STORIA ROMANA


La leggenda dell'infelice Elissa:
una contaminazione a più voci per un mito d'origine fenicia

Bambona romana snodabile (Museo Nazionale Romano, Roma)

La genesi dei personaggi del mito si realizza in un tempo identificabile con approssimazione, per molti di loro non si azzarda neppure l'attribuzione di una ipotetica cronologia d'origine, e le vicende che li vedono protagonisti si amplificano nel corso dei secoli, offrendo spesso versioni discordanti. Capita addirittura che un personaggio abbia facoltà di lagnarsi contro le presunte menzogne di un poeta, simulatore di comportamenti non confacenti all'autentico mitologema.

La bionda Didone deve certamente la propria fama alla sublime arte di Virgilio, che ha dedicato alla regina cartaginese il IV libro dell'Eneide e numerosi altri versi del poema; tuttavia la fisionomia dell'eroina ha subito, ad opera della geniale inventiva artistica, una trasformazione radicale lesiva di una proverbiale pudicizia. Contro l'invidiosa Musa virgiliana si scaglia pertanto il risentimento di Didone; ne è portavoce Ausonio, che latinizza un testo greco: "Invida cur in me stimulasti Musa Maronem / fingeret ut nostrae damna pudicitiae?"

La storia della fenicia Elissa/Didone, fuggita da Tiro, dopo che il fratello Pigmalione le ha ucciso il marito, si lega alla leggenda di fondazione di Cartagine.

Un'antica etimologia - Didone significherebbe "donna virile" - attribuisce peraltro al nome dell'eroina una valenza combattiva ben confacente a colei che, profuga in terra straniera, ha ottenuto dagli indigeni il permesso di occupare una porzione di terreno equivalente alla superficie delimitabile mediante una pelle di bue. Agendo d'astuzia, l'intraprendente colonizzatrice taglia la pelle in sottili strisce che le consentono di contrassegnare un perimetro bastevole per la costruzione della nuova città: la punica Byrsa, ovvero "pelle di bue".

Corteggiata da molti sovrani africani, per resistere alle insistenti profferte di Iarba e non venire meno alla fedeltà nei confronti del marito defunto, la regina si suicida e, secondo lo storico Giustino, diviene pertanto una delle divinità del pantheon cartaginese. Molti dettagli cultuali, pertinenti alla religione fenicia, appartengono infatti alla leggenda tradizionale: il tabù che vieta le seconde nozze per le vedove e lo stesso suicidio rituale, perpetrato mediante il fuoco, quasi una pratica purificatoria a sostegno dei ritmi stagionali di fecondazione della terra.

Il poema di Virgilio, celebrativo dell'impero di Ottaviano Augusto e della conseguente grandezza di Roma, opera in senso divergente rispetto alla leggenda che suffraga la divinizzazione della casta Elissa e ciò non stupisce, perché l'incursione nelle tradizioni culturali di un popolo nemico, duramente combattuto e infine sottomesso a prezzo di secolari sacrifici, fa parte di un'operazione politica assai sofisticata, ma non inusuale.

Il patto di fedeltà coniugale perdurante oltre la morte, appannaggio di una virtuosa donna cartaginese, cede al cospetto della magnanimità di un eroe progenitore di quella gens Iulia, da cui l'imperatore stesso discende.

Virgilio elabora ogni dettaglio del carattere di Didone, esasperandone le valenze umane e donandole una affettività disperata e totalizzante: il personaggio commuove e risulta essere indimenticabile, eppure la sua configurazione originaria appare usurpata.

La fama di pudicizia che inorgogliva la regina "elevandola fino alle stelle" (Eneide, IV, 322), vero e proprio connotato divino, lascia il posto a comportamenti furiosi confacenti ad una baccante, allorché la donna scopre il "tradimento" dell'amante, in procinto di partire. "Saevit inops animi totamque incensa per urbem / bacchatur [...]" (Eneide, IV, 300-301): questo aggirarsi fuori di senno, per la città, si correla al tormento amoroso che le ha dilaniato l'animo tra penosi conflitti prima della unione fatale.

Nella tormentata sequenza dedicata alla rivelazione dell'innamoramento, il paragone con la cerva ferita da una freccia, l'ha infatti assimilata ad un animale indifeso e braccato: "Uritur infelix Dido totaque vagatur / urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta" (Eneide, IV, 68-69).

Il lessico della passione ruota attorno ai campi semantici del fuoco bruciante (uritur/incensa), che prefigura il suicidio conclusivo, e del furor (bacchatur/furens), che trasporta sul piano infero lo statuto di una eroina originariamente destinata alla dimensione siderea.

Tuttavia, pur nel capovolgimento del mito, è accaduta una sorta di compensazione: la Didone virgiliana ha suscitato, nel corso dei secoli, una sorta di trasporto empatico da parte di molti poeti, del quale l'altra Didone, protagonista della leggenda punica, non sarebbe stata probabilmente mai capace.

S. Agostino si commuove, mentre legge la sventurata sorte di Elissa (cfr. Confessioni, XIII), benché a posteriori condanni l'umana debolezza che induce il lettore a dedicare troppa commiserazione alla finzione letteraria e poca verso le proprie peccaminose miserie.

Giacomo Leopardi, invaghito dalla intensità affettiva della regina, prova addirittura una sorta di avversione nei confronti dell'eroe troiano: "ma Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione parla così coperto, anzi dissimulato, (dico della passione, e non di ciò che ne segue d'inonesto a descrivere, nel che giustamente egli è copertissimo anche rispetto a Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone"(Zibaldone).

Il mitologema di Elissa modifica nel corso dei secoli il proprio tema di fondo, acquisendo sfumature interpretative consone soprattutto alla sensibilità individuale, di segno ben diverso a paragone della funzione etica o sociale che punici e latini variamente gli attribuivano.

"Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto; / Replica il mio le care tue fattezze; / Nulla contengono di più i nostri occhi / E, disperato, il nostro amore effimero / Eterno freme in vele d'un indugio" (La terra promessa, VIII). Per Giuseppe Ungaretti, Didone è simbolo della memoria, di tutto ciò che è incancellabile, in quanto accaduto, perché l'assenza, sottolineando il distacco, mette in gioco la facoltà di rivivere incessantemente l'intensità delle emozioni: "est une poétique de l'absence, elle est dans ce sens une poétique de la mémoire". E dunque le "vele d'un indugio" valgono a dilatare a dismisura anche gli attimi più brevi, giacché, come insegna lo stesso S. Agostino, non v'è oggettiva corrispondenza tra tempo interiore e tempo fisico.

Poetica dell'assenza e poetica della memoria stabiliscono la circolare connessione interpretativa che rinnova ad ogni lettura la scoperta dell'identità mitica: Didone rappresenta una sorta di alter ego simbolico non solo per Ungaretti, ma per quanti, accostandosi all'invenzione virgiliana, si sono rispecchiati in lei.

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Fabia Zanasi

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014