LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La nascita della democrazia politica borghese


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INTRODUZIONE

Robespierre
Robespierre

Oggi persino i papi conservatori sono costretti a considerare veri e universali i classici valori della rivoluzione francese. Nell'ambito della chiesa cattolico-romana la svolta - come noto - era già avvenuta col Concilio Vaticano II, ovvero nel momento in cui si cominciarono ad accettare la libertà di coscienza, la tolleranza religiosa, l'uguaglianza degli uomini, ecc. In particolare l'adesione della chiesa romana alla dottrina dei diritti umani risale all'enciclica Pacem in terris (1963) e alla dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, promulgata nel 1965.

Il grande merito dei pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI fu appunto quello di rendersi conto che la chiesa, se voleva continuare a sussistere, doveva adeguarsi, in un modo o nell'altro, ai valori della civiltà borghese.

Merito più grande, in verità, sarebbe stato quello di proporre un'alternativa, visto e considerato che questa chiesa aspira ancora a un revanchismo politico, ma in quel momento si preferì concentrarsi sull'esigenza di uscire dal medioevo (il Vaticano I è stata l'ultima espressione medievale della chiesa romana) e di entrare finalmente nell'epoca moderna.

Tuttavia coi pontificati di Wojtyla e di Ratzinger si sono fatti due passi indietro. Sembra infatti che la chiesa romana voglia far capire che il compromesso con la società borghese è giunto al capolinea, nel senso cioè che essa non può più tollerare un ruolo marginale nelle battaglie politiche contro tutto ciò che non è cristiano. La chiesa reazionaria vuole di nuovo sentirsi protagonista attiva, come appunto è stata in Polonia nella lotta contro il regime comunista.

Naturalmente il crollo del «socialismo reale» l’ha indotta a essere meno anticomunista rispetto ai decenni passati, non tanto perché essa abbia aumentato la propria interna democraticità (la quale, anzi, con le collusioni coi governi di destra è scemata ulteriormente), quanto perché sembra essere venuto meno uno dei «nemici storici» da abbattere.

Il dialogo con questa chiesa è diventato molto difficile, soprattutto con i suoi livelli istituzionali (si vedano p. es. le vicende legate al caso Häring). Viceversa, se si guarda la «base» le cose stanno diversamente. In occidente vi sono gruppi e movimenti cattolici coi quali il dialogo può essere non solo facile ma anche piacevole. Si pensi al gruppo di teologi francesi che fa capo al Manifesto della libertà cristiana, pubblicato su «Le Monde» nel 1975 (in it. vedi l'editio della Queriniana); si pensi al Komitee tedesco Christenrechte in der Kirche e al suo Memorandum del 1982; si pensi all'americana Association for the Rights of Catholics in the Church e alla sua Carta dei diritti dei cattolici nella chiesa, edita nel 1983 - iniziativa, quest'ultima, che ha trovato ampio seguito in Olanda, Svizzera e in Francia (qui con l'Initiative Droits et Libertés dans les Eglises, che ha tenuto un forum a Parigi nel 1987). Nei paesi del Terzo mondo, come noto, la Teologia della liberazione rappresenta l'esperienza più significativa del cattolicesimo progressista.

Stessa inversione di rotta la si può riscontrare per quanto riguarda la storiografia cattolica sulla rivoluzione francese. Praticamente sino agli inizi degli anni Sessanta, il giudizio ampiamente condiviso era stato negativo non solo per quanto riguarda il Terrore, ma anche per tutte le istanze emancipative che avevano mosso i rivoluzionari e patrioti repubblicani. Oggi, dopo la parentesi degli anni Settanta, le tesi più retrive sembrano essere tornate di moda.

In uno degli ultimi libri pubblicati sul rapporto chiesa e rivoluzione francese (l'autore è L. Mezzadri, ed. Paoline 1989), si ha ancora il coraggio di sostenere che l'esproprio dei beni ecclesiastici fece perdere alla chiesa «libertà e dignità», mettendo «il clero alla mercé del potere civile» e che, mentre si affermava il principio dell'istruzione e della sanità pubbliche «si profilava il carattere dello Stato moderno totalitario» (sic!). Altri risultati «nefasti» - a giudizio di Mezzadri - furono la laicizzazione del matrimonio e l'introduzione del divorzio!

Ma una resistenza di questo genere è troppo debole perché possa destare serie preoccupazioni. Oggi l'utopia democratica e populistica del Concilio Vaticano II viene messa in discussione, parlando della rivoluzione francese, da affermazioni ben più sibilline, che certo non aiutano ad approfondire i rapporti tra mondo laico e religioso. Gli ambienti conservatori infatti vanno facendo un ragionamento assai tendenzioso, che è se si vuole un esito inevitabile del riconoscimento meramente teorico o formale di quei valori rivoluzionari. Si afferma cioè che gli ideali dell'Ottantanove sono falliti proprio perché prescindevano dalla dimensione religiosa, ossia che la rivoluzione, essendo stata sin dall'inizio - come essi a torto credono - un movimento antireligioso, non poteva che portare al Terrore.

La conseguenza logica di questa asserzione è facilmente intuibile: il mondo laico, se vuole veramente realizzare una società democratica, a misura d'uomo, deve sottomettersi di nuovo all'ideologia religiosa. Il che naturalmente non significa che la chiesa romana giudichi assurdi o falsi gli ideali della rivoluzione. L'imputato alla sbarra è semmai il metodo della società laica, cioè il modo con cui si è voluto e tuttora si vuole tenere separati il civile dal religioso, il sacro dal profano (ampiamente nei paesi socialisti, parzialmente in quelli capitalisti).

In sostanza, la critica religiosa ai valori laici della rivoluzione non viene fatta tanto sul terreno ideologico-politico (eccettuati naturalmente i gruppi più reazionari, come p.es. Comunione e liberazione), quanto piuttosto sul terreno storico. La chiesa insomma sta usando l'evoluzione della storia (e di questa soprattutto le vicende più drammatiche) per dimostrare che l'uomo senza religione non può realizzare alcuna vera democrazia. Le contraddizioni non vengono assunte come stimolo all'impegno ma come pretesto per condannare l'autonomia della società laica.

Dice bene, a tale proposito, il domenicano Bernard Quelquejeu: «Anche se, sotto la spinta delle società moderne, occorre pur concedere l’’ipotesi’ della società secolarizzata dell'era industriale, questa rimarrà sempre un'ipotesi come indicano le encicliche Immortale Dei (1885) ... e poi Divini Redemptoris (1937)». Più avanti lo stesso include la produzione di Giovanni Paolo II, sostenendo che «l'adesione apparente alla tradizione dei diritti umani maschera, oltre ad un tentativo di recupero ideologico [anche l'intenzione] di portare all'obbligo di aderire alla chiesa cattolica» (in «Concilium», n. 1/1989, interamente dedicato alla rivoluzione francese).

La sfida dunque esiste ed ha un certo peso, ma il mondo laico non può affrontarla solo sul piano ideologico, altrimenti ricadrebbe nei limiti illuministici della rivoluzione. Deve affrontarla sul piano sociale. Davvero - ci si può chiedere - le contraddizioni dipendono dall'aver abbandonato i valori religiosi (complice, in questo, la stessa chiesa gallicana filomonarchica), oppure i valori laici che a partire dall'Ottantanove abbiamo cominciato ad affermare con così grande fervore ed energia non sono stati realizzati sino in fondo?

È comunque difficile dire se in questo conflitto fra cristianesimo e rivoluzione abbia veramente perso la rivoluzione. Indubbiamente la rivoluzione non ha realizzato i suoi obiettivi, ma il cattolicesimo sono secoli che ha tradito i propri. E anche in questa occasione storica ha dimostrato di non essere capace di guardare avanti con il dovuto coraggio e la necessaria determinazione, nonostante i brillanti risultati conseguiti dai gruppi più progressisti.

Anzi è stata proprio la rivoluzione a lasciare un segno nella coscienza e nella vita di milioni di uomini, inclusi i credenti, un segno che le generazioni hanno saputo trasmettersi e che, ad un certo momento, ha avuto la forza di trasformarsi in avvenimenti importantissimi come la rivoluzione del 1848, la Comune di Parigi, il Fronte popolare, il maggio '68... per non parlare degli influssi che quella rivoluzione ha avuto sul mondo intero.

Si può anzi dire, in questo senso, che la rivoluzione francese ha trovato in quella bolscevica l'erede più significativa delle sue migliori conquiste. Questo a prescindere dal fatto che lo stesso Ottobre sia poi stato tradito dallo stalinismo.

Ma quali insegnamenti fondamentali si possono trarre da quella esperienza rivoluzionaria francese sul piano della libertà religiosa? Anzitutto uno, molto semplice ed elementare, ma generalmente applicato malvolentieri: la prassi è il criterio della verità. Cioè la fiducia nella verità di determinati principi non può mai essere un motivo sufficiente per imporli con la forza. La verità deve farsi strada con la forza dell'esempio, non delle armi, se necessario anche con la violenza, ma solo per difendersi. In ogni caso è assolutamente indispensabile saper distinguere i principi politici da quelli ideologici. Tutto questo la rivoluzione non l'ha fatto, non l'ha saputo fare.

Forse in nessun momento della rivoluzione i governi al potere accettarono di considerare più pericolose le divergenze politico-programmatiche sui fondamentali obiettivi socioeconomici rispetto a quelle di tipo ideologico o filosofico in materia di religione. Per tutti i rivoluzionari i due aspetti furono sempre ritenuti equivalenti. Di qui il forte esprit d'irréligion.

Giacomo Martina, uno degli storici cattolici più aperti e disponibili a un confronto con le idee del mondo laico, introduce in un elenco di cinque pagine di aspetti negativi della rivoluzione francese, a fronte delle tre dedicate a quelli positivi, nientemeno che il matrimonio civile (Storia della chiesa, Roma 1980). Mentre, poco più avanti, ha il coraggio di sostenere che, dovendo scegliere fra un regime di privilegio quale l'ancien régime, dove «sotto un'etichetta cristiana si nascondono parecchi abusi», e un regime di separazione, quello appunto giacobino, ove «affermazioni autenticamente cristiane sono spogliate della base cristiana», il cattolico farebbe bene a scegliere il primo. A meno che non si riesca a contrapporre «alle teorie democratiche fondate sull'illuminismo una concezione politica, democratica ma cristiana». Il che però - osserva Martina - la chiesa gallicana non riuscì a fare, in quanto non seppe o non volle riconoscere «la parte di vero insito nel naturalismo, accogliendolo e fondandolo cristianamente».

In pratica la tesi del gesuita Martina, condivisa oggi dalla maggioranza degli storici cattolici, è la seguente: gli ideali cristiani vanno affermati politicamente, in prima e ultima istanza, al punto che è preferibile accettare una chiesa corrotta col potere in mano che una chiesa separata senza potere. L'ideale - secondo tale storiografia - è quello di una chiesa che usi il potere in maniera democratica, non semplicemente quello di una chiesa che si limiti a rivendicare una propria «autonomia religiosa». Peraltro si nega recisamente che l'uso democratico di detto potere possa essere considerato come uno dei frutti della rivoluzione francese o della secolarizzazione in genere. A giudizio di Martina, i rivoluzionari non fecero altro che rimettere in auge antichi valori cristiani, per cui la chiesa non ha motivo di sentirsi obbligata nei confronti di nessuno.

In sostanza, Martina non si rende conto che i valori in sé e per sé non hanno «alcun valore» se non trovano una conferma nella prassi. Dire che la rivoluzione francese non ha fatto altro che riesumare antichi valori cristiani è come dire che il socialismo democratico non è altro che una rielaborazione, riveduta e corretta, del comunismo primitivo. Si può anche sostenere, al limite, che la maggior parte dei valori siano sempre gli stessi, ma questo cosa significa? Forse che il valore di per sé giustifica qualcosa? Il buon senso non vuole forse che la credibilità degli uomini la si misuri solo sulla capacità che hanno di mettere in pratica i loro valori di vita?

Da questo punto di vista la rivoluzione francese è stata senz'altro molto più importante della più importante esperienza cristiana. Se buona parte della chiesa francese non è riuscita ad accettare la rivoluzione, questo appunto conferma che l'attaccamento a determinati valori (pur ritenuti positivi da secoli) non produce di per sé alcun progresso, alcuna vera democrazia. I fatti anzi hanno dimostrato che proprio quell'area clericale che, stando al potere, difendeva strenuamente quei valori, è risultata la meno sensibile alle esigenze emancipative della rivoluzione.

È fuor di dubbio però che se si parte da principi ateo-materialistici o anche solo agnostico-deisti, senza poi distinguere la politica dalla religione, è impossibile ottenere il consenso delle masse cattoliche o dei credenti in genere. La Dichiarazione borghese dei diritti seppe distinguere l'uomo dal cittadino, ma nella concretezza dei fatti i governi rivoluzionari li confusero continuamente, mirando a privilegiare il cittadino sull'uomo. Il che rese inevitabile lo scoppio di una guerra civile per motivi religiosi (cosa che la storiografia cattolica spesso considera come causa principale del crollo giacobino).

Dire poi, come fa certa storiografia «ultramarxista», che la rivoluzione fallì perché nel momento più critico non fu abbastanza severa, è come fare aperta professione di autoritarismo. La rivoluzione fallì non perché fu poco severa coi suoi nemici, ma perché lo fu troppo con chi la sosteneva. L'eccessiva caratterizzazione ideologica le alienò inevitabilmente le simpatie di quanti avrebbero potuto e voluto appoggiarla politicamente, senza per questo dover rinunciare alle proprie convinzioni ideali o religiose. L'aver imposto tradizioni, usi e costumi a colpi di decreti non ha infatti dato credibilità alla rivoluzione, ma solo esaltazione euforica a un movimento istintivo e spontaneistico.

Sono forzature che alla lunga si pagano. Ne sanno qualcosa oggi i paesi socialisti dove dopo 40 o addirittura 60 anni di collettivismo, di separazione fra Stato e chiesa e fra chiesa e scuola, anni di militanza ateo-scientifica e di materialismo storico-dialettico, si è stati costretti a riconoscere che le cosiddette «sopravvivenze oscurantiste» del passato sono quanto mai vive e che tutti i torti e gli abusi commessi ai danni dei credenti, soprattutto le offese alla loro «sensibilità» non hanno fatto altro che incrementare la fede religiosa e l'ostilità nei confronti del socialismo. Che illusione quella di credere che «socialismo» volesse di per sé significare «maggiore democrazia».

Ciò naturalmente non significa che gli Stati non debbano mai usare la forza. Non devono mai usarla quando sono in causa le opinioni personali, le decisioni di coscienza, le libertà di credere e di non credere: a condizione naturalmente che tutto ciò non venga usato per offendere la dignità o la sicurezza di altri. Si può anche non credere in Cristo o in Maometto, ma non si ha il diritto di scandalizzare milioni e milioni di persone che dicono di vivere (a torto o a ragione non importa, nel bene o nel male neppure) sulla base di ideali cristiani o islamici. Non si può assolutamente tollerare la condanna morale della persona, cioè tutti quei giudizi unilaterali che collocano permanentemente gli individui nella sfera del «male». Anche perché giudizi di questo genere hanno il loro rovescio, quello della santificazione (sacra o profana), cioè la collocazione permanente di altri individui nella sfera del «bene».

L'appoggio delle masse ai fini della realizzazione di una rivoluzione deve insomma essere cercato non solo prima ma anche dopo la rivoluzione, perché è soprattutto dopo che i governi ne hanno bisogno. In caso contrario, ogniqualvolta si formano complotti controrivoluzionari, i governi si trovano costretti a violare le leggi e a commettere abusi di potere.

Con questo non si vuole idolatrare il concetto di «masse popolari», poiché anch'esse vanno guidate e devono sapersi autoguidare, sottraendosi alla logica dello spontaneismo e ai vari culti della personalità. La maggioranza, di per sé, non può beneficiare del monopolio della verità, anche se ha più probabilità d'aver ragione. Se la verità va sempre dimostrata, essa può esserlo solo in un processo dialettico in cui gli opposti siano liberi di confrontarsi. Oggi, dopo la fine dell'illusione che per realizzare un buon socialismo basta eliminare la proprietà privata, si ha una ragione in più di affermarlo.

Detto questo, non si può ora non evidenziare l'istanza più positiva di liberazione che, sul piano religioso, in modo politico e giuridico, la rivoluzione sia riuscita a valorizzare, trasmettendone il contenuto alle generazioni future e, insieme, il compito di tradurla in esperienze sempre più concrete, coerenti e, per dirla con Braudel, di longue durée. Si tratta del regime di separazione fra Stato e chiesa.

La migliore storiografia cattolica, presente soprattutto in Francia (si pensi p.es. a B. Plongeron), è giunta oggi alla medesima conclusione della storiografia marxista, secondo cui la rivoluzione francese ha posto le basi per il superamento di qualsiasi forma di «religione di stato» e di politicizzazione della fede. La fine dei privilegi e dei concordati, l'uguaglianza di tutte le religioni di fronte allo Stato, la separazione della scuola dalle varie confessioni, la laicizzazione dello stato civile e l'introduzione della legge sul divorzio: queste e altre cose ancora hanno contribuito massimamente non solo alla formazione di un'identità laica della società civile e dello Stato, della morale pubblica e del diritto, della politica e di tutte le scienze umane, ma hanno pure promosso, indirettamente, le condizioni per una «rigenerazione spirituale» di ogni fede religiosa, finalmente liberata dai compromessi col potere politico.

Se, nonostante questa grande opportunità, molti cattolici hanno smesso di «credere» nella loro religione o hanno preferito la strada del «fanatismo», ciò non può essere addebitato al regime di separazione, che, di per sé, non obbliga alcuna coscienza a diventare atea. Se un credente perde la fede all’interno di un regime di separazione, vuol dire che la sua fede, sul piano religioso, valeva ben poco.

Semmai è un altro il rilievo che può essere fatto al regime «borghese» di separazione. È dubbio che un regime borghese di separazione possa reggersi in piedi con la dovuta sicurezza e coerenza senza una contestuale rivoluzione socialista. Oggi poi possiamo aggiungere che, anche dopo aver fatto questa rivoluzione, è assurdo pensare di poter separare con la forza la chiesa dalla società civile. E, in ogni caso, un cittadino-credente ha bisogno d’imparare a contestare la sua chiesa come credente e il suo Stato come cittadino, senza fare della sua fede il pretesto per un’azione politica.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sez. Storia - Storia moderna - Monarchie nazionali
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