Spinoza: religione e superstizione

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Spinoza: religione e superstizione

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La rivelazione profetica si adatta alla cultura dei profeti e del volgo cui parla il profeta, è rivelazione divina adattata agli uomini.

La superstizione è, invece, prodotto interamente umano, frutto dei limiti culturali degli uomini. E’ il contrario della filosofia.

Si arriva, infatti, al vero filosofico superando i limiti particolari, liberando la ragione dalle passioni e aprendola alla rivelazione divina comune, universale: la superstizione s’insedia, invece, proprio nei limiti e nelle particolarità culturali da cui si libera la filosofia.

La religione sembra stare in mezzo, per educare al bene i molti che non sanno arrivarci con la ragione e sono schiavi delle passioni.

“Se gli uomini potessero dirigere tutte le loro cose con sagge e ferme decisioni, oppure se la fortuna fosse loro sempre favorevole, non sarebbero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché spesso si trovano in difficoltà tali che non sanno prendere alcuna decisione, e poiché di solito, a causa degli incerti beni della fortuna che essi desiderano smoderatamente, fluttuano miseramente tra la speranza e il timore, il loro animo è quanto mai incline a credere qualsiasi cosa: quando è preso dal dubbio, esso è facilmente sospinto ora qua ora là, e tanto più quando esita agitato dalla speranza e dalla paura, mentre nei momenti di fiducia è pieno di vanità e presunzione”.[1]

Spinoza pensa di dire delle cose ovvie. Infatti, continua:

“Credo che nessuno ignori queste cose, benché io sia convinto che la maggior parte degli uomini non conoscono se stessi. Chiunque sia vissuto tra gli uomini, infatti, non può non aver osservato che la maggior parte di loro, nelle circostanze favorevoli, ancorché ignorantissimi, sono così stracolmi di sapienza da ritenersi offesi se qualcuno voglia dar loro consigli; mentre nelle avversità non sanno da che parte voltarsi e implorano consiglio dal primo che capita, e non c’è consiglio così insulso, così assurdo o inutile ch’essi non seguano; poi, anche per i motivi più insignificanti, tornano a sperare il meglio e, di nuovo, a temere il peggio; se infatti, mentre sono in preda alla paura, vedono accadere qualcosa che fa loro ricordare qualche bene o male passato, ritengono che ciò annunci un evento favorevole o sfavorevole, e perciò, sebbene per cento volte si riveli inefficace, lo chiamano buono o cattivo presagio. Se, poi, con grande meraviglia vedono qualcosa d’insolito, lo credono un prodigio che mostra l’ira degli dei o della suprema divinità, prodigio che perciò essi – uomini schiavi della superstizione e contrari alla religione – ritengono empio non placare con offerte e preghiere; e a questo modo fingono un’infinità di cose e, quasi che tutta la natura impazzisse insieme a loro, la interpretano in maniera meravigliosa”.

Gli uomini, “specialmente quando si trovano in pericolo e non sono in grado di soccorrere se stessi, implorano con preghiere e lacrime da donnicciola l’aiuto divino, e chiamano cieca la ragione (perché non sa mostrare la via per raggiungere le cose vane che essi desiderano) e vana l’umana sapienza; invece i deliri della loro immaginazione, i loro sogni e le loro puerili sciocchezze li credono responsi divini, anzi credono che Dio sia avverso ai sapienti e che abbia scritto i suoi decreti non nella mente, ma nelle viscere degli animali, o che gli stolti, i folli e gli uccelli li annunzino per effetto dell’ispirazione divina e per istinto. Fino a tal punto il timore fa impazzire gli uomini! La paura, dunque, è la causa che dà origine, mantiene e favorisce la superstizione. […] Da questa causa della superstizione segue dunque che tutti gli uomini sono ad essa soggetti per natura (checché ne dicano coloro secondo i quali ciò dipenderebbe dal fatto che tutti i mortali hanno una qualche idea confusa della divinità); segue inoltre che essa deve essere oltremodo varia e instabile come tutte le stravaganze della mente e gli impeti della follia, e, infine, che è sostenuta con la speranza, l’odio, l’ira e l’inganno. Nessuna meraviglia, poiché la superstizione ha origine non dalla ragione, ma soltanto da un affetto, per di più efficacissimo. Quanto è facile, perciò, che gli uomini siano presi da qualsivoglia genere di superstizione, altrettanto difficile è fare in modo che essi persistano in un unico e medesimo genere. Al contrario, poiché il volgo rimane sempre in uno stato di miseria, proprio per questo non sta mai a lungo in quiete, ma gli piace soprattutto ciò ch’è nuovo e non l’ha ancora deluso”.[2]

Se la superstizione ha effetti devastanti, la libertà di pensiero e d’espressione è invece salutare per lo Stato e anche per la religione. Si tratta però di un bene molto raro. Spinoza sa bene di avere “questo raro privilegio, di vivere in una Repubblica dove è consentita a ognuno piena libertà di giudizio e la facoltà di rendere il culto a Dio secondo le proprie convinzioni, e dove niente è stimato più caro e piacevole della libertà”.[3]

Liberare la religione dalle molte superstizioni che la devastano è molto difficile. Si deve, infatti, fare i conti non solo con i limiti culturali del volgo, ma anche con la brama di potere dei capi religiosi e con il culto popolare dei capi.

Come si spiega, infatti, che nel cristianesimo il primitivo messaggio d’amore sia degenerato al punto da scatenare guerre civili?

“Cercando la causa di questo male, non ho avuto dubbi – scrive Spinoza – che esso derivasse dal fatto che per il volgo la religione è consistita nel considerare i ministeri della Chiesa dignità e i suoi doveri privilegi, nonché nel rendere i massimi onori ai pastori. Infatti, non appena incominciò nella Chiesa quest’abuso, subito una grande bramosia di amministrare i sacri uffici s’impossessò dei peggiori e lo zelo di diffondere la divina religione degenerò in una sordida avidità e nell’ambizione, e lo stesso tempio degenerò in un teatro dove venivano ascoltati non dottori della Chiesa, ma oratori, il cui proposito non era d’istruire il popolo, bensì di condurlo all’ammirazione nei loro confronti, di denigrare pubblicamente gli avversari e d’insegnare soltanto cose nuove e insolite, che suscitassero la più grande ammirazione da parte del volgo; da tutto questo, evidentemente, non potevano sorgere che grandi contese, invidie e odio”.[4]

I limiti culturali del volgo e le ambizioni dei capi corrompono la religione.

“Vediamo, dico, che i teologi si sono per lo più dati da fare per trovare il modo di estorcere alle Sacre Lettere e di accreditare con l’autorità divina le loro invenzioni e le loro opinioni, e che in nessuna cosa essi agiscono con minor scrupolo e con maggiore avventatezza quanto nell’interpretazione della Scrittura, cioè del pensiero dello Spirito Santo; e se nel far ciò sono presi da qualche preoccupazione, questa non è il timore di attribuire allo Spirito Santo qualche errore e di deviare dalla via della salvezza, ma di essere colti in errore dagli altri, sicché la loro autorità sia da essi calpestata e disprezzata”.[5]

La religione è appesantita dalla superstizione, la scienza è la cura radicale della superstizione, ma gravi forze la ostacolano.

“Chiunque cerca le cause vere dei prodigi e si preoccupa di conoscere da scienziato le cose naturali e non di ammirarle da sciocco, è ritenuto generalmente eretico ed empio, ed è proclamato tale da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli Dei. Essi sanno, infatti, che distrutta l’ignoranza, o meglio la stupidità, è distrutto anche lo stupore, cioè l’unico loro mezzo di argomentare e di salvaguardare la loro autorità”.[6]

La superstizione può essere estirpata solo vincendo le passioni popolari, la paura e la speranza, che la alimentano. Non solo: c’è da vincere anche la passione del potere dei capi religiosi.

Compito arduo, che Spinoza impone a se stesso e sembra concepire solo come pratica individuale, non certo di massa.

Per educare il volgo alla religione libera dalle superstizioni ci vuole l’uso pubblico e libero della ragione, che Spinoza ritiene non ancora praticabile, come dice chiaramente nella lettera di rinuncia alla cattedra universitaria. Non solo: anche la pratica ristretta a pochi della filosofia è ostacolata. Infatti, i pregiudizi dei teologi – scrive a Oldenburg – “impediscono massimamente che gli uomini possano dedicarsi alla filosofia”.[7]

La distruzione della superstizione, che ha la forza delle passioni umane, è pertanto un fine molto lontano, quasi irraggiungibile.

Se, però, le masse popolari mai si liberassero dalle passioni e la superstizione perdesse così il suo brodo di cultura, che cosa resterebbe delle religioni storiche? Le masse avrebbero ancora bisogno della religione che le educasse all’obbedienza?

Ha, infatti, scritto Spinoza: “Ora, se gli uomini fossero formati dalla natura in modo tale da non desiderare nient’altro se non ciò che indica la vera ragione, la società non avrebbe affatto bisogno di leggi, ma in assoluto sarebbe sufficiente impartire agli uomini i veri insegnamenti morali perché facessero spontaneamente, con animo puro e libero, ciò che è veramente utile”.[8]

Se così fosse stato, lo Stato non sarebbe mai nato. Quindi, se gli uomini, in massa, si liberassero delle passioni, lo Stato e, insieme le religioni, potrebbero deperire in ragione inversamente proporzionale a quel processo di liberazione.

Estinzione dello Stato? Non è forse, almeno implicitamente, il fine e il risultato ultimo del processo di perfezionamento morale dell’umanità?  

Quando gli uomini raggiungessero il livello della “libera necessità” razionale, uscendo totalmente dalla schiavitù delle passioni, non avrebbero più alcun senso lo Stato, la forza coercitiva delle sue leggi e neppure la forza educativa della religione.

Il trionfo universale della filosofia!

L’utopia di Spinoza?

Torino 3 dicembre 2012


[1] Trattato teologico-politico, in Tutte le opere, Bompiani 2010, p. 635. Queste sono le prime righe della prefazione.

[2] Ib. pp. 635-639.

[3] Ib. p. 639.

[4] Ib. p. 641.

[5] Ib. p. 815.

[6] Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, I, appendice, in Tutte le opere, p. 1213.

[7] Lett. 30, p. 1983.

[8] Trattato teologico-politico, 5, 8, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, pp. 767.


Giuseppe Bailone

Fonti

www.fogliospinoziano.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015