Spinoza, il filosofo della libera necessità

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Spinoza, il filosofo della “libera necessità”

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La libera necessità sembra un ossimoro, un’espressione paradossale, una contraddizione evidente. E’ però il cuore del pensiero di Spinoza, il filosofo che ha messo il rigore razionale al primo posto nella sua ricerca della verità.

“Io dico libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura; è invece coatta quella che è determinata da altro ad esistere e agire per una certa e determinata ragione. Per esempio, Dio, per quanto necessariamente, tuttavia esiste unicamente in virtù della necessità della sua natura. E così, pure, Dio intende se stesso e tutte le cose in modo assolutamente libero, perché discende unicamente dalla necessità della sua natura che egli intenda tutto. Vedi dunque che io pongo la libertà non in un libero decreto ma in una libera necessità”.[1]

L’opposto della libertà non è la necessità, ma la coazione, la costrizione.

Dio è libero, non perché nella sua onnipotenza può tutto e il suo contrario, ma perché non è limitato da altri enti e, quindi, è perfettamente libero di manifestare la propria necessaria natura. Dio non sceglie con libero arbitrio tra infiniti mondi possibili, ma realizza l’unico mondo che necessariamente scaturisce dalla sua natura.

Spinoza lo dice in modo netto: “Le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte”.[2]

Per capire il significato della libertà in Spinoza dobbiamo associarla all’indipendenza, all’autonomia, non all’arbitrio, non alla scelta; dobbiamo pensare al potere che si realizza pienamente, non alla possibilità che può sia realizzarsi che non realizzarsi. L’aggettivo adeguato all’onnipotenza divina non è “possibile”, bensì “necessario”. Non solo: l’aggettivo “possibile” non s’addice a nessuna realtà di cui si abbia conoscenza adeguata. Tutto ciò che è, infatti, è così com’è, o per necessità intrinseca o per la causa efficiente che la determina con necessità.

Capire adeguatamente la realtà significa coglierne la necessità.

Le proprietà del triangolo non sono sue possibilità, bensì necessità: esso, infatti, non è triangolo se non ha certe proprietà, che sono quelle che sono e che devono essere. Così è per tutti gli enti matematici. Così è, in base al geometrismo che domina il pensiero di Spinoza, per ogni cosa.

E’ vero che molte cose ci appaiono possibili o contingenti, cioè ci sembra che potrebbero anche essere diverse da come sono. Questa loro apparente possibilità, però, secondo Spinoza, segnala il limite della nostra conoscenza, non il loro modo di essere: esse cioè ci appaiono possibili, e non necessarie, perché noi ne abbiamo una conoscenza incerta e confusa, inadeguata, cioè non le vediamo nell’insieme ordinato e necessario di cui sono parte.

C’è un solo mondo, con un solo ordine, fatto da un solo Dio.

Spinoza precisa: “Una cosa è detta necessaria, o in rapporto alla sua essenza, o in rapporto alla sua causa. L’esistenza di una cosa, infatti, segue necessariamente o dalla sua essenza e dalla sua definizione o da una causa efficiente data. Una cosa, poi, è detta impossibile per le medesime ragioni, cioè, o perché la sua essenza o definizione implica una contraddizione, o perché non è data nessuna causa esterna che sia determinata in modo da produrre tale cosa. Ma una cosa è detta contingente per nessun’altra causa se non in relazione a un difetto della nostra conoscenza. Una cosa, infatti, della quale ignoriamo che la sua essenza implica una contraddizione, o della quale sappiamo bene che essa non include nessuna contraddizione, senza potere tuttavia affermare nulla di certo sulla sua esistenza perché ignoriamo l’ordine delle cause, una tale cosa non ci può mai sembrare né necessaria né impossibile, e perciò la chiamiamo contingente o possibile”.[3]

Le cose che conosciamo adeguatamente sono necessarie o impossibili.

Il possibile compare solo quando la conoscenza è incerta, inadeguata.

Viene da pensare a Parmenide, l’antico filosofo greco di Elea.

Spinoza è, come Parmenide, filosofo della necessità metafisica.

Ciò che è è necessariamente, ciò che non è è impossibile che sia.

Necessario e impossibile sono gli aggettivi metafisici fondamentali.

Il possibile appartiene all’opinione, non alla scienza.

Il possibile è la spia dell’imperfezione della nostra conoscenza.

Quando il possibile accompagna il nostro agire, per Spinoza significa che non sappiamo che cosa fare e siamo sotto l’azione di cause che non conosciamo.

La conoscenza adeguata ci fa vedere la necessità delle cose di essere così come sono e ci indica quel che dobbiamo fare con necessità razionale.

Se le cose ci sembrano possibili, vuol dire che siamo nella confusione teorica e/o pratica. Le idee chiare e distinte sono di cose necessarie o impossibili.

Niente libera possibilità, come siamo abituati a pensare, ma libera necessità.

Spinoza spiega questo punto centrale del suo pensiero con l’ipotesi della pietra capace di pensare: se esistesse una tal pietra, essa, messa in moto da una causa esterna, si crederebbe libera nel suo movimento.

“E proprio questa – spiega – è la libertà che tutti si vantano di possedere e che consiste unicamente nel fatto che gli uomini sono consapevoli dei loro appetiti, ma ignorano le cause dalle quali sono determinati”.

Sappiamo quel che vogliamo, ma non perché lo vogliamo, così come la pietra in ipotesi saprebbe dove vuole andare, ma non perché.

E’ l’ignoranza a darci l’illusione della libertà intesa come “libero decreto”.

La pietra, che non sa perché vuole andare dove sta andando con necessità, che ignora la causa determinante del suo movimento, pensa il suo movimento come libera possibilità, crede di perseguire un fine di sua scelta.

“Così il neonato – continua Spinoza – crede di desiderare liberamente il latte, e il ragazzo adirato di voler la vendetta e il timido la fuga. Inoltre l’ubriaco crede di dire per libera decisione della sua mente quelle cose che poi, da sobrio, avrebbe voluto tacere. Così chi delira, il fanfarone e molti altri della stessa risma credono di agire per una libera decisione della mente e non già perché spinti dall’impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in tutti gli uomini, non è così facile che se ne liberino. Infatti, benché l’esperienza insegni più che a sufficienza che gli uomini nulla possono controllare meno dei loro appetiti e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono le cose migliori e seguono le peggiori, credono tuttavia di essere liberi, e ciò accade perché desiderano certe cose in modo più debole e il desiderio di queste cose può essere facilmente smorzato dal ricordo di qualche altra cosa che ricordiamo più frequentemente. E con ciò, ho spiegato abbastanza, se non erro, quale sia la mia posizione intorno alla necessità libera, a quella coatta, e alla finzione della liberta umana”.[4]

Fermiamoci su queste conclusioni! Sono l’ABC di Spinoza.

Familiarizzare con questi concetti ci aiuta al passo successivo, a capire che la consapevolezza della necessità del reale e dell’impossibilità di ciò che non è non comporta, per Spinoza, accettazione inerte e fatalistica dell’esistente.

Rendersi conto che l’idea del possibile nasce da una nostra conoscenza inadeguata e alimenta la finzione della libertà umana, non pregiudica l’impegno morale, ma ne è la condizione fondamentale.

Conoscere bene è la condizione per agire bene.

Dopo Parmenide, ecco apparire, alle spalle di Spinoza, Socrate: la virtù è sapere, conoscenza di sé, dell’oggetto dei nostri appetiti e della condizione in cui ci troviamo ad agire.

Un sapere adeguato non è solo la condizione della virtù, ma è già virtù piena.

Al sapere pieno e adeguato arrivano, però, in pochi e dopo un difficile cammino. Per la grande maggioranza dell’umanità e anche per i filosofi non ancora giunti alla comprensione della “necessaria concatenazione delle cause”, ai fini pratici, diventa “meglio, anzi necessario, considerare le cose come possibili”.[5]

Spinoza riabilita così, per questa funzione pratica, il possibile: esso e la conseguente illusione del libero arbitrio, pur nascendo da conoscenza inadeguata, hanno un’importante funzione per la vita morale, per l’organizzazione sociale e politica, per la funzione coercitiva delle leggi e per l’educazione all’obbedienza esercitata dalla religione. Se non si arriva alla necessità razionale, il possibile ne diventa il surrogato.

Come gli Stoici, Spinoza ritiene rara la virtù, ma degli Stoici non condivide l’ascetismo: la virtù non si basa sulla rinuncia, sul sacrificio e sulla mortificazione, ma è realizzazione piena della vita, sotto ogni aspetto.

Ogni ente è, per natura, quindi necessariamente, conatus, cioè sforzo, tendenza alla propria affermazione. L’uomo non fa eccezione. Nell’uomo, però, questo sforzo ha il vantaggio della ragione: gli uomini che curano questo vantaggio affermano bene la loro individualità, in rapporto armonico con la comunità e con le cose; arrivano a quella che Spinoza chiama “vita beata”, all’affermazione gioiosa e serena della vita.

Nel prologo al Trattato sull’emendazione dell’intelletto, uno dei suoi primi lavori, scrive: “Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato come fossero vane e futili tutte quelle cose che capitano così frequentemente nella vita quotidiana; e vedendo che ciò che mi atterriva o che temevo, in sé non aveva niente né di buono né di cattivo se non in quanto l’animo ne veniva scosso, decisi infine di cercare se esistesse qualcosa di veramente buono e che fosse di per sé accessibile, e da cui solo, abbandonati tutti gli altri, l’animo potesse venire affetto; meglio ancora, se esistesse qualcosa che, una volta trovato e acquisito, mi facesse godere in eterno di una continua e somma letizia”.[6]

All’illusione della libertà generata dall’apparire del possibile s’accompagnano beni illusori e mali non reali. Ci vogliono buone leggi e buona religione per orientare bene l’esistenza singola e associata delle masse popolari. Chi, però, abbia raggiunto adeguata conoscenza di ciò che è realmente male e bene, non si trova al bivio delle possibilità, nell’incertezza delle scelte, ma nel rettilineo della libera necessità, nella sicurezza del proprio gioioso dovere.

L’uomo non è gettato in un mondo incomprensibile, ma si trova all’interno di un ordine razionale e, perciò, necessario: il suo problema è rendersi conto di questo, capire la propria posizione nell’ordine delle cose e realizzare in esso la propria singolare, irriducibile, individualità e goderne.

La virtù è affermarsi, diventare se stessi.

Siamo molto lontani dalla problematica pascaliana delle scelte esistenziali e della scommessa. Spinoza non nega l’incertezza e l’angoscia che segnano pesantemente l’esistenza umana, ma le riconduce a difetto di sapere.

Il sapere della libera necessità dissolve le illusioni e le angosce, fa “godere in eterno”, genera la “continua e somma letizia”.

Il filosofo che chiede alla filosofia così tanto, in termini teoretici e morali, vive in Olanda, nello stesso secolo e quasi negli stessi anni di Pascal.

Nasce il 24 novembre del 1632, l’anno del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, ad Amsterdam, da una famiglia ebraica portoghese rifugiatasi di recente in Olanda, paese relativamente tollerante, soprattutto a confronto del resto d’Europa. A sei anni gli muore la madre. Di lui e dei suoi quattro fratelli si occupa il padre. Frequenta la scuola ebraica e studia a fondo la Bibbia e i classici della cultura ebraica. Nel 1649 muore il fratello Isaac e il padre lo chiama a partecipare alla sua attività commerciale, anche se lui avrebbe voluto dedicarsi interamente agli studi. A vent’anni ha un incontro decisivo: conosce Frans van den Enden, un venditore di libri, ma anche medico e attore, latinista e campione del libero pensiero, che aveva fatto di casa sua una scuola. Inizia lo studio del latino e dei classici. Studia la filosofia neoplatonica umanistica e rinascimentale, in particolare quella di Giordano Bruno; si avvicina al pensiero di Bacone, di Cartesio e di Hobbes. Nel 1654 muore il padre lasciando molti debiti. Lui continua l’impresa commerciale col fratello Gabriel. In questa sua attività conosce amici che resteranno legati al lui anche per interesse alla sua filosofia.

Le sue doti intellettuali assolutamente straordinarie gli aprono prospettive d’inserimento ad alto livello nella comunità ebraica di Amsterdam, ma gli fanno anche vedere molte difficoltà nell’ebraismo. Non se le nasconde né si rifugia nell’ipocrisia. Alle sue domande, però, i superiori sono sempre meno in grado di rispondere. Probabilmente si cerca di contenere la sua crescente autonomia culturale con lusinghe e con minacce, cui, però, non si piega.

A ventitré anni, viene denunciato di eresia. Non ha ancora pubblicato nulla ed è pertanto difficile sapere su che cosa si basassero le accuse. Si può, però, pensare che riguardassero questioni poi esposte chiaramente nei suoi scritti: la mortalità dell’anima, la concezione di Dio e l’autorità solo politica di Mosè. Non si pente né si difende pubblicamente. Sembra che abbia scritto un’apologia mai resa pubblica e andata perduta. Probabilmente l’ha scritta più per fissare sulla carta le sue convinzioni che per avvalersene contro le accuse. Non vuole polemiche. Ha bisogno di serenità per i suoi studi.

Il 17 luglio 1656 viene scomunicato con tutte le maledizioni di rito: “Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia egli maledetto quando si corica, e maledetto quando si alza, maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo, né riconoscerlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere, d’ora innanzi quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù d’Israele […] nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; nessuno deve prestargli servizio, né dimorare sotto lo stesso suo tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti, e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno”.

A noi, oggi, è difficile capire la gravità della scomunica. Ci possono impressionare le parole feroci, ma non riusciamo a vederne le terribili e durature conseguenze. Può sembrarci un brutto, orribile momento, ma, appunto, solo un momento. Il peggio viene, invece, dopo, come insegna la tragica vicenda di Uriel da Costa, capitata quando Spinoza era bambino.

Uriel da Costa, anche lui di origini portoghesi, anche lui filosofo, aveva maturato convinzioni in conflitto con la comunità: espulso una prima volta, chiese e ottenne di rientrare, ma poi riprese a praticare le vecchie divergenze; nuovamente e più gravemente espulso, dopo anni d’isolamento, chiese di rientrare e fu sottoposto a un’umiliante cerimonia di penitenza.[7]

Era il 1640. Si può pensare che Spinoza abbia partecipato alla cerimonia.

Poco tempo dopo, Uriel (Gabriel in portoghese) si tolse la vita.

Spinosa deve rompere ogni rapporto con la sua famiglia, di cui è diventato il capo, dopo la morte del padre Miguel, della madre Ana, della matrigna Ester, del fratello Isaac e della sorella Miriam. Deve lasciare l’attività commerciale che pratica in società con il fratello Gabriel. Un fanatico tenta di pugnalarlo.

Espulso dal suo mondo, sceglie un’esistenza “ritirata e solitaria”.

Nel 1657, comincia a occuparsi di lenti e di strumenti ottici, con buoni risultati.

Nel 1661 abbandona Amsterdam e si trasferisce in un piccolo villaggio vicino a Leida. Nel 1663 va a vivere in una cittadina tra Delft e L’Aia.

I suoi bisogni sono molto limitati e può riservarsi del tempo per gli studi e la stesura dei suoi scritti. Conduce una vita appartata, ma non isolata: cura, anche con rapporti epistolari impegnativi, l’amicizia con non poche persone interessate alla filosofia ed entra in contatto con importanti uomini di cultura. Molti cercano la sua amicizia, ma alcuni sono un po’ invadenti e non tutti meritano la sua fiducia: quando, investito da accuse violente di ateismo, avrebbe più bisogno di solidarietà, lo tradiscono.

Nel 1667 muore l’amico Simon de Vries, che lo avrebbe voluto suo erede. Lui, però, l’aveva convinto a lasciare invece l’eredità al fratello. De Vries aveva allora disposto che gli fosse versata una rendita annua di cinquecento fiorini. Spinoza, trovandola eccessiva, se la riduce, convinto che avere più denaro del necessario l’avrebbe distratto dai suoi studi, impegnandolo a curarsene. E’ molto significativa al riguardo una lettera[8] del febbraio 1671: in essa parla di Talete e della sua ingegnosa e molto fruttifera impresa dei frantoi, compiuta per dimostrare ai molti che gli rinfacciavano la povertà che lui era capace di far soldi, ma non ne aveva bisogno.

Nel 1671 va a vivere a L’Aia, sempre in case modeste e in affitto.

Nel 1672, il mite e prudente Spinoza, sdegnato per l’orribile assassinio dei fratelli De Witt, tenta un gesto di folle temerarietà. Leibniz, che nel 1676 va a fargli visita, ci tramanda la vicenda:

“Egli mi ha detto che, il giorno del massacro dei De Witt, si preparava a uscire nel cuore della notte per affiggere vicino al luogo in cui si trovavano gli assassini un manifesto che diceva: ultimi barbarorum [gli ultimi barbari][9]. Ma il suo padrone di casa lo aveva chiuso a chiave per impedirgli di uscire, poiché altrimenti avrebbe rischiato di essere fatto a pezzi”.[10]

Nel 1673 l’Elettore del Palatinato, Carlo Ludovico, fratello di Elisabetta di Boemia, l’amica in filosofia di Cartesio, gli offre la cattedra di filosofia all’Università di Heidelberg. Lui, fedele alla sua scelta di vivere lontano dalle luci della ribalta e per difendere la sua libertà filosofica, la rifiuta.

Muore di tisi, come la madre, il 21 febbraio 1677, a soli quarantaquattro anni.


[1] Lettera 58 a G. H. Schuller, in Baruch Spinoza, Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 2111.

[2] Etica, I, Prop. 33, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 1199

[3] Ib. p.1201.

[4] Lettera 58 a G. H. Schuller, in Baruch Spinoza, Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 2113.

[5] Trattato teologico-politico, 4, 2, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 737.

[6] In Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 111.

[7] Di questa cerimonia abbiamo una descrizione dello stesso Uriel da Costa.

“Entrai nella sinagoga, piena di uomini e donne, tutta gente convenuta per lo spettacolo. Quando fu il momento, salii sul palco di legno che si trova al centro della sinagoga per la predica e gli altri uffici religiosi, e a chiara voce lessi uno scritto composto da loro: confessavo che ero degno di morire mille volte per quanto avevo commesso – la violazione del sabato, il tradimento della parola data, violata fino al punto di dissuadere altri ad abbracciare il giudaismo – che intendevo inoltre, ad espiazione dei miei peccati, obbedire a quanto mi ordinavano e adempiere a ciò che mi era comandato, promettendo per il resto di non ricadere in simili malvagità e misfatti.

A lettura ultimata, scesi dal palco e si avvicinò a me il reverendissimo parnas presidente, che mi sussurrò di spostarmi in un angolo della sinagoga. Mi portai in quell’angolo e il custode mi disse di spogliarmi. Denudai il mio corpo fino alla cintola, cinsi il capo con un fazzoletto di lino, mi tolsi le scarpe e alzai le braccia, tenendo con le mani una sorta di colonna. Si avvicinò il custode e con una fascia legò le mie mani a quella colonna. Compiute queste operazioni, il cantore mi fu accanto: con una sferza di cuoio per trentanove volte percosse i miei fianchi, secondo la tradizione. La Legge prescrive infatti che non si debba superare il numero quaranta, e questi uomini, così superstiziosi (religiosi, nell’originale latino) e osservanti, si guardano bene che non accada loro di sbagliare in eccesso. Mentre mi si percuoteva veniva cantato un salmo.

Terminata la flagellazione, sedetti a terra e si avvicinò il predicatore o hakam (quanto sono ridicole le faccende umane), il quale mi liberò dalla scomunica. A quel punto mi si spalancò quella porta del cielo che prima, serrata da fortissimi catenacci, non permetteva che mi affacciassi all’ingresso ed entrassi. Subito dopo, mi vestii e mi portai fuori, all’entrata della sinagoga. Mi stesi a terra. Il custode teneva sollevato il mio capo. A questo punto, tutti quelli che scendevano le scale per uscire dalla sinagoga, mi scavalcano: alzavano un piede e passavano sopra le mie tibie. Quest’azione fu compiuta da tutti, bambini e vecchi (non ci sono scimmie che possano offrire agli occhi degli uomini azioni più indecenti o gesti più risibili). Ad operazione conclusa, quando non restava più nessuno, mi alzai da terra; ripulito dalla polvere da colui che mi assisteva (nessuno dica che costoro non mi abbiano onorato:mentre infatti mi percuotevano con lo staffile, piangevano e lisciavano il mio capo), mi rifugiai in casa.

Uriel da Costa e l’ Exemplar humanae vitae, di Omero Proietti, Quodlibet ed. 2005, pp.159-161.

[8] Lett. 44, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 2059.

[9] Forse meglio: ultimi tra i barbari.

[10] Mattew Stewart, Il cortigiano e l’eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno, Feltrinelli 2007, p. 111. Segnalo questo bel libro che, incardinato su questa visita, tratta dei complessi e tortuosi rapporti di Leibniz con Spinoza.

Torino 15 ottobre 2012

Giuseppe Bailone

Fonti

www.fogliospinoziano.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015