Spinoza è ateo?

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Spinoza è ateo?

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Spinoza, in vita e dopo, è stato accusato da più parti di ateismo. E’ un’accusa fondata?

Premesso che l’idea di Dio ha assunto nella storia della nostra cultura significati molto diversi, credo che si possa dire che l’idea di Dio di Spinoza è in aperto conflitto con l’idea che di Dio ha avuto e ha tuttora la larghissima maggioranza dei fedeli delle religioni monoteiste di origine biblica.

Il Dio di Spinoza non è creatore dal nulla di tutte le cose, non assomiglia all’uomo, non è persona, non è libero nel senso comune del termine, non è sensibile alle preghiere e ai culti, non è garante di valori assoluti, non è giudice, non premia e non punisce, non fa miracoli.

Non stupisce, quindi, l’accusa di ateismo.

Il Dio di Spinoza non è creatore

E’ causa immanente di tutte le cose e il mondo discende necessariamente dalla sua natura. Nella creazione le creature sono altra cosa dal creatore. Invece, le cose, in cui il Dio di Spinoza si determina e si manifesta, non sono cose diverse da lui, ma sono sue proprietà, esattamente come le proprietà del triangolo non sono cose diverse dal triangolo stesso, ma lo costituiscono.

L’ontologia, cioè la teoria dell’essere, di Spinoza è rigorosamente monista. L’unità del reale, perno del pensiero di Spinoza, se per un verso riduce tutte le cose a Dio, per l’altro riduce Dio alle cose in cui si manifesta. Dio è causa e insieme effetto. Rimane presente nelle cose che determina, anche se non si esaurisce in esse. Dio è le cose, ma le cose sono Dio solo considerate tutte insieme e non come cose soltanto, ma anche come ordine.

Dio e le cose si distinguono in base alla prospettiva in cui si considerano: se si parte dall’unico principio e fondamento di ciò che è, Dio è causa di sé, libero nella sua necessità di essere quel che è, cioè, appunto, principio e fondamento di ogni cosa; se si parte dalle singole cose, ogni cosa, a parte la limitatezza che la costituisce come cosa singola, ha la realtà e l’identità unica che le deriva dall’essere una particolare manifestazione di Dio. Ogni cosa, in base alla perfezione del tutto che contribuisce a costituire, è insostituibile.

L’espressione spinoziana “Deus sive natura”, con la relativa distinzione della natura in naturans e naturata, facilita le cose.  Se, poi, invece del termine Dio, usassimo il termine “essere” o “realtà” si faciliterebbe ulteriormente la comprensione della teologia di Spinoza, che è in realtà un’ontologia.

Il rigoroso monismo ontologico non significa, però, che le particolarità e le differenze siano secondarie: sono particolarità e differenze necessarie, razionali e partecipano alla costituzione dell’ordine complessivo. Le cose, cioè, pur non essendo sostanze, perché sostanza è solo Dio, hanno una loro consistenza e non sono annullate nel tutto di cui sono parte infinitesima. Dio, infatti, è causa della loro particolarità, che non va, pertanto pensata come una delle tante repliche di un modello generale (viene da pensare alle sostanze prime di Aristotele). E questo, come già abbiamo visto, ha molta importanza per l’etica: gli individui hanno una loro autonomia, determinata dalla loro propria natura e sono irriducibili. Devono, pertanto, realizzare se stessi e non conformarsi a un modello umano generale.

“Se Dio avesse creato gli uomini tali quali Adamo prima del peccato, egli avrebbe creato solo Adamo, non Pietro e Paolo: mentre in Dio la vera perfezione consiste nel dare a tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi, la loro essenza o, a dir meglio, a possedere in se stesso tutte le cose in maniera perfetta”. Quindi, “Pietro deve necessariamente convenire con l’idea di Pietro e non con l’idea dell’uomo”.[1]

L’uomo può raggiungere la conoscenza adeguata di Dio come pensiero e come corpo, come res cogitans e come res extensa. Ma Dio non è solo questo: ha infiniti altri aspetti, che l’uomo non conosce. Spinoza chiama attributi di Dio il pensiero e l’estensione, mentre chiama modi di Dio le sue manifestazioni come pensiero e come estensione.

Il Dio di Spinoza non assomiglia a quello di Plotino e del neoplatonismo: le cose non derivano da Dio per emanazione, degradando nel corso di questo processo. Nel mondo di Spinoza non c’è il punto supremo di perfezione e il punto più basso, prossimo al nulla: come nel mondo degli enti geometrici, tutto è rigorosamente razionale e come deve essere.

Il Dio di Spinoza non è persona

Intelletto e volontà sono modi dell’attributo pensiero e non attributi della sostanza, quindi non appartengono all’essenza divina: il pensiero, attributo divino, è impersonale e s’identifica con l’ordine geometrico necessario della realtà.

L’uomo non è il senso e il fine del creato

Nel Vecchio Testamento, l’uomo, unica creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, è al centro e costituisce il fine del creato; nel Nuovo Testamento la centralità umana è accentuata dal farsi uomo di Dio. La filosofia di Spinoza critica radicalmente queste concezioni: il suo sistema è sì teocentrico (Dio è la sua parola fondamentale), ma non è antropocentrico.

Il Dio di Spinoza non agisce in vista di fini

Il teocentrismo geometrizzante di Spinoza nega non solo l’antropocentrismo, ma, anche, il finalismo: Dio agisce per necessità razionale geometrica della sua natura e non in vista di fini.

Finalismo e antropocentrismo sono errori umani solidali.

“Gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose della natura agiscano, come essi stessi, in vista di un fine, e anzi ammettono come cosa certa che Dio stesso diriga tutto verso un fine determinato: dicono, infatti, che Dio ha fatto tutto in vista dell’uomo e ha fatto l’uomo affinché lo adorasse”.[2]

Per il pensiero comune, l’uomo è in cima ai pensieri divini.

E’ un pensiero che nasce dalla riduzione umana delle cose a mezzi: “gli occhi per vedere, i denti per masticare, le erbe e gli animali per l’alimentazione, il sole per illuminare, il mare per nutrire i pesci”, ecc.

“E poiché (gli uomini) – continua Spinoza – sanno di aver trovato questi mezzi, ma non di averli predisposti, hanno tratto motivo per credere che ci sia qualche altro che li abbia predisposti per il loro uso. Dopo aver considerato, infatti, le cose come mezzi, non hanno potuto credere che esse si siano fatte da se stesse; ma dai mezzi che essi sono soliti predisporsi, hanno tratto la conclusione che ci sia uno o più rettori della natura, dotati di libertà umana, che hanno curato tutto in loro favore e hanno fatto tutto per il loro uso. E, parimenti, poiché non avevano mai udito nulla della maniera di sentire di questi rettori, essi ne hanno dovuto giudicare in base alla propria; e quindi hanno ammesso che gli Dei dirigano tutte le cose per l’uso degli uomini allo scopo di legarli a sé e di essere tenuti in massimo onore: dal che è derivato che ciascuno ha escogitato secondo il proprio modo di sentire maniere diverse di prestar culto a Dio affinché Dio lo amasse al di sopra degli altri  e dirigesse tutta la natura a profitto della sua cieca cupidigia e della sua insaziabile avidità. E così questo pregiudizio si è cambiato in superstizione e ha messo profonde radici nelle menti; il che è stato la causa per cui ciascuno si è dedicato col massimo sforzo a conoscere e a spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma mentre così cercavano di mostrare che la natura non fa nulla invano (cioè nulla che non sia per l’uso degli uomini), essi non hanno mostrato altro, mi sembra, se non che la natura e gli Dei sono colpiti dal medesimo delirio che gli uomini”.[3]

Le cause finali della natura sono “finzioni umane”. Nascono dall’uso umano delle cose naturali, che riduce le cose al loro aspetto strumentale.

Cercare fini divini nella natura significa:

  • non capire che “tutto nella natura avviene per eterna necessità e con somma perfezione”;
  • annullare “la perfezione di Dio; giacché, se Dio agisce per un fine, egli allora necessariamente appetisce qualcosa che gli manca”.

Decisivo è il significato spinoziano di perfezione.

Perfetto, in Spinoza, significa compiuto, che non manca di nulla per essere quello che è e deve essere; non comporta, cioè, valore e apprezzamento, che sono cose relative agli uomini; Dio è perfetto, non è né buono né bello; così le cose che determina: sono compiute, perfette; siamo noi che, in base al nostro sforzo di affermazione, le troviamo belle o brutte, buone o cattive.

Il Dio di Spinoza non è garante di valori assoluti

E’ l’uso delle cose e la loro riduzione a mezzi che crea i valori.

“Dopo che gli uomini si sono persuasi che tutto quanto accade, accade per loro, non hanno potuto far a meno di giudicare che in ogni cosa l’elemento principale è ciò che per essi presenta la massima utilità, e di stimare come le cose più eccellenti tutte le cose di cui sono affetti nel modo più gradevole. In tal modo essi non hanno potuto far a meno di formare quelle nozioni con le quali pretendono di spiegare le nature delle cose, come il Bene, il Male, l’Ordine, la Confusione, il Caldo, il Freddo, la Bellezza e laBruttezza; e poiché si ritengono liberi, da ciò son sorte queste altre nozioni, la Lode, cioè, e il Biasimo, il Peccato e ilMerito”. [4]

Accade, così, che gli uomini “che non conoscono intellettualmente la natura delle cose”, ma “solamente la immaginano e prendono l’immaginazione per l’intelletto”,

  • chiamino “Bene tutto ciò che contribuisce alla salute e al culto di Dio, e Male tutto ciò che è contrario a queste cose”;
  • credano “fermamente che ci sia un ordine nelle cose, ignari come sono della natura delle cose quanto di se stessi”.

“Quando, infatti, le cose sono disposte in modo che noi, appena ce le rappresentiamo mediante i sensi, possiamo facilmente immaginarle e, quindi, facilmente ricordarcele, diciamo allora che esse sono bene ordinate <in buon ordine>; nel caso contrario, invece, che sono male ordinate o confuse. E poiché per noi sono più gradevoli di tutte le cose che possiamo facilmente immaginare, gli uomini preferiscono l’ordine alla confusione, come se l’ordine fosse qualcosa nella natura, indipendentemente dal rapporto alla nostra immaginazione; e dicono che Dio ha creato tutto con ordine, e in questo modo, senza saperlo, attribuiscono a Dio un’immaginazione, a meno che non ammettano che Dio, provvedendo all’immaginazione umana, abbia disposto tutte le cose in modo che potessero facilmente immaginarsi; e probabilmente essi non si faranno trattenere dall’obbiezione che c’è un’infinità di cose che superano di gran lunga la nostra immaginazione, e moltissime altre che la confondono a causa della sua debolezza”.[5]

Gli uomini “credono che tutte le cose siano fatte per loro; e così dicono che la natura d’una cosa è buona o cattiva, sana o malsana e corrotta, a seconda del modo in cui ne sono affetti. Se, per esempio, il movimento che i nervi ricevono dagli oggetti percepiti mediante gli occhi contribuisce alla salute, allora gli oggetti che ne sono la causa sono detti belli; quelli invece che suscitano un movimento contrario sono detti brutti. Chiamano, poi, odorosi o fetidi quelli che eccitano il senso mediante le narici; dolci o amari, saporosi o insipidi quelli che lo eccitano mediante la lingua, ecc. Quelli, poi, che agiscono mediante il tatto sono detti duri o molli, ruvidi o lisci, ecc. E quelli, infine, che mettono in moto gli orecchi si dice che producono un rumore, un suono, o un’armonia, e l’ultima di queste qualità ha posto gli uomini fuori di senno in modo da farli credere che perfino Dio si diletti dell’armonia. Né mancano Filosofi che sono fermamente convinti che i movimenti celesti compongano un’armonia”.[6]

I valori e i fini non appartengono alle cose. Non ha senso cercarli nel mondo. Meno ancora ha senso cercarli in un mondo trascendente: fuori della caverna non c’è nulla e le idee platoniche sono un miraggio.

Valori e fini sono produzioni umane, ma la superstizione ci impedisce di rendercene conto e ci spinge alla loro ricerca nelle cose e in Dio, nell’illusione di renderli sicuri.

Non sempre la ricerca superstiziosa dei fini approda a risultati.

Ci sono, infatti, degli eventi che non si prestano ad essere visti come favori o come castighi divini. Allora, la superstizione si rifugia nell’insondabilità della volontà divina: i fini divini non si capiscono, ma, proprio per questo, si deve credere che ci siano. Nasce, così, “una nuova maniera di argomentare, la riduzione, cioè, non all’impossibile, ma all’ignoranza”.[7]

Il nostro bisogno di fini e di valori “oggettivi” e divini ci induce ad adottarne di misteriosi e inconoscibili, pur di non restarne senza.

Il Dio di Spinoza non fa miracoli

L’idea di miracolo è chiaramente incompatibile con l’ordine necessario e perfetto del reale. Al miracolo, nel Trattato teologico-politico, dedica il cap. 6.

“Così come si sono abituati a chiamare divina quella scienza che supera le capacità umane, allo stesso modo gli uomini si sono abituati a chiamare divino, cioè opera di Dio, un fatto la cui causa è sconosciuta. Il volgo, infatti, ritiene che la potenza e la provvidenza di Dio risultino nella maniera più chiara quando vede accadere in natura qualcosa d’insolito e in contrasto con l’opinione che egli per consuetudine ha della natura, soprattutto se ciò sia riuscito a suo guadagno o vantaggio. E da nessuna cosa gli uomini ritengono si possa dimostrare più chiaramente l’esistenza di Dio se non da questo: che la natura non conservi il proprio ordine. E perciò il volgo crede che tolgano di mezzo Dio, o almeno la sua provvidenza, tutti coloro i quali spiegano, o cercano di intendere, le cose e i miracoli per mezzo di cause naturali: il volgo ritiene cioè che Dio non faccia niente fintantoché la natura agisce secondo il solito ordine, e, al contrario, che la potenza della natura e le cause naturali restino oziose fintantoché Dio agisce. Gli uomini immaginano due potenze numericamente distinte l’una dall’altra, cioè la potenza di Dio e la potenza delle cose naturali […] Che cosa poi intendano per l’una e l’altra potenza, e che cosa per Dio e natura, lo ignorano del tutto, a meno che immaginino la potenza di Dio come il potere di qualche maestà regale e quella della natura come forza e impulso. Il volgo, dunque, chiama “miracoli”, ossia opere di Dio, i fatti insoliti della natura, e, un po’ per devozione, un po’ per contrastare coloro che coltivano le scienze naturali, desidera non conoscere le cause naturali delle cose, e arde dal desiderio di sentir parlare di quelle cose che soprattutto ignora e che, perciò, soprattutto ammira. Ciò è evidente, perché in nessun altro modo, se non togliendo le cause naturali e immaginando le cose fuori dell’ordine naturale, il volgo può adorare Dio e riferire tutte le cose al suo potere e alla sua volontà, e non ammira la potenza di Dio se non in quanto immagina la potenza della natura sottomessa a Dio […] Il volgo, nella sua stoltezza, confonde il volere di Dio con il volere degli uomini e, infine, immagina la natura limitata fino al punto di credere che l’uomo sia la parte più importante di essa! […] Tutto ciò che Dio vuole – ovvero determina – implica eterna necessità e verità […] Se dunque in natura avvenisse qualcosa che fosse contrario alle sue leggi universali, ciò sarebbe contrario al decreto, all’intelletto e alla natura di Dio; ovvero, se qualcuno affermasse che Dio opera contro le leggi della natura, costui sarebbe, insieme, costretto ad affermare pure che Dio agisce contro la propria natura: cosa della quale niente è più assurdo […] E non c’è nessuna buona ragione per attribuire alla natura una potenza e una virtù limitate […] Infatti, la virtù e la potenza della natura sono la stessa virtù e potenza di Dio […] Perciò, da queste cose – cioè, in natura non accade niente che non segua dalle sue leggi; le sue leggi si estendono a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; infine, la natura osserva un ordine fisso e immutabile – segue chiarissimamente che il nome “miracolo” non può essere inteso se non rispetto alle opinioni degli uomini, e non significa nient’altro che un fatto del quale non possiamo spiegare la causa naturale sull’esempio di un’altra cosa che accade di solito, o almeno non può spiegarla colui che scrive o racconta il miracolo”.

Per Spinoza è l’ordine fisso e immutabile della natura, e non l’evento miracoloso, a consentire all’uomo di conoscere l’essenza, l’esistenza e la provvidenza di Dio. “Se anche potessimo trarre qualche conclusione dai miracoli, in nessun modo – scrive – se ne potrebbe inferire l’esistenza di Dio. Infatti, poiché il miracolo è un fatto limitato e non esprime mai se non una certa e limitata potenza, è certo che noi da tale effetto non possiamo inferire l’esistenza di una causa la cui potenza sia infinita, ma al massimo l’esistenza di una causa la cui potenza sia maggiore; dico “al massimo” poiché da molte cause che concorrono insieme può anche conseguire un fatto la cui forza e la cui potenza siano minori della potenza di tutte le cause messe insieme, ma di gran lunga maggiori della potenza di ciascuna causa […] Non c’è dubbio che tutte le cose raccontate nella Scrittura siano avvenute naturalmente, e tuttavia sono riferite a Dio, perché come abbiamo già mostrato, non è compito della Scrittura insegnare le cose per mezzo delle cause naturali, ma soltanto raccontare quelle cose che colpiscono e occupano l’immaginazione, e, inoltre, raccontarle con un metodo e uno stile i più adatti a far ammirare sempre di più le cose e, di conseguenza, a imprimere la devozione nell’animo del volgo […] E se si trova qualcosa di cui si possa dimostrare in maniera apodittica che è contrario alle leggi della natura o che non ha potuto seguire da esse, si deve senz’altro credere che ciò sia stato aggiunto alla Sacra Scrittura da uomini sacrileghi: tutto ciò che è contro la natura, infatti, è contro la ragione, e ciò che è contro la ragione è assurdo e perciò deve essere anche rifiutato […] Avviene assai di rado che gli uomini raccontino una cosa così semplicemente come è avvenuta, in modo da non aggiungere al racconto niente del loro giudizio […] Perciò avviene che gli uomini, nei loro racconti e nelle loro storie, raccontino piuttosto le loro opinioni che i fatti come sono accaduti, e che un solo e identico caso è raccontato da due uomini con opinioni diverse in maniera così diversa da sembrare parlino di due casi differenti, e, infine, che spesso non è difficile scoprire soltanto dalle storie le opinioni del cronista e dello storico […] Per interpretare i miracoli della Scrittura, e per intendere dalle loro narrazioni in che modo essi accaddero effettivamente, è dunque necessario conoscere le opinioni di coloro che per primi li narrarono”.

Sui miracoli torna diffusamente in una lettera a Oldenburg:[8]

“Assumo come equivalenti i miracoli e l’ignoranza perché chi si sforza di fondare l’esistenza di Dio e della religione sui miracoli, vuole mostrare una cosa oscura tramite un’altra ancora più oscura che ignora del tutto, e così porta un nuovo genere di argomentazione, cioè non la riduzione all’assurdo, come la chiamano, ma la riduzione all’ignoranza. […]

Riconosco con te la debolezza dell’uomo. Ma permettimi di chiederti: noi, piccoli uomini, abbiamo abbastanza conoscenza della natura da poter determinare fin dove si estenda la sua forza e potenza e che cosa superi la sua forza? Poiché nessuno può presumerlo senza arroganza, sia dunque lecito, per quanto è possibile, spiegare senza vanterie i miracoli con cause naturali. E su ciò che non si può spiegare o non si può dimostrare come assurdo, bisognerà sospendere il giudizio, e fondare la religione, come ho detto, unicamente sulla sapienza della dottrina. […]In ogni caso, credi forse che quando la Scrittura dice che Dio si è manifestato in una nube, o in un tabernacolo e abita nel tempio, Dio abbia davvero assunto la natura di una nube, del tabernacolo o del tempio?”

Il Dio di Spinoza non ama

E’ la cosa più amabile, ma, in ciò abissalmente distante dal Dio del cristianesimo, non ama.

“Dio non ha passioni e non prova alcun affetto di letizia o di tristezza”.[9]

Spinoza parla di amore intellettuale di Dio, culmine della conoscenza intuitiva dell’intelletto umano: “Chi conosce sé e i suoi affetti in modo chiaro e distinto, ama Dio, e tanto più quanto più conosce sé e i suoi affetti”.[10]

L’amore intellettuale di Dio è il culmine dell’attività della mente umana.

Questo punto centrale del pensiero spinoziano è stato fatto oggetto d’interpretazioni mistiche, ma impropriamente. Quest’amore, infatti, non ha i caratteri d’ineffabilità propri dell’esperienza mistica, ma si regge su idee chiare e distinte; né comporta l’annullamento dell’individualità umana in Dio, perché è la più piena realizzazione dell’individualità. E’ lo stato d’animo di chi, arrivato a comprendere le cose e se stesso, ha un sentimento di piena soddisfazione personale e d’impegno ad agire virtuosamente

Più che allo spirito dei mistici va accostato a quello dello scienziato che porta a termine un’importante ricerca, o a quello del filosofo che conclude la costruzione del suo sistema. Allo spirito di chi, insomma, come Spinoza, è convinto di essere venuto a capo del problema dei problemi.

Dopo quest’esame di ciò che manca al Dio di Spinoza della divinità delle nostre religioni storiche, si può concludere che l’accusa di ateismo aveva ed ha, per la maggior parte dei fedeli di queste religioni, i suoi motivi.

La concezione spinoziana del peccato non attenua questa conclusione.

“Tutto ciò che è detto peccato viene affermato dal punto di vista della nostra ragione: come quando paragoniamo fra loro due cose o una stessa cosa da due punti di vista differenti. Per esempio, se qualcuno ha costruito un orologio adatto a suonare e a indicare l’ora, e l’opera è ben in armonia col fine che l’artefice si è proposto, una tale opera si chiama buona, altrimenti la si chiama cattiva; ma essa potrebbe essere buona anche qualora lo scopo dell’artefice fosse stato quello di guastare l’orologio e di farlo muovere fuori tempo”. Infatti, per Spinoza “bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […] Infatti, tutte le cose e le opere esistenti in natura sono perfette”.[11] 

Nell’Etica scrive: “Il peccato non si può concepire nello stato naturale, ma solo nello stato civile, dove, da un lato, si decreta per comune consenso quale cosa è buona o quale è cattiva, e, dall’altro, ciascuno è obbligato a obbedire allo Stato. Il peccato, dunque, non è altro che la disobbedienza, la quale, per questa ragione, è punita in virtù del solo diritto dello Stato”.[12]

Torino 26 novembre 2012


[1] Breve trattato su Dio, l’uomo, e la sua felicità, I, cap. 7, in Tutte le opere, Bompiani 2010, p. 235.

[2] Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, I, Appendice, in Tutte le opere, Bompiani 2010, p. 1207.

[3] Ib. p. 1209.

[4] Ib. p. 1215.

[5] Ib. p. 1215.

[6] Ib. p. 1217. E’ stato Democrito il primo filosofo a considerare soggettive le qualità sensibili, poi seguito, in età moderna, da Galilei. L’idea dell’armonia celeste nasce tra i Pitagorici. 

[7] Ib. p. 1213.

[8] Lett. 75, p. 2183.

[9] Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, V, Prop. 17, in Tutte le opere, Bompiani 2010, p. 1575.

[10] Ib. V, Prop. 15, p. 1575.

[11] Breve trattato su Dio, l’uomo, e la sua felicità, I, cap. 7, in Tutte le opere, Bompiani 2010, p. 235.

[12] Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, IV, prop. 38, scolio 2, in Tutte le opere, Bompiani 2010, p. 1489.


Giuseppe Bailone

Fonti

www.fogliospinoziano.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015