LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La nascita della democrazia politica borghese


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LE MASSE POPOLARI NELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

La presa della Bastiglia
La presa della Bastiglia

La storiografia borghese ostile alla rivoluzione ha sempre dipinto le masse che vi presero parte con le tinte più fosche e cupe. Burke, Taine, Madelin, Gaxotte non hanno avuto scrupoli nell'identificarle con le peggiori bande di assassini, di vagabondi, di ricercati e depravati.

Viceversa, per Michelet, Louis Blanc, Aulard e i sostenitori della tradizione repubblicana, le masse erano la suprema incarnazione del bene, l'ideale della giustizia personificato. Sia l'una che l'altra corrente, come si può notare, non riuscirono ad osservare il fenomeno del movimento rivoluzionario dal basso.

Probabilmente, il primo storico francese a indirizzarsi verso questa più concreta e realistica prospettiva è stato Jaurès, con la sua Histoire socialiste de la Révolution française (1901-03). Per la prima volta la rivoluzione francese - ha detto Soboul - veniva raccontata dal punto di vista delle masse popolari, ponendo alla base degli studi i fattori sociali ed economici.

La scelta non fu casuale. A determinarla fu lo sviluppo impetuoso del movimento operaio e della lotta di classe alla fine del XIX secolo, che costrinse gli studiosi a esaminare più da vicino le condizioni sociali delle masse e le motivazioni del loro agire. Si pensi alle opere di A Mathiez e di G. Lefebvre.

Due piste di ricerca sin da allora s'imposero:

Non poche furono le difficoltà dell'indagine: sia perché i popolani raramente scrivono, sia perché moltissimi documenti che avrebbero potuto offrire informazioni obiettive (come gli archivi municipali e di quartiere, i registri dei verbali delle sedute delle assemblee generali, ecc.) sono andati distrutti nella settimana di sangue del 1871, in cui cadde la Comune di Parigi. Restavano comunque i dossier della polizia e dei tribunali negli archivi nazionali e in quelli della prefettura: un materiale assai cospicuo, utile sotto molti aspetti, ma da maneggiare con precauzione perché spesso tendenzioso o alquanto lacunoso.

Con l'espressione «masse rivoluzionarie», che fu anche il titolo di un saggio divenuto poi un classico, G. Lefebvre intese distinguere chiaramente l'aggregato spontaneo dall'assembramento cosciente. Il primo è rappresentato da gruppi d'individui privi di vera organizzazione, che protestano in modo istintivo e spesso repentinamente. Le rivolte agrarie, soprattutto agli inizi della rivoluzione, erano di questo tipo, ma anche le code delle casalinghe davanti ai forni, che assai facilmente si trasformavano in gruppi sovversivi, i raduni in piazza o al mercato o all'uscita della messa domenicale. La colonna del 5 ottobre 1789, capeggiata dall'usciere Mailard e composta prevalentemente di donne che vollero marciare su Versailles per rivendicare la concessione del pane, fu in sostanza una protesta di tipo economico, non politico.

Del pari, i combattenti dell'89 non presentavano ancora motivazioni di carattere rivoluzionario. Male, comunque, faceva Arthur Young a deridere, nel 1788, i contadini che andavano a vendere al mercato per pochi soldi i loro legumi o le loro galline: questi aggregati semi-volontari risultarono in fin dei conti di notevole importanza per la formazione della mentalità collettiva e nella preparazione del movimento rivoluzionario.

Certo è che l'assembramento presuppone l'esistenza di una mentalità comune, sufficientemente organizzata e consolidata. Senza questo presupposto sarebbe stato impossibile indurre l'insieme del Terzo stato ad agire contro i privilegiati e i rappresentanti della monarchia. La manifestazione del 20 giugno 1792, con la quale il popolo occupa l'Assemblea e le Tuileries, l'insurrezione del 10 agosto dello stesso anno, che determina la caduta della monarchia, le feste della Indivisibilità della Repubblica del 10 agosto 1793 e dell'Ente supremo dell'8 giugno 1794: queste furono tutte iniziative consapevoli, in vista di un'azione più o meno concertata, ove i sentimenti e le motivazioni erano comuni. Solo quando gli uomini si convincono che il sistema in sé è irriformabile, che cioè non è più sufficiente strappare una concessione per garantirsi un futuro di benessere, solo allora il movimento si trasforma da spontaneo a cosciente, da istintivo a organizzato.

Naturalmente i livelli di coscienza collettiva erano diversi. Pretendere misure repressive a carico d'un commerciante speculatore è una cosa, esigere prezzi fissi per tutti, requisizioni e una riorganizzazione generale dell'economia nazionale, è un'altra. Sarebbe stato praticamente impossibile passare dalle rivolte per il grano del 1789 ai movimenti insurrezionali del '92 e '93, senza che le folle avessero acquisito una grande maturità politico-organizzativa.

Di notevole interesse è l'esame della composizione sociale di queste folle rivoluzionarie. Stando agli elenchi approvati dall'Assemblea costituente nel 1790, quasi 2/3 dei rivoltosi del 14 luglio appartenevano a una trentina di professioni (falegnami, ebanisti, fabbri, calzolai, bottegai, vinai, osti, ecc.).

Vi furono quindi prevalentemente persone di mestiere, artigiani, compagnons, piccolo-borghesi: scarsi invece i salariati (anche se qui è bene tener conto che il vocabolario del tempo si riferiva di più alla qualifica professionale che non al livello sociale o al rango nella produzione).

Del tutto assenti i rentiers e i capitalisti. La maggioranza dei vincitori della Bastiglia abitava il sobborgo popolare di S. Antoine e si recò armata sul luogo della battaglia, essendo non «plebaglia coinvolta in mestieri infami» - come vuole il Taine - ma membri regolarmente iscritti alla milizia cittadina della borghesia. Furono appunto i borghesi «non possidenti» a guidare, insieme al popolo lavoratore, la rivoluzione.

L'insurrezione nazionale del 10 agosto 1792 vide ancora prevalere il settore artigianale e commerciale, mentre recuperavano terreno le fasce salariate. Il giornalista della corona, Peltier, qualificò questi valorosi combattenti come «un branco di sbandati, di barboni, di maltesi, di italiani, di genovesi e piemontesi».

È difficile precisare il numero esatto di questi o quei gruppi sociali coinvolti nelle sommosse e nei tumulti popolari, perché nelle indicazioni delle professioni riportate negli elenchi della polizia o dei tribunali, spesso non si fa alcuna differenza fra il maestro artigiano e il compagnon salariato. Anche per questa ragione è impossibile sostenere che fra i gruppi abituali delle insurrezioni parigine mancavano gli operai. Sarebbe più esatto parlare di assenza di proletari privi di formazione tecnica o di assenza di emarginati in rotta con i legami sociali.

Fra i 662 vincitori della Bastiglia la stragrande maggioranza possedeva un domicilio fisso e un regolare lavoro. E fra gli arrestati della primavera 1795 i documenti non segnalano né mendicanti né vagabondi.

Fu invece tra i sanculotti, il cosiddetto «Quarto stato», quello che diede alla rivoluzione il carattere più radicale, che si trovarono i senza tetto e i disoccupati. Quando i montagnardi trionfarono sui girondini, tutti i militanti repubblicani volevano essere chiamati sanculotti. Con questo termine infatti s'intendevano coloro che non solo nell'abbigliamento, ma anche in ogni aspetto della loro vita sociale si distinguevano nettamente dagli aristocratici.

Meno marcata invece era la loro differenza dalla piccola e media borghesia. È difficile, in questo senso, definire la sans-culotterie come una classe sociale. Un borghese patriota volentieri veniva qualificato come un sanculotto. E ogni sanculotto aveva sicuramente partecipato alle battaglie più importanti della rivoluzione. Furono proprio questi strati sociali più popolari che scatenarono la violenza rivoluzionaria dopo il complotto aristocratico col quale si cercò dì ripristinare il vecchio regime assolutistico: la violenza popolare aveva un contenuto di classe e uno scopo politico, non era un fenomeno gratuito. Proprio sotto il Terrore si poté garantire al popolo il pane quotidiano.

Filosofi progressisti come Rousseau e Voltaire avevano previsto con un certo anticipo che il XVIII secolo sarebbe stato caratterizzato da tensioni rivoluzionarie. Ma quando il momento venne ci si illuse che tutto sarebbe stato facile, che il nemico si sarebbe ritirato spontaneamente. Solo i rivoluzionari francesi più lungimiranti si accorsero che la rivoluzione non coincideva unicamente con la conquista del potere, ma anche e soprattutto con la sua difesa e con la profonda trasformazione delle strutture sociali.

In particolare, Robespierre sin dal luglio 1789 denunciò il complotto aristocratico e i tentativi controrivoluzionari per farla fallire. Egli aveva compreso che il successo della rivoluzione esigeva la distruzione del vecchio regime, anche con la violenza, se questo fosse stato necessario. Nella sua risposta agli attacchi del girondino Louvet, il 5 novembre 1792, egli affermò ch'era impossibile volere «una rivoluzione senza rivoluzione», era cioè assurdo meravigliarsi di fronte agli arresti dei cittadini sospettati di minare l'ordine pubblico.

Senza nascondersi il pericolo che comportava la sospensione delle garanzie giuridiche che, in tempi normali, tutelavano i diritti dell'uomo e del cittadino (p.es. la libertà di stampa, che avrebbe dovuto essere concessa anche alle opposizioni), Robespierre sosteneva con franchezza la necessità della violenza rivoluzionaria: «La forza viene usata per evitare il crimine», diceva.

Come noto, tuttavia, la rivoluzione francese non arrivò mai a capire che non ci si può servire della minaccia di una controrivoluzione come di un pretesto per imporre un regime di terrore. Le minacce non possono mai autorizzare provvedimenti del genere, semplicemente perché i mezzi usati finirebbero col contraddire i fini per cui si usano, e anche perché se una rivoluzione gode dell'appoggio popolare, saprà essa stessa, con la forza della persuasione, del libero confronto, superare le contraddizioni del passato, cristallizzatesi come abitudini di vita sociale, senza paura d'essere rovesciata. Ma questo è un altro discorso.

Indubbiamente le rivoluzioni (non i colpi di stato) obbediscono a cause sociali e razionali molto concrete. Esse non sono mai l'effetto di un capriccio; non succede mai che per una causa frivola il popolo si rivolti. La violenza rivoluzionaria è un male, ma un male necessario, in quanto lo scontro delle classi è inevitabile. «Se le rivoluzioni sono necessarie nell'economia dell'universo, le disgrazie ch'esse provocano non sono un argomento a loro sfavore. Bisogna accusare non chi si fa strumento consapevole di questa necessità, ma chi vi si oppone. Sangue e lacrime vanno gettate su chi combatte non per la giustizia ma per l'oppressione» (sul Courrier français dell'8-12-1822).

Barnave, Mignet, Guizot, Thierry furono degli storici che riuscirono a comprendere una grande verità: e cioè che il motore della storia è la lotta di classe. Marx scrisse a Weydemeyer il 5 marzo 1852 che non aveva alcuna intenzione di rivendicare il merito d'aver scoperto l'esistenza delle classi e la lotta di classe, in quanto già da tempo gli storici borghesi l'avevano capito. In una lettera a Engels del 25 luglio 1854, egli considerò Thierry come «il padre della lotta di classe nella storiografia francese».

Marx andò più avanti. Proprio lo studio della rivoluzione francese lo portò a chiedersi in che modo una «classe particolare» può rivendicare una supremazia generale. La risposta a questa domanda la si può leggere nel Contributo alla critica della Filosofia del diritto di Hegel (1844): «Solo in nome dei diritti generali della società una classe particolare può rivendicare il dominio generale. Ma perché la rivoluzione di un popolo e l'emancipazione di una classe particolare della società civile coincidano, occorre che tutti i difetti della società si concentrino in un'altra classe, bisogna che un gruppo determinato sia oggetto di scandalo universale, l'incarnazione della barbarie universale (...). Il carattere negativo generale della nobiltà e del clero francesi è stato la condizione del carattere positivo generale della classe che era a loro più vicina e che a loro si opponeva: la borghesia».

Senza questo concentrato di contraddizioni fra due classi antagonistiche fondamentali, la semplice volontà rivoluzionaria non è sufficiente per cambiare le cose. Ciò però non vuol dire che l'elemento soggettivo non sia di primaria importanza.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sez. Storia - Storia moderna - Monarchie nazionali
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