SPINOZA

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Per chi scrive il filosofo che si è dipinto nei panni di Masaniello?

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Spinoza, giocando con la pittura, si è finto nei panni di Masaniello.

Lo dice il suo biografo Colerus, cui l’ultimo padrone di casa di Spinoza, il pittore Hendrick van der Spyck, fece vedere una cartella di schizzi a carboncino e a inchiostro di Spinoza.

A Colerus, sorpreso di fronte allo schizzo di Masaniello che aveva il volto di Spinoza, Hendrick van der Spyck disse che, in quei panni rivoluzionari, Spinoza intendeva proprio raffigurare se stesso.

Spinoza sapeva benissimo che le sue pagine scritte con rigore geometrico erano esplosive. Non sorprende, quindi, che con la fantasia egli si mettesse nei panni del pescivendolo che nell’estate 1647 guidò un’infuocata rivolta popolare e governò Napoli, il tutto in dieci giorni. Qualche problema, però, si pone se questo schizzo viene accostato alla conclusione della prefazione al Trattato Teologico-Politico.

“Queste cose, lettore filosofo, sono le cose che io sottopongo al tuo esame […] Quanto agli altri non m’interessa raccomandare loro questo trattato, giacché non c’è nulla in esso che io speri possa riuscir loro gradito per qualche motivo; so infatti con quanta pertinacia siano radicati nella mente quei pregiudizi che l’animo ha abbracciato con l’apparenza della pietà; so inoltre che per il volgo è tanto impossibile strappar via la superstizione quanto la paura; so infine che la fermezza del volgo è ostinazione, e che non è guidato dalla ragione, ma trascinato dall’impulso alla lode e al vituperio”.[1]

Spinoza, il filosofo rivoluzionario che s’immagina nei panni di un mitico eroe popolare, scrive per pochi il libro che pone i fondamenti filosofici della sua rivoluzione, del liberalismo e della democrazia.

Non solo, pensa che sia meglio che gli altri, i molti, non lo leggano.

I molti, infatti, si trattengono dal fare il male solo per la forza coercitiva delle leggi e della religione. E il freno religioso dipende dalla fede popolare nei dogmi, molti dei quali “non hanno nemmeno l’ombra della verità”. Se il popolo perde la fede, quel freno vien meno: i dogmi religiosi, infatti, sono degli efficaci sedativi sociali solo “a condizione che colui che li accoglie ignori che sono falsi, altrimenti sarebbe necessariamente un ribelle”.[2]

Rendere pubbliche, a livello popolare, le critiche razionali ai dogmi della religione distanti dalla verità può essere socialmente molto pericoloso.

Per Spinoza la religione vale non in termini di verità, ma di efficacia morale e politica: i dogmi, cioè, come vedremo, per lui sono validi se orientano alla carità e alla giustizia, anche se “non hanno nemmeno l’ombra della verità”.

Lui mira alla rivoluzione, radicale e razionale, e teme le rivolte, tumultuose e controproducenti. Vuol mettere sul collo di Masaniello la propria testa. Vuol fare di un ribelle un rivoluzionario.

Per guidare una rivoluzione bisogna, però, farsi intendere dal popolo, bisogna adeguarsi al suo livello culturale. L’ingegno del volgo, infatti, “non è in grado di percepire le cose in maniera chiara e distinta”.[3]

“Se qualcuno vuole insegnare una dottrina a un’intera nazione, per non dire a tutto il genere umano, e vuol essere inteso da tutti in tutto, è obbligato a provare la cosa che gli sta a cuore con la sola esperienza e ad adattare il più possibile le sue ragioni e le definizioni delle cose che deve insegnare alle capacità del volgo (il quale costituisce la grande maggioranza del genere umano), e non a concatenare quelle cose né a dare le definizioni che servono a concatenarle meglio; altrimenti scriverà soltanto per i dotti e potrà essere inteso soltanto da pochissimi uomini, se confrontati con tutti gli altri”.[4]

L’alternativa è netta: o popolarità o idee chiare e distinte.

La prima strada è quella dei legislatori, di Mosè, dei profeti, dei capi politici, di tutti coloro che, per essere intesi, subordinano il vero al bene, anche a costo di compromettere seriamente il vero.

Spinoza ha scelto per sé la seconda, quella di chi privilegia il vero, nella convinzione che da esso discenda necessariamente il bene. Parla a pochi, ma pone i fondamenti teorici di un buon orientamento morale e della necessaria rivoluzione politica in senso liberale e democratico.

Sceglie di scrivere la teoria per la rivoluzione, non di guidarla.

Forse è questo il senso di quella sua fantasia pittorica su Masaniello.

Non è, pertanto, la puzza sotto il naso a farlo scrivere per pochi. Essa è, infatti, smentita anche dai pochi dati biografici che abbiamo e dal suo idealismo politico.

Un po’ di attenzione al momento storico e al suo motto latino “caute!”[5] ci offre altri elementi per capire l’enigma del filosofo che si immagina nei panni di un eroe popolare, ma scrive per pochi.

Siamo nel 1670. Sono passati quattordici anni dalla scomunica. Da allora, Spinoza vive appartato, quasi invisibile, in piccoli centri. Col suo nome ha pubblicato, in latino, solo gli scritti su Cartesio nel 1663. Da anni lavora alla composizione del Trattato Teologico-Politico. Ha ben chiare le ragioni che lo spingono al lavoro. Lo scrive in una lettera all’amico Oldenburg già nel 1665:

“Sto componendo un trattato sul mio modo di comprendere il senso della Scrittura; a scriverlo mi spingono: 1) i pregiudizi dei teologi; so, infatti, che essi impediscono massimamente che gli uomini possano dedicarsi alla filosofia; mi propongo quindi di svelarli e di rimuoverli dalle menti dei saggi. 2) l’opinione che di me ha il volgo, che non cessa di accusarmi di ateismo: sono dunque costretto a stornare da me anche questa, per quanto mi è possibile. 3) la libertà di filosofare e di dire ciò che pensiamo: che io desidero difendere in tutti i modi possibili e che qui rischia di essere soppressa a causa dell’eccessiva autorità e invadenza dei predicatori”.[6]

Per contenere l’azione negativa dei pregiudizi dei teologi, per difendersi dall’invadenza dei predicatori e dalle accuse popolari di ateismo, sa di dover agire sulle menti dei “saggi”. E’ una strada lunga, perché indiretta, ma Spinoza non pensa di poter cambiar le menti dei teologi, dei predicatori e del popolo: in quelle menti la forza delle passioni non può essere contenuta dalla forza del ragionamento dal rigore geometrico.

Pubblica il Trattato in latino, anonimo e con indicazioni fittizie di editori e di luoghi (Amburgo). Conta su condizioni generali che in quel momento sembrano favorevoli, ma teme il peggio. E questo non si fa attendere: la vendita viene proibita dalle autorità religiose e civili e la circolazione, in verità molto intensa, delle copie clandestine scatena violente polemiche. Dopo quest’esperienza, non pubblica altri scritti, neanche il suo capolavoro, levigato con molta cura. Blocca una traduzione in olandese del Trattato; consegna le sue idee a opere che compariranno postume.

Se, due secoli dopo, Nietzsche si presenta sulla scena filosofica teatralmente come dinamitardo, Spinoza, per difendere le sue idee esplosive, si presenta con estrema cautela.

Il suo atteggiamento è guidato dallo spirito che l’ha sostenuto nella tragedia della scomunica: eroico coraggio, ma lucida coscienza delle forze in gioco e, quindi, rinuncia a ogni polemica pubblica. Egli sa molto bene che ogni scontro pubblico lo potrebbe schiacciare, ma, soprattutto, comprometterebbe la sua serenità, tanto necessaria alla chiarezza e al rigore del suo pensiero, e potrebbe produrre al massimo delle pericolose rivolte, non una rivoluzione.

Consapevole dell’enorme forza delle passioni popolari, soprattutto quando assumano “l’apparenza della pietà”, se ne mette al riparo il più possibile, per cercare di capirle e guadagnare le idee chiare e distinte che possano orientare verso il loro superamento. Vede nella riservatezza la condizione dei suoi studi e l’arma più efficace per cambiare radicalmente le cose.

Il suo rifiuto, tre anni dopo, della cattedra universitaria è molto significativo.

Nel 1673 l’Elettore del Palatinato gli offre la cattedra di filosofia all’università di Heidelberg. Il consigliere Ludovicus Fabritius, che gli comunica l’offerta, con una lettera del 16 febbraio, mette subito in chiaro ciò che Spinoza ha già ben presente. Scrive, infatti, quasi “en passant”: “Avrete ampissima libertà di filosofare, della quale [l’Elettore] crede che non abuserete per turbare la religione pubblicamente stabilita”.[7]

Spinoza risponde, con una lettera del 30 marzo, che merita ampia citazione.

“Se mai avessi desiderato intraprendere una qualche carriera universitaria, avrei potuto scegliere solo questa che, per mezzo Vostro, il Serenissimo Elettore del Palatino mi offre, soprattutto per la libertà di filosofare che il Clementissimo Principe si degna di concedere, per non dire che da tempo avrei desiderato di vivere sotto la sovranità di un Principe del quale tutti ammirano la saggezza. Ma, giacché non ho mai avuto intenzione d’insegnare pubblicamente, non posso indurmi ad approfittare di questa magnifica occasione, per quanto a lungo ci abbia riflettuto. Infatti, penso, in primo luogo, che se dovessi occuparmi dell’istruzione dei giovani, dovrei cessare di promuovere la filosofia. Inoltre penso di non sapere entro quali limiti questa libertà di filosofare debba essere racchiusa, affinché non sembri che io voglia turbare la religione pubblicamente istituita: giacché gli scismi non nascono tanto dall’amore ardente della religione, quanto piuttosto dalla diversità degli affetti umani o dallo spirito di contraddizione che tutto è solito rovinare e condannare, anche se ben detto. E poiché di simili cose ho già fatto esperienza durante la vita ritirata e solitaria che conduco, saranno da temere ancor più dopo che sia asceso a questo grado di dignità. Vedete dunque, Illustrissimo Signore, che la mia riluttanza non dipende dalla speranza in una sorte migliore, ma dal mio amore per la tranquillità che credo di poter in qualche modo ottenere se mi asterrò dall’insegnamento pubblico”.[8]

L’uomo che ha affrontato la scomunica dalla sua comunità minoritaria e perseguitata non può accettare limiti alla sua libertà di ricerca e di pensiero per una cattedra universitaria. Il filosofo che ha maturato idee condannate da tutte le autorità religiose e civili sa di non poterle insegnare pubblicamente.

La sua filosofia della libera necessità teorizza la libertà di pensiero come bene individuale, sociale e dello Stato. I tempi, però, non sono maturi per la pratica pubblica di quella libertà nell’insegnamento. Scrive per l’eternità. Scrive, cioè, per quei lettori che, nel suo tempo, hanno la capacità di sottrarsi alla violenza delle passioni religiose, e per quelli che, nei tempi che verranno, riusciranno a tenere a bada le passioni ideologiche.

Spinoza sa di essere radicalmente rivoluzionario, e non vuole fallire.

Sul suo destino rivoluzionario deve aver meditato a lungo. Deve anche aver molto fantasticato, come rivela la notizia del suo schizzo su Masaniello.

Quante volte avrà riflettuto sull’enorme forza espressa da questo eroe plebeo e sul suo fallimento? Quanto avrà girato il suo pensiero intorno a questo caso esemplare di come un governo, che punta solo sulla paura, sia esposto a esplosioni popolari travolgenti e produca ribelli magnifici per forza ma effimeri per confusione di pensiero. Quante volte avrà fantasticato un Masaniello con la testa di Spinoza per rovesciare l’ordine ottuso del suo tempo?

Ma, il tempo di Masaniello-Spinoza non è ancora venuto: lui deve ancora levigare bene, come nel suo lavoro manuale delle lenti, le nuove rivoluzionarie idee e non esporle a prova popolare prematura.

Il tempo gli ha dato ragione: i rivoluzionari del Settecento hanno trovato in lui un precursore straordinariamente profondo e chiaro.

Per salvare le sue idee, frutto del suo controllo delle passioni e della sua serenità, lui deve rinunciare al loro insegnamento pubblico. Il libero “uso pubblico della ragione”, teorizzato da Kant oltre un secolo dopo, non è ancora possibile, neppure nella liberale Olanda. Non a caso, saranno gli Illuministi a fare del suo pensiero quell’insegnamento pubblico che lui, per salvare la sua rivoluzione, ha dovuto negarsi.


[1] Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, prefazione, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, pp. 649-651.

[2] Ib. 14, 8, p. 977.

[3] Ib. 5, 16, p. 777.

[4] Ib. 5, 14, p. 775.

[5] Prudenza!

[6] Lettera 30, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 1983.

[7] Lettera 47, p. 2065.

[8] Lettera 48, p. 2067.

Torino 20 ottobre 2012

Giuseppe Bailone

Fonti

www.fogliospinoziano.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015