invocata: noi non abbiamo nessuna idea dell’io, nel modo che viene qui spiegato. Da quale impressione potrebbe derivare tale idea? […] Ci vuole sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io, o la persona, non è un’impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io, quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché si suppone che l’io esista in questo modo. Invece, non c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme. Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da nessun’altra, che l’idea dell’io è derivata: per conseguenza non esiste tale idea. Inoltre, che cosa diventano, secondo questa ipotesi, tutte le percezioni particolari? Esse sono tutte differenti, distinguibili e separabili, e possono essere considerate ed esistere separatamente l’una dall’altra senza bisogno di nulla che ne sostenga l’esistenza. In che modo, allora, appartengono all’io, e come sono in relazione con questo? Per parte mia, quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso, e si può dire che realmente, durante quel tempo, non esisto. E se tutte le mie percezioni fossero soppresse dalla morte, sì che non potessi più né pensare né sentire, né vedere, né amare, né odiare, e il mio corpo fosse dissolto, io sarei interamente annientato, e non so che cosa si richieda di più per far di me una perfetta non-entità. Se qualcuno, dopo una seria e spregiudicata riflessione, crede di avere una nozione differente di se stesso, dichiaro che non posso seguitar a ragionar con lui. Tutt’al più, gli potrei concedere che può aver ragione lui come l’ho io, e che in questo punto siamo essenzialmente differenti: egli forse percepisce qualcosa di semplice e di continuo, che chiama se stesso, mentre io son certo che in me un tale principio non esiste.

Ma, fatta eccezione di qualche metafisico di questa specie, io oso affermare che per il resto dell’umanità noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. I nostri occhi non possono girare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il nostro pensiero è ancora più variabile della nostra vista, e tutti gli altri sensi e facoltà contribuiscono a questo cambiamento; né esiste forse un solo potere dell’anima che resti identico, senza alterazione, un momento. La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c’è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale ad immaginare quella semplicità e identità. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la nostra mente non c’è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta”.[3]

La credenza nell’unità e identità dell’io è dello stesso tipo di quella riferita alle cose e al mondo. Ha, quindi, un’origine analoga.

Per Hume, il primo spunto a produrre l’idea dell’identità personale è data dal ripresentarsi alla coscienza di sensazioni simili ad altre già presenti in memoria. Si ha, quindi, il formarsi di una prima abitudine al ripetersi di impressioni e idee simili. L’abitudine ai loro rapporti causali, visto che le percezioni differenti si influenzano e si modificano reciprocamente, completa e consolida il formarsi della credenza nell’io e nella sua unità.

Hume paragona l’anima “a una repubblica, a uno Stato, in cui i diversi membri sono uniti da un vincolo reciproco di governo e di subordinazione, e danno vita ad altre persone, le quali continuano la stessa repubblica nell’incessante cambiamento delle sue parti. E come una stessa repubblica, non soltanto può cambiare i suoi membri, ma anche le sue leggi e la sua costituzione, nello stesso modo una medesima persona può mutare carattere e disposizione, così come le sue impressioni e le sue idee, senza perdere la propria identità. Qualunque cambiamento subisca, le sue parti sono sempre connesse dalla relazione di causalità”.[4]

Note

[1] David Hume, Ricerca sull’intelletto umano, in Opere filosofiche II, ed. Laterza 1996, pp. 161-3.

[2] David Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche I, ed. Laterza 1987, p. 231.

[3] Ib. pp. 263-5.

[4] Ib. p. 273.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 5 gennaio 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Aggiornamento: 26-04-2015