LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La nascita della democrazia politica borghese


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LE VICENDE LEGATE ALLA COSTITUZIONE CIVILE DEL CLERO

Clero e nobiltà opprimono il Terzo Stato
Clero e nobiltà opprimono il Terzo Stato

Poco tempo dopo la soppressione degli ordini religiosi, a conferma che il governo rivoluzionario era intenzionato a servirsi della religione come prima se ne serviva l'ancien régime, cioè per confermare il sistema politico vigente, si obbligarono tutti i preti a leggere e commentare dai pulpiti delle loro chiese le decisioni della Costituente. Cosa che venne fatta, a dire il vero, senza troppe difficoltà. Anzi, nel Midi il problema che il governo doveva affrontare era l'opposto, ovvero quello di come impedire ai preti cattolici di considerarsi gli unici autorizzati a svolgere tale propaganda. L'Assemblea infatti si era già espressa a favore della libertà di culto e cercava di non discriminare ugonotti ed ebrei.

Conformemente allo spirito democratico della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e alle molte misure politico-giuridiche prese dall'Assemblea, si approvò nell'estate del '90 l'importantissima Costituzione civile del clero, con la quale, in aperta violazione del Concordato del 1516:

In sostanza i vescovi dovevano ricevere l'istituzione canonica dal metropolita del loro dipartimento (se il metropolita mancava era sufficiente il vescovo più anziano, se era contrario si poteva ricorrere a due notai). Al papa si riconosceva il semplice diritto d’essere informato della nuova elezione. I vescovi erano altresì obbligati a risiedere in diocesi e i loro atti diventavano legittimi solo se suffragati dal consenso del consiglio episcopale, ordinario e permanente, formato dai rappresentanti dei parroci (quest'ultimi potevano scegliere i loro vicari sulla base di una lista ammessa dal vescovo).

Come si può notare, il tentativo era quello di democratizzare la vita della chiesa cattolica, prendendo come modelli ampi aspetti delle confessioni protestante, anglicana e ortodossa. In ciò vi era pure l'ambizione di riportare il cattolicesimo francese alle origini del cristianesimo, cioè al tempo in cui la vita religiosa ruotava attorno alla figura del vescovo, la cui credibilità e legittimità dipendeva sempre e comunque ex consensu ecclesiae, mentre a livello nazionale il metropolita svolgeva funzioni di indirizzo e coordinamento, senza pretendere alcun riconoscimento giurisdizionale particolare. Una strutturazione ecclesiastica assai somigliante a quella ortodossa est europea, che certo molto più della cattolica era rimasta legata all'ideale di cristianità dei Padri. Spinte insomma da idee gianseniste (cioè antipapali), da idee presbiteriane (cioè antiepiscopali) e da idee richeriste, tendenti a porre il potere ecclesiastico sotto il controllo di quello politico, le forze gallicane - rappresentate da avvocati e giuristi di fama, come Treilhard, Lanjuinais, Martineau, Durand de Maillane - cercarono di superare il Concordato del 1516, prospettando una chiesa nazionale indipendente da Roma e altrettanto vincolata allo Stato francese.

L'Assemblea nazionale promulgò la Costituzione dopo aver ascoltato il rapporto del comitato ecclesiastico, ma quest'ultimo forse non avrebbe approvato il progetto così in fretta se l'Assemblea stessa, in un secondo momento, non l'avesse costretto ad accettare una quindicina di riformatori convinti. L'art. su cui il dissenso era molto forte riguardava appunto quello del conferimento delle cariche. L'alto clero, ritenendosi un corpo politico, non voleva perdere i suoi legami internazionali con lo Stato pontificio, soprattutto in considerazione del fatto ch'esso, nella sua grande maggioranza, s'era piegato alle esigenze della rivoluzione più che altro per necessità e quieto vivere.

Guidati da Boisgelin, arcivescovo d'Aix, 30 dei 32 vescovi deputati all'Assemblea (i dissenzienti erano Talleyrand e Gobel), decisero di pubblicare una Esposizione dei principi sulla Costituzione civile del clero, in cui protestavano contro una modifica dello statuto della chiesa cattolica, avvenuta senza negoziato con il papato o per lo meno senza la possibilità di convocare i sinodi provinciali, se non addirittura un concilio nazionale. Dopo qualche settimana i vescovi firmatari erano diventati 93. Il polemista Barruel aveva consigliato, ma invano, un compromesso: che il papa potesse delegare ai metropoliti il diritto di confermare i vescovi. Questo per lui significava «battezzare» la Costituzione del clero.

La rivendicazione dell'episcopato a una piena autonomia disciplinare era senz'altro giustificata, anche perché esso aveva esplicitamente dichiarato che l'opposizione alla grande riforma non implicava quella alla rivoluzione. Ma la Costituente, limitata da scelte di natura «classista», in quanto prevalentemente composta da ceti borghesi, non voleva sentir parlare di concilio nazionale. In gioco non era soltanto l'esigenza del governo di controllare gli effetti politici di determinate decisioni innovative prese in materia di religione, ma anche l'esigenza di indirizzare tali decisioni verso un certo modo di concepire e vivere la religione.

In altre parole, l'Assemblea rifiutò l'idea di convocare un concilio non solo perché temeva che questo venisse strumentalizzato per fini eversivi e destabilizzanti (il che però non giustificava il rifiuto), ma anche perché voleva essere sicura che i cattolici fossero dalla sua parte, anche a costo d'intromettersi nella loro vita ecclesiale (il che, come noto, crea sempre effetti opposti a quelli desiderati). La Costituzione del clero - dirà J. Jaurès - «laicizzava la chiesa stessa» e mai l'Assemblea avrebbe permesso che il clero si ricostituisse come ordine. La convinzione che l'ideale democratico-religioso fosse giusto appariva come un motivo sufficiente per imporlo, senza compromesso alcuno, anche a chi la pensava in modo completamente diverso.

Sperare poi che il pontefice approvasse una riforma del genere pare troppo assurdo per credere che fosse davvero questa l'intenzione dei costituenti. Pio VI aveva già condannato, seppure ufficiosamente, sia la proibizione dei voti monastici che la Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Il governo aveva in realtà bisogno di un pretesto per giustificare la necessità di una dittatura democratico-borghese, sul modello, già collaudato, della monarchia inglese che, ai tempi dei Tudor, si era servita della mancata ratifica papale al divorzio di Enrico VIII da Caterina d'Aragona per imporre a Roma lo scisma. L'esigenza di una dittatura borghese dipendeva appunto dal fatto che il popolo, e cioè i contadini, gli operai, gli artigiani e i piccoli proprietari, già rimasto deluso dalla natura antidemocratica di talune risoluzioni della Costituente (negli anni 1789-91 l'Assemblea approvò anche delle leggi per reprimere gli scioperi e le rivolte popolari - vedi quella Le Chapelier), tendeva ad appoggiare con minor entusiasmo il governo al potere.

Di fronte al temporeggiare calcolato del papa, che si era limitato a «brevi» indirizzati al re e ai prelati contro la Costituzione civile, in quanto sperava che la monarchia riprendesse le redini del paese o che fosse comunque una grande maggioranza del clero a chiedergli d'intervenire pubblicamente (a ciò va aggiunta la paura di ripetere, mutatis mutandis, la rottura anglicana e di perdere Avignone e il contado Venassino, i cui cittadini reclamavano l'annessione alla Francia) - di fronte dunque a questo atteggiamento, l'Assemblea, esasperata dalla resistenza che avvertiva da parte del clero più conservatore, pretese, aggiungendo errore a errore, l'applicazione per legge della Costituzione del clero, cui il re, forzatamente, aveva dato il consenso. E siccome le proteste non mancarono (a Nimes 300 morti in sanguinosi incidenti!), essa impose a tutti gli ecclesiastici funzionari un giuramento di fedeltà alla nazione, al re e alla legge, pena l'interdizione dagli uffici o la privazione dello stipendio (nel senso cioè che quanti vi si fossero opposti sarebbero stati sostituiti e nel peggiore dei casi considerati dei sovversivi). Anche Talleyrand, nelle sue Memorie, ammise il grave errore politico di questa decisione.

Il risultato fu assai deludente per i rivoluzionari: i 2/3 degli ecclesiastici deputati alla Costituente, tutti i vescovi, eccetto sette (fra questi Talleyrand e Loménie de Brienne), nonché la metà del clero parrocchiale rifiutarono di prestare il giuramento. Come mai solo la metà dei sacerdoti lo spiega il Dansette, sottolineando che «le eccessive preoccupazioni terrene, l'abbandono delle virtù cristiane, tolsero ogni valore esemplare all'opposizione dell'episcopato»: il basso clero, specie quello urbano, si sentì di agire diversamente.

Lo scisma tuttavia era scoppiato e la guerra civile per motivi religiosi era alle porte. Ora i partiti cattolici su posizioni contrapposte erano due: quello costituzionale (o giurato) e quello refrattario. Con quest'ultimo la storiografia marxista non è mai stata molto tenera, ma qui bisogna fare dei distinguo. Che i refrattari, ancora prima della Costituzione civile, avessero tenuto, nel complesso, un comportamento ambiguo, benché non dichiaratamente ostile, nei confronti della rivoluzione, è fuor di dubbio. Ed è altresì pacifico che la loro decisione di rifiutare la riforma democratica della chiesa esprimeva una tendenza conservatrice di tipo «integralistico», cioè di dominio politico della religione - checché ne pensi la storiografia cattolica, per la quale «se tra i costituzionali ci furono dei buoni preti, nel campo refrattario furono tutti eccellenti» (come dice Rops. Da noi Vittorio Messori ha avuto il coraggio di parlare di «farsa della Bastiglia», di rivoluzione come di «un mix di ridicolo e di orrore», paragonando «il popolo vero» al «popolo della controrivoluzione»!).

Però è anche vero che il modo in cui il governo cercò di varare la riforma non poteva favorire il consenso di quei cittadini-cattolici ancora incerti sulla gestione rivoluzionaria dell'89. I quali, proprio per questo, avrebbero facilmente potuto porre delle obiezioni sulle questioni non tanto di merito quanto di metodo. Certo, non nel senso che potevano avanzare delle motivazioni per respingere lo strumento in sé di una Costituzione «civile» del clero (tale sensibilità allora mancava), ma nel senso che potevano rifiutare che una riforma così radicale della chiesa avvenisse senza una preventiva consultazione della base.

Come noto, il legislatore costituzionale si difese da queste accuse sostenendo che il testo, essendo appunto «civile», non aveva carattere «antidogmatico». In teoria era senz'altro così, di fatto però la modifica dell'istituzione canonica del clero contraddiceva a norme amministrative fondamentali della chiesa romana, acquisite da secoli, sebbene si potessero trovare ampie e documentate conferme nella tradizione dei Padri, nella chiesa ortodossa1 e negli stessi paesi della Riforma. Il neo-eletto vescovo A. Lamourette scrisse che «l'essere chiamati dai suffragi del popolo, come nei primi tempi del cristianesimo, a esercitare il sacro ministero... era cosa onorevole e vantaggiosa per un pastore della chiesa». L'Assemblea in sostanza, se poteva aver ragione a livello ideologico (compatibilmente alle esigenze e alle possibilità di quei tempi), aveva però torto a livello politico; e il fatto che i refrattari fruissero di così vasti appoggi popolari, stava appunto a dimostrare che la direzione «classista» della rivoluzione non rispondeva in modo adeguato agli interessi delle masse.

L'Assemblea chiese al clero il giuramento di fedeltà il 27 novembre 1790. I primi vescovi a farlo furono Grégoire, Talleyrand e Gobel. Molti parroci refrattari cominciarono ad essere sostituiti da vicari in cerca di parrocchia, da ex-religiosi, da seminaristi giovanissimi o da vecchi preti che, disposti a giurare, venivano eletti col suffragio popolare. La chiesa giurata prese così a organizzarsi, pur fra mille difficoltà e resistenze, che misero a disagio un'Assemblea incerta sul da farsi. A giurare fu quasi il 60% di coloro che erano tenuti a farlo: a Parigi fu la stragrande maggioranza. Talleyrand, per togliere alla curia romana il pretesto di accusare il clero costituzionale d'esser caduto nell'eresia presbiteriana (che affida al consiglio dei preti l'amministrazione di tutta la chiesa), decise di consacrare due vescovi. Gobel, divenuto arcivescovo di Parigi, lo imita ordinandone altri 36. La rapidità di queste sostituzioni si spiega anche con la bassa considerazione in cui il gallicanesimo teneva il papato.

È solo a questo punto che Pio VI rende pubblica la sua condanna della Costituzione civile del clero. Prima di farlo, naturalmente, chiede ai vescovi refrattari di avanzare una formale richiesta d'intervento, affinché dimostrino la loro subordinazione alla Santa sede. E così con il breve Caritas interdice ai vescovi di nuova nomina l'esercizio del ministero e minaccia di scomunica tutti i preti costituzionali che non avessero ritrattato il giuramento entro 40 giorni. Poi con il breve Quod aliquantum attacca direttamente la Costituzione del clero, facendo il punto sull'opinione della chiesa ufficiale in merito a tutta l'esperienza rivoluzionaria francese.

Senza alcuna possibilità di appello («dall'inizio alla fine - sono le sue parole testuali - non vi si trova nulla che non sia pericoloso e condannabile»), il pontefice rifiuta praticamente tutto: la libertà di religione, l'uguaglianza degli uomini, l'abolizione della primazia e giurisdizione della Santa sede, il potere dei sinodi locali sui vescovi, lo stipendio statale per il clero, l'esproprio dei beni, la soppressione degli ordini e dei voti. Non accetta neppure il potere dell'Assemblea sui vescovi, asserendo che lo scopo della rivoluzione era quello di «annientare la religione cattolica e con essa l'obbedienza dovuta ai re» (in realtà la Costituzione del clero toccava solo un aspetto veramente spinoso per i cattolici francesi: il primato del papa. Che poi questo principio sia stato usato dai conservatori per motivazioni tutt'altro che ideali, questo è un altro discorso).

Pio VI paragona inoltre l'Assemblea ai valdesi, ai begardi, ai seguaci di Wycliffe, a Lutero e Calvino, a Marsilio da Padova e Jean de Jandun, ovvero ai «peggiori» eretici e scismatici degli ultimi secoli. Naturalmente conferma in toto il Concordato del 1516, anche se, in via diplomatica, per non rompere i rapporti con la monarchia, afferma di condividere «alcune cose» del nuovo regime stabilitosi in Francia. Di fatto però egli rivolgerà insistenti appelli alle potenze cattoliche europee nonché a Caterina II di Russia e a Giorgio III d'Inghilterra perché venissero in aiuto del re francese contro i suoi stessi sudditi e perché alla Santa sede venissero restituiti Avignone e il contado Venassino.

Ora, chiunque si rende conto che in tali condizioni dialogo proprio non poteva esserci, né poteva esistere per la chiesa gallicana (giurata o refrattaria qui non importa) la possibilità di rivedere anche uno solo degli articoli del Concordato del 1516. La lezione della Germania, dell'Inghilterra e di tutti gli altri Paesi protestanti era sufficiente per impedire qualunque trattativa, per cui la posizione del pontefice si poteva riassumere in questa paternalistica offerta: «per calmare e moderare il Terzo stato, abbiamo ordinato di sospendere l'esazione delle tasse». Ma subito dopo egli precisa, risentito: «Questa nostra generosità è stata ripagata dall'ingratitudine».

Al di fuori di questo «breve», il papa, per bocca del segretario di stato, card. Zelada, rifiutò anche l'idea dell'arcivescovo refrattario moderato, Boisgelin, di attribuire ad un concilio della chiesa gallicana il diritto di giudicare sul conferimento o ritiro dell'istituzione canonica. Col che egli dimostrava di non avere alcuna intenzione di avallare le classiche tesi del gallicanesimo, secondo cui l'ultima vera istanza della chiesa risiede nel concilio ecumenico, mentre la giurisdizione spirituale e pastorale dei vescovi proviene direttamente da Cristo e non dal papa.

Dal canto suo l'Assemblea, invece di far leva, adeguando il proprio comportamento, sugli ideali di uguaglianza e di giustizia che il basso clero e il laicato cattolico manifestavano, invitandoli, senza forzarne la volontà, a rendersi consapevoli che il pontefice e tutta la curia romana avevano attaccato non solo la Costituzione del clero ma anche la Dichiarazione dei diritti umani; invece di approfittare di questa mossa sbagliata della Santa sede prospettando l'ipotesi di poter indire un concilio nazionale per discutere la ratifica della Costituzione, preferisce decretare, incurante delle proteste dei costituzionali, la libertà di culto, seppure in edifici privati, per i preti refrattari. I quali, accortisi della debolezza del governo, organizzano subito varie iniziative sovversive. Sicché nella prima metà del 1792 l'Assemblea si troverà brutalmente sospinta dalla forza degli eventi verso una strada senza uscita: sia che si prosegua sulla linea scismatica, sia che si cerchi un compromesso con lo Stato pontificio, il rischio è sempre quello di veder minacciati o comunque fortemente rallentati i progressi della rivoluzione.

Una soluzione veniva offerta da coloro che propendevano per l'istituzione di un culto civico, come poi si farà, ma per il momento l'inizio della guerra con l'Austria e la Prussia, e soprattutto il rovesciamento della monarchia non potevano portare - a giudizio dell'Assemblea - che all'adozione di metodi drastici e coercitivi. «Poiché la guerra esterna e la guerra civile continuavano - dirà con acume Soboul - e la borghesia rifiutava l'appoggio popolare per timore della democrazia sociale, una necessità ineluttabile portava la Repubblica dei proprietari a rafforzare a poco a poco, dietro la facciata liberale, i poteri dell'esecutivo» (in La rivoluzione francese, ed. Newton).

Naturalmente la storiografia cattolica ha tutto l'interesse ad affermare che «la maggioranza dei vescovi e gran parte dei preti ritenne inaccettabile la Costituzione civile, in quanto essa misconosceva l'autorità del papa sui vescovi e sulle chiese locali» (così ad es. J. Comby in «Concilium», n. 1/1989). In realtà il «misconoscimento» fu solo un pretesto e i costituenti lo avvertirono come tale. La vera causa del rifiuto va invece vista nel fatto che la radicale riforma della chiesa non passava per il tramite del collegio episcopale, come per tradizione ci si doveva aspettare, ma piuttosto per quello dell'intellighenzia laica progressista, più o meno credente e praticante, cui volentieri si associarono i prelati di vedute lungimiranti.

In un primo momento, infatti, i vescovi refrattari, pur opponendosi alla riforma, non condivisero minimamente la linea papale di condanna senza appello della Dichiarazione dei diritti. Proprio per questo motivo la vera differenza fra l'alto clero conservatore e quello democratico non stava - come vuole P. Eicher (in «Concilium», cit.) - semplicemente nel fatto che quest'ultimo era convinto di poter conciliare le funzioni della chiesa con le libertà fondate sui diritti dell'uomo, o nel fatto di aver scelto la repubblica in luogo della monarchia. La differenza non stava tanto in astratte considerazioni filosofiche o giuridiche, quanto piuttosto nell'esigenza di salvaguardare un determinato potere politico ed economico.

I conservatori erano favorevoli più che a una Costituzione «civile» del clero a una Costituzione «clericale» dello Stato: nel senso cioè che il potere civile avrebbe dovuto ammettere, specie nelle questioni morali o di principio, una stretta subordinazione del trono all'altare, o comunque della rivoluzione alla religione. Quando poi i vescovi giurati, spogliati del loro potere economico, si accorgeranno che la repubblica poteva benissimo fare a meno di loro, in quanto non si riconosceva alla chiesa cattolica (romana e gallicana) alcun vero ruolo politico-ideale, il passaggio nelle file dei conservatori per molti diverrà automatico. La compatibilità con i principi rivoluzionari non avrebbe certo potuto implicare, per costoro, la fine del protagonismo politico del cattolicesimo.

Anche un intelligente vescovo come Grégoire risentì di questa limitata impostazione del problema. La sua speranza era che si formasse un cittadino nel contempo democratico di fronte allo Stato e credente di fronte alla chiesa. Ma quando si renderà conto che per la rivoluzione le due identità potevano anche marciare separate, in quanto la fede - essa diceva - appartiene, nel migliore dei casi, alle mere opzioni di coscienza, la sua posizione muterà colore, benché sempre nei limiti della legalità.


1 Quanto forti fossero avvertiti, nell'ambito ecclesiale più progressista, i rapporti fra cattolicesimo e ortodossia, lo attestano due importanti contributi di Grégoire, assai poco noti al pubblico italiano: Progetto di una riunificazione della chiesa russa con la chiesa latina (1799) e Memorandum sui mezzi per giungere alla riunione delle chiese greca e latina (1814).


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sez. Storia - Storia moderna - Monarchie nazionali
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