I GRUNDRISSE: Dall'autoconsumo al mercato

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


I GRÜNDRISSE

Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-58)
(Ed. La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I)

Dall'autoconsumo al mercato

Nei Grundrisse, prima del cap. III dedicato al "capitale", cioè prima di parlare del "denaro come capitale" (quel denaro fonte di plusvalore estorto all'operaio industrializzato), Marx parla, al cap. II, del denaro in generale. È un capitolo molto lungo, da p. 41 a p. 203. Qui prenderemo in esame soltanto le pp. 136-203, che corrispondono, all'incirca, alla fase storica in cui il denaro in sé è in grado di sostituirsi all'oro o all'argento per far circolare le merci, ed esso stesso diventa mezzo di circolazione, anzi, scopo finale di quest'ultima.

Questo processo è molto importante, perché irreversibile. Sta ad indicare che il capitalismo commerciale ha preso piede al punto che la sua trasformazione in capitalismo industriale è imminente. Prima di trasformarsi in capitale, il denaro deve rimpiazzare i metalli pregiati, che in genere vengono utilizzati soltanto per acquistare merci rare o preziose. Il denaro cioè, per poter avere un valore universale, deve diventare una merce come le altre, influenzando tutte le altre merci.

Infatti, quando il denaro raggiunge tale obiettivo, le merci sono già "idealmente" trasformate in denaro. Il loro valore d'uso è diventato del tutto relativo, in quanto domina in maniera assoluta il loro valore di scambio, il quale, in definitiva, coincide col loro prezzo di mercato.

Le merci vengono anzitutto valutate per il loro prezzo. Il prezzo va a rimpiazzare qualunque altra valutazione. Si comincia a supporre che se una merce costa molto è perché vale molto. Il valore è determinato dal prezzo. Marx dice chiaramente che questa cosa sarebbe impossibile là dove sussistono il baratto, le forniture in natura, le prestazioni feudali o un mercato troppo ristretto (locale o regionale).

Il tempo di lavoro contenuto in una merce non è più un criterio assoluto per determinarne il valore. Il denaro infatti "sta accanto e al di fuori delle merci stesse" (p. 139). La merce deve confrontarsi con una determinazione che, in ultima analisi, le risulta estranea, in quanto quest'ultima non è strettamente vincolata al costo del lavoro impiegato a produrla.

La determinazione del prezzo non è più immediata ma riflessa dal denaro. In sintesi, "la merce è valore di scambio, ma ha un prezzo" (p. 141). Questo prezzo tende a riferirsi non tanto a un "denaro reale", ma a una "moneta di conto", cioè a un'astrazione del denaro, a qualcosa che ha vita autonoma e che è in grado di influenzare tutto il mercato. "La moneta di conto è una misura ideale che non ha altri limiti se non quelli dell'immaginazione" (p. 142)(1).

Marx tuttavia non spiega fino a che punto il prezzo di una merce può divergere dal suo valore d'uso e persino dal suo effettivo valore di scambio. Si limita a dire che la trasformazione delle merci in denaro non è limitata dalla massa di denaro reale e che deve tener conto del tempo di lavoro necessario a produrre le merci, o comunque dei loro costi di produzione. L'importante è capire - secondo lui - che la mancanza di "astrazione" nell'uso del denaro implica una generale povertà di scambi.

Marx non avrebbe mai accettato l'idea che la determinazione del prezzo di una merce può essere qualcosa di assolutamente irrazionale, frutto dell'arbitrio dei produttori monopolistici. Questo perché non ha mai voluto mettere in discussione la superiorità di uno scambio commerciale basato su una concezione molto astratta nell'uso del denaro. Anzi, tende sempre a vedere il baratto come una forma primitiva di uso del denaro, nel senso che, anche se ci si limita a scambiare un prodotto con un altro, è impossibile per i contraenti non fare riferimento a qualcosa di comune considerato come equivalente generale. Il fatto che in Omero e in Esiodo si usino ancora "pecore e buoi" come mezzi di scambio, stava appunto a significare - osserva Marx - che esisteva una concezione molto approssimativa delle potenzialità del denaro. Come se una concezione sofisticata di questo uso fosse di per sé indice di una "superiorità economica"!

Il vero valore di una merce può essere dato solo dallo scambio e soprattutto da uno scambio frequente. Ecco perché il prezzo non può mai essere irrazionale. Lo scambio determina un "processo sociale", laddove il baratto presuppone una produzione individuale. Così la pensa Marx, che quando esamina i testi degli economisti borghesi, non mette mai in dubbio la superiorità, sotto ogni punto di vista, dello scambio nei mercati capitalistici rispetto all'autoconsumo e al baratto delle eccedenze. Per Marx la fonte principale dello sfruttamento del lavoro non sta tanto nella circolazione delle merci e del denaro (anche qui ovviamente), quanto piuttosto nella produzione, in cui domina la proprietà privata dei mezzi produttivi.

Marx è abbacinato dalla potenza del denaro, proprio perché vede che con esso si possono fare scambi molto veloci e a livello internazionale. Semplicemente lo affascina il fatto che la circolazione del denaro "parte da infiniti punti e ritorna a infiniti punti" (p. 149). Per questa ragione gli pare assurdo considerare il livello geografico locale, quello tipico dell'autoconsumo e del baratto, come il più idoneo a garantire la democratizzazione dello scambio. Parla del denaro come se stesse redigendo un romanzo, ove ognuno deve recitare la sua parte, che ovviamente è da lui rigorosamente prefissata, secondo uno schema di causa ed effetto. Merce, denaro, prezzo, baratto, capitale... sono soltanto degli attori, di cui solo alcuni recitano la parte principale, essendo i veri protagonisti di una storia che deve avere un finale ben definito.

Marx vuole porsi come erede di vasti e imponenti studi di economia politica, perlopiù elaborati nel Regno Unito, cercando di dimostrare che il modo migliore per salvaguardare i frutti più maturi del capitalismo industriale è quello di socializzare la proprietà dei mezzi produttivi. Se tutto convergerà verso questa soluzione del conflitto tra capitale e lavoro, le restanti contraddizioni si risolveranno inevitabilmente da sole. Marx non mette mai in discussione le ragioni della rivoluzione tecnico-scientifica e industriale, ma solo le modalità applicative e non tutte.

Questo è un modo di vedere le cose che oggi dobbiamo considerare superatissimo. Ovviamente non perché non sia giusto l'obiettivo di socializzare i mezzi produttivi, quanto perché una soluzione del genere non è sufficiente a risolvere le contraddizioni strutturali del sistema.

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Naturalmente qui non abbiamo a che fare con uno sprovveduto, incapace di capire le vere contraddizioni del sistema capitalistico, né con un economista borghese che fa di tutto per mistificarle. Marx sa bene che tutte le principali contraddizioni di questo sistema stanno nel momento della produzione, e ora vuol farlo capire parlando della circolazione delle merci e della funzione del denaro.

Anzitutto rileva il fatto che nel capitalismo le merci vengono prodotte per diventare valore di scambio, per cui il fatto che siano anche valori d'uso risulta incidentale. Le merci devono anzitutto essere vendute. Questo significa che il loro utilizzo è mediato dallo scambio. Ma questo vuol dire anche - e qui sta la differenza fondamentale tra lui e gli economisti borghesi - che "l'appropriazione [delle merci] attraverso e mediante l'espropriazione e l'alienazione è un presupposto fondamentale" (p. 150). Quel che si produce individualmente diventa universale solo dopo essere passato attraverso un processo di "espropriazione".

Ora però si faccia attenzione a come Marx considera questa "espropriazione generale". "Per quanto la totalità di questo movimento si presenti come processo sociale, e per quanto i singoli momenti di questo movimento provengano dalla volontà cosciente e dagli scopi particolari degli individui, tuttavia la totalità del processo si presenta come una connessione oggettiva che nasce naturalmente (corsivo nostro), che è bensì il risultato dell'interazione reciproca degli individui coscienti, ma non risiede nella loro coscienza, né, come totalità, viene ad essi sussunta. La loro individuale collisione reciproca produce un potere sociale estraneo che li sovrasta; la loro azione reciproca è un processo e una forza indipendenti da loro" (p. 151).

Questo modo di ragionare è una costante nel pensiero economico di Marx. Il capitalismo nasce "spontaneamente", senza che nessuno in particolare lo voglia, e se con la ragione non si comprende che deve trasformarsi in socialismo, per essere vissuto in forme umane e naturali, lo si comprenderà in forza delle sue contraddizioni, cioè in una maniera molto dolorosa. La cosa singolare però, in questo curioso ragionamento (dal sapore hegeliano), è che se mentre si vive in un ambiente capitalistico, si ha la percezione che tutti i processi economici avvengono indipendentemente dalla propria volontà, non si capisce da dove possa venire l'esigenza di un loro superamento. Cioè l'unico luogo da cui è possibile che emerga una coscienza del genere è quello stesso delle contraddizioni irriducibili tra capitale e lavoro, che dovrebbero produrre ai lavoratori una vita di sofferenze. Tuttavia è evidente che se il capitalismo si avvale del contributo delle proprie colonie per potersi garantire un certo livello di benessere, è impossibile che nell'area metropolitana si possa mai sviluppare una coscienza del genere.

Questo suo modo deterministico di ragionare ci porta a capire almeno quattro aspetti fondamentali del suo pensiero:

  1. Marx non condanna il capitalismo in quanto tale, ma solo in quegli aspetti strutturali più contraddittori, irrisolvibili dall'economia politica borghese;
  2. egli non collega nella sua analisi economica, in maniera cogente, una battaglia di tipo politico;
  3. neppure compie una considerazione storica relativa alla "resistenza" che i lavoratori hanno opposto a uno svolgimento della vita economica in direzione del capitalismo;
  4. né mette in stretta relazione la cultura che ha prodotto e giustificato uno svolgimento capitalistico dell'attività economica.

Il Marx economista vede sicuramente più lontano degli economisti borghesi, ma resta, in definitiva, un determinista. Si accontenta di compiere un lavoro teorico con cui smontare le falsificazioni e le mistificazioni dell'economia politica borghese. In particolare ha la pretesa di mostrare che "nello sviluppo reale [quello relativo alla produzione] nascono contraddizioni che sono spiacevoli per l'apologetica del common sense borghese, e che perciò vanno occultate" (p. 152).

Come disse Paul Ricœur, Marx è un "maestro del sospetto", e bisogna ammettere che nell'analisi economica delle contraddizioni del capitalismo, non c'era teorico della borghesia che potesse tenergli testa, proprio perché troppo diverso, anzi opposto, era il punto di partenza: Marx aveva a cuore gli interessi dei lavoratori. "Così già nella determinazione del denaro come mediatore, e nello scindersi dello scambio in due atti [compra e vendita reciprocamente indifferenti e separate nello spazio e nel tempo], c'è il germe delle crisi..." (p. 153).

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Cerchiamo ora di capire dove Marx individua il "peccato originale" del capitalismo in queste pagine dei Grundrisse. Non pochi critici considerano questi quaderni di minor rilievo perché scritti in fretta, spesso in maniera involuta, approssimativa, con alcune parti neppure approfondite nell'opera magna del Capitale. Eppure il loro pregio sta proprio nell'immediatezza del pensiero, in cui la genialità di questo straordinario pensatore emerge ugualmente in tutta la sua forza.

Anche qui - come al solito - Marx si limita a fare l'economista e non cerca d'indagare le radici culturali che hanno permesso al valore di scambio di dominare quello d'uso. Egli pertanto deve accontentarsi di dire una cosa che, tutto sommato, è abbastanza evidente: la separazione tra uso e scambio del valore è dipesa da una accentuata divisione del lavoro.

"Quanto più si sviluppa la divisione del lavoro [tanto più] interviene la necessità di un mezzo di scambio universale, indipendente dalla produzione specifica di ciascuno" (p. 154). Marx qui non si rende conto d'essere caduto in un circolo vizioso. Rinunciando, infatti, a spiegare il motivo per cui si formi una divisione del lavoro sempre più accentuata, finisce col fare di tale divisione e del valore di scambio una causa e un effetto intercambiabili. La divisione del lavoro si accresce all'aumentare degli scambi, ma anche questi s'incrementano all'aumentare di quella divisione.

Marx non parte mai dal presupposto che lo scambio non sia indispensabile o che sia normale che avvenga solo sulla base delle eccedenze. Uno scambio del genere gli appare incredibilmente primitivo. Ciò, in un certo senso, è paradossale: da un lato è consapevole che il valore di scambio, nel mercato capitalistico, ha un potere enorme proprio in quanto si basa su una espropriazione della capacità di decisione autonoma del lavoratore; dall'altro rifiuta tenacemente di credere che l'alternativa più efficace al capitalismo stia semplicemente in un ritorno all'autoconsumo in cui il valore d'uso abbia un primato assoluto su quello di scambio. Vede l'alienazione ma non capisce che il suo superamento definitivo sta in quella forma pre-capitalistica dell'economia (o meglio, proto- o archeo-comunistica) in cui non vi erano né schiavi né schiavisti, né servi né padroni.

In altre parole, da un lato dice cose che nessun economista borghese mai si permetterebbe, come p.es. questa: "La scissione dello scambio in compera e vendita dà la possibilità che io compri soltanto, senza vendere (accaparramento di merci), oppure venda soltanto, senza comprare (accumulazione di denaro). Essa rende possibile la speculazione... dà un fondamento al ceto mercantile... rende possibile una massa di transazioni fittizie" (p. 155).

Dall'altro lato non arriva mai a prospettare un socialismo che sia un ritorno al primitivo autoconsumo. Si accorge che il denaro non è più soltanto un mezzo per ottenere o scambiare delle merci, e che queste sono diventate un mezzo per ottenere denaro, ma non arriva mai a sostenere che il baratto è la forma più naturale e, per questa ragione, più umana e più democratica dello scambio. Vuole soltanto che tra merce e denaro non sia il denaro a farla da padrone, e pensa che l'unico modo per conseguire questo obiettivo sia quello di socializzare la proprietà dei mezzi produttivi, conservando integralmente tutto il resto.

Ora, noi ci rendiamo conto che, in un ambito geografico dominato dal capitalismo, quale quello dell'Europa occidentale del XIX sec., il fatto che un economista sostenesse l'assurdità di porre il denaro come "fine" dello scambio, potesse apparire come una sorta di eresia da parte dell'intellighenzia borghese dominante; e tuttavia noi non possiamo pensare che questa critica riesca davvero a mettere in crisi l'economia borghese. A parte il fatto che una critica del genere veniva mossa anche da tutto il socialismo utopistico, per cui davvero si farebbe molta fatica, in questo aspetto, a individuare la vera originalità del pensiero marxiano; ma, quel che più conta, è che oggi ciò che davvero distingueva Marx dal socialismo a lui precedente, e cioè la necessità di socializzare l'intera produzione nazionale, compiendo una rivoluzione politica, con tanto di occupazione delle istituzioni statali, fino al punto da dover esercitare, in caso di estrema necessità e in forma provvisoria, una vera e propria dittatura del proletariato, non può più essere considerato sufficiente a realizzare un'alternativa davvero democratica al capitalismo. Marx non riuscì mai a comprendere che l'alternativa doveva essere al sistema in quanto tale e non soltanto a un suo aspetto fondamentale, la questione appunto della proprietà dei mezzi produttivi.

L'alternativa al sistema capitalistico è in realtà un'alternativa a tutti i sistemi che fanno del mercato un'esigenza imprescindibile per la loro sopravvivenza. L'alternativa diventa anche ai sistemi schiavistici e feudali, privati o statali. E deve necessariamente essere un'alternativa che imponga il ritorno alla terra, come avvenne nel Medioevo, ma questa volta senza clericalismi e servaggi di sorta, quel Medioevo che, proprio a causa dei suoi clericalismi e servaggi, viene considerato dalla gran parte degli storici un'epoca buia sia nei confronti dello schiavismo romano che, ancor più, nei confronti del capitalismo.

Dovrà quindi essere un ritorno a una gestione della terra precedente addirittura alla nascita delle civiltà. Infatti qui non si tratta soltanto di "uscire dal sistema", ma di uscire dal concetto stesso di "civiltà", quale si è venuta configurando a partire dalle prime forme di urbanizzazione della storia, le quali, non a caso, hanno determinato, per la prima volta, quella fondamentale divisione del lavoro finalizzata alle esigenze del mercato.

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Forse un'interpretazione del genere può apparire a molti marxisti un'evidente forzatura. Ma qui, a scanso di equivoci, vogliamo riportare le stesse parole di Marx sulla tipologia del baratto, affinché ci si convinca, senza ombra di dubbi, ch'egli non aveva capito quasi nulla del valore altamente democratico del comunismo primitivo.

Engels non mancò di rilevare che, ai loro tempi, le conoscenze che si avevano di quel periodo erano molto scarse. Eppure esistevano da almeno due secoli documentate relazioni di esploratori e missionari sulla vita dei cosiddetti "primitivi". Per tutto il Seicento e il Settecento si era ampiamente discusso in Europa sul concetto di "stato di natura" e di "buon selvaggio". Anzi, sin dai tempi di Bartolomé de Las Casas siamo abituati a conoscere le condizioni di vita di popolazioni non europee, ancora ferme a un tipo di civiltà pre-schiavistica. Non era quindi solo questione di "ignoranza", ma proprio di "pregiudizio", e il fatto che sia Marx che Engels pensassero che il modo migliore per realizzare il socialismo fosse quello di passare attraverso il capitalismo, dimostra la limitatezza di fondo, su questo argomento, del loro pensiero (2).

Marx afferma che il baratto "è un'accidentale dilatazione della sfera delle soddisfazioni e dei godimenti (relazione con nuovi oggetti)" (p. 161). Già da questa semplice frase si può capire che concezione abbia Marx sia dell'autoconsumo che del mercato. Il mercato serve per soddisfare esigenze supplementari, voluttuarie e, come tale, è del tutto naturale. L'autoconsumo invece è considerato rozzo e primitivo. Addirittura Marx pensa che il baratto appaia "là dove le comunità naturali cessavano di esistere, entrando in contatto con l'esterno" (ib.).

Ciò in realtà è profondamente sbagliato, sia perché non è vero che il baratto s'impone quando la comunità smette d'essere completamente autarchica; sia perché l'autoconsumo e il baratto convivono da sempre in maniera del tutto naturale. Non sono mai esistite nella storia dell'umanità comunità così chiuse in se stesse da impedirsi qualunque forma di baratto. Barattare gli oggetti, siano essi eccedenti o meno, fa parte della natura umana. Se sono esistite delle comunità che non hanno praticato questa spontanea forma di scambio, è stato perché si sentivano minacciate da qualcosa (qualcosa che appunto incontravano sul mercato: p.es. scambiare pellicce di animali con bottiglie di whisky non era certo un grande affare per gli indiani nordamericani).

Marx dice che il baratto "è limitato ad un ambito ristretto, costituisce qualcosa di transitorio e di incidentale rispetto alla produzione, e scompare con la stessa casualità con cui è sorto" (ib.). Un modo di vedere le cose, questo, che non tiene conto del fatto che il baratto poteva avvenire con chiunque: nel senso che, al tempo del comunismo primordiale, nessuno costringeva dall'esterno una determinata comunità a vivere in un ambito ristretto. Se gli scambi erano limitati, ciò era dovuto alla limitatezza dei trasporti. Ma il baratto avveniva anche tra popolazioni nomadiche (anzi, soprattutto tra queste), che si spostavano periodicamente sulla base delle stagioni e delle migrazioni delle mandrie, selvagge o addomesticate; sicché il baratto non incontrava ostacoli neppure geograficamente.

Per le comunità nomadiche il baratto non era mai qualcosa di "incidentale" o "accidentale", ma era anzi lo strumento principale (non l'unico) che permetteva alle varie tribù di conoscersi, di rispettarsi, di vivere in pace, di combinare matrimoni, di stringere patti e alleanze. Tutto ciò valeva anche per le comunità stanziali.

Inoltre il baratto permetteva di scambiarsi oggetti che, per chi li possedeva e li cedeva, potevano avere un certo valore simbolico o affettivo; sicché chi li riceveva, ne andava fiero e li conservava gelosamente, come reliquie. Questo per dire che il momento del baratto conservava sempre una ritualità quasi sacra, sicuramente molto impegnativa, che obbligava ad assumersi delle responsabilità nei confronti dell'oggetto ricevuto e di chi aveva accettato di scambiarlo.

Il baratto non era mai casuale, proprio perché ciò che lo motivava era un'esigenza sentita, che poteva andare anche al di là di un bisogno materiale. Si barattavano le cose anche solo per rinsaldare delle amicizie: non era obbligatorio scambiarsi le eccedenze. Non sempre era un gesto prettamente economico.

Per sapere queste cose non era necessario, da parte di Marx, leggersi le opere di Lewis Henry Morgan o di Edward Burnett Tylor. Purtroppo però egli era così abituato a guardare le cose con gli occhi dell'economista che inevitabilmente considerava molto "primitivo" quanto non fosse sviluppato secondo i canoni del capitalismo. È questo atteggiamento che lo porta a compiere il seguente e nuovo errore interpretativo: se il baratto dovesse diventare - dice a p. 162 - "un atto continuativo che contiene in se stesso i mezzi del suo continuo rinnovarsi, allora subentra gradualmente, in maniera altrettanto estrinseca e accidentale, la regolazione dello scambio reciproco mediante la regolazione della reciproca riproduzione, e allora i costi di produzione, che infine si risolvono tutti in tempo di lavoro, diventerebbero la misura dello scambio".

Qui in realtà sono presenti due errori. Il primo è tipico del modo di procedere di Marx, che, tenendo separata la cultura dall'economia, è poi costretto a sostenere che il passaggio dal primato del valore d'uso a quello di scambio avviene in maniera del tutto naturale ("estrinseca e accidentale"), senza alcuna volontà cosciente, senza alcuna modificazione nello stile di vita, nei valori esistenziali della comunità.

Il secondo errore è conseguente a questo, che fa cadere Marx nel solito circolo vizioso: la misurazione del valore di una merce sulla base del tempo di lavoro necessario a produrla presuppone già un calcolo economico che non può appartenere a una comunità basata sull'autoconsumo. Spieghiamo questo secondo aspetto in altro modo. Se il baratto avviene in maniera continuativa, non è detto che chi acquista conosca esattamente il tempo di lavoro necessario per produrre un determinato oggetto. Può semplicemente operare una stima di massima. Si possono scambiare cose che non necessariamente sul piano economico hanno un valore equivalente. Il criterio con cui si valuta il valore di un bene non è affatto detto che sia lo stesso in chi vende e in chi acquista. L'importante è che ci si deve sentire liberi di poterlo decidere. Se si comincia a fare un calcolo sul tempo di lavoro impiegato a produrre un oggetto, l'importanza dell'autoconsumo è già venuta meno. La mentalità è cambiata e l'interesse per il mercato è diventato predominante.

Sul piano economico il baratto ha senso quando i due contraenti possono stimare approssimativamente il valore di un bene; ciò in quanto il loro stile di vita, pur avendo delle diversità significative, nella sostanza è abbastanza omogeneo. Cioè ognuno si può mettere nei panni dell'altro e fare un calcolo sul tempo, i mezzi, le risorse che ci sarebbero volute per produrre l'oggetto da acquistare. Ma a partire dal momento in cui ci si mette a fare un calcolo preciso, il baratto vero e proprio non esiste più, ed è impossibile che all'interno della comunità non vi sia nessuno che se ne chieda le ragioni, anche perché, ad un certo punto, qualcuno inizierà a chiedere, sul mercato, d'essere pagato in denaro.

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Marx non può nascondere a se stesso che la società basata sull'autoconsumo e quindi sul baratto soffriva molte meno contraddizioni del capitalismo, anche perché, vivendo di proprietà comune, non conosceva antagonismi sociali irriducibili. Non può nasconderselo, ma non vuole neppure trarne le dovute conseguenze, proprio perché preferisce opporre un'alternativa al capitalismo che non sia un semplice ritorno al passato pre-schiavistico, ma che sappia guardare avanti, sfruttando le conquiste tecnico-scientifiche della borghesia. (Questo poi senza considerare ch'egli non riesce neppure a supporre, almeno non nei Grundrisse, l'esistenza di un "comunismo primitivo" privo di controlli dall'alto o di coercizione extra-economica).

Ecco perché quando parla di eliminare la funzione alienante ed espropriante del denaro, sa bene che un'alternativa è quella di tornare all'autoconsumo. Quest'ultimo egli se lo prefigura nella maniera distorta che abbiamo già visto: "Se si eliminasse il denaro, si sarebbe ridotti o a un bassissimo livello di produzione (cui corrisponde la forma collaterale del baratto), oppure si avanzerebbe a un livello più alto, in cui il valore di scambio non è più la prima determinazione della merce, perché il lavoro generale, di cui esso [valore] è rappresentante, non si presenterebbe più che come lavoro privato mediato soltanto per la comunità" (p. 174), cioè non mediato anzitutto per il mercato. Quindi in un certo senso egli, da un lato, vorrebbe il meglio della società basata sull'autoconsumo, cioè la proprietà sociale dei mezzi produttivi e l'assenza di conflitti di classe, dall'altro pone però una stretta equazione tra benessere e produzione quantitativa.

Più chiaro di così non poteva essere. Nel socialismo il denaro può anche restare, e con esso il valore di scambio, a condizione che sia soltanto il lavoro ciò che dà valore alla merce, e nella fattispecie un lavoro "mediato per la comunità", cioè non sfruttato dal capitale. Tutto il resto, nella visione idilliaca di Marx, può rimanere immutato.

I socialisti riformisti pensavano, utopisticamente, di poter realizzare il socialismo senza compiere una rivoluzione politica; il socialismo scientifico di Marx resta però non meno utopistico, in quanto è convinto di poter salvaguardare tutto ciò che il capitalismo ha prodotto dopo avere eliminato l'antagonismo tra capitale e lavoro.

Marx s'illudeva di poter convincere la borghesia ad accettare la socializzazione dei mezzi produttivi in nome di una continuazione più sicura ed efficiente del progresso materiale della produzione economica, in virtù del quale tutti avrebbero avuto da guadagnarci. Non si rendeva conto che a un progetto del genere la borghesia si sarebbe sempre opposta con tutte le proprie forze, utilizzando anzi proprio quel progresso tecnologico che Marx voleva invece far ereditare al proletariato industriale. Cioè non si rendeva conto che la borghesia, pur di non rinunciare ai propri privati profitti, alla propria posizione privilegiata, alle proprie cospicue rendite finanziarie sarebbe stata disposta a rischiare persino la propria distruzione.

Oggi peraltro si assiste a questa tendenza autodistruttiva non tanto come risposta a una irriducibile resistenza da parte dei lavoratori sfruttati, che sicuramente in Europa occidentale è stata molto forte soltanto nei primi vent'anni del Novecento; quanto piuttosto in riferimento a una totale mancanza di sensibilità e d'interesse nei confronti della tutela ambientale. Cioè oggi pur di massimizzare i profitti si è disposti a usare la tecnologia in maniera autodistruttiva, in quanto non si vuole tener conto che la sua ricaduta sulla natura è tanto più nociva quanto più aumenta il progresso tecnologico. Persino negli ambienti operai, quando si viene posti di fronte all'alternativa di scegliere tra diritto al lavoro e diritto alla salute non si ha dubbi da che parte mettersi.

Le occasioni di realizzare un socialismo democratico, perdute nel passato, oggi inevitabilmente comportano un peggioramento sempre più acuto delle condizioni ambientali (nei paesi est-europei la cosa si è addirittura verificata in presenza del socialismo statale). Il tempo perduto oggi inevitabilmente rende molto più traumatica, in termini di sofferenze umane, qualunque transizione al socialismo.

La stragrande maggioranza delle popolazioni occidentali non ha la più pallida idea di quale sia il prezzo del proprio benessere pagato nelle aree del Terzo mondo. Non ci si rende conto che è già in atto una mostruosa devastazione ambientale e umana in 3/4 del pianeta. Noi occidentali non la vediamo in quanto ne siamo tenuti all'oscuro dai mass-media, né vogliamo vederla, in quanto pensiamo di non poter far nulla per modificare le cose.

Forse potremmo renderci conto di qualcosa se quelle stesse popolazioni oppresse dal globalismo del capitale si opponessero tenacemente e pretendessero di svolgere un ruolo da protagoniste. Ma al momento, se si escludono sparuti episodi di guerriglia, l'arma principale con cui difendersi dalla miseria e dallo sfruttamento umano e ambientale sembra essere quella di emigrare verso i paesi del "benessere". Cioè la tendenza che si impone a livello mondiale è quella di diventare "borghesi", quella di potersi sedere al tavolo della torta da spartire a spese dei più deboli.

Oggi i rapporti tra metropoli e periferia, che il capitalismo mondiale impone, sono così intrecciati che allo sfruttamento del Terzo mondo, in Occidente, partecipano tutti, incluso il proletariato industriale, non solo in quanto produttori di beni che saranno venduti nelle aree più o meno colonizzate, alimentando lo scambio iniquo, ma anche in quanto titolari del credito internazionale quando si acquistano azioni e obbligazioni. Infatti gli interessi che si ottengono dai propri investimenti rientrano in quei debiti che stanno strangolando tutti i paesi del Terzo mondo.

Marx non si rendeva conto che quanto più i mercati si espandono a livello geografico, tanto meno diventa possibile al proletariato occidentale fare qualcosa per impedire che la propria attività produttiva partecipi allo sfruttamento imperialistico da parte dell'Occidente.

L'unico modo per essere sicuri di non sfruttare il lavoro altrui è quello di vivere in una comunità basata sull'autoconsumo, in un luogo ristretto, in cui ci si può controllare a vicenda e in cui si scambiano soltanto le eccedenze. Questo peraltro è anche l'unico modo di considerare la natura come qualcosa che va assolutamente rispettata, poiché da essa dipende la sopravvivenza della stessa comunità.

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Una cosa davvero singolare in Marx è che egli, essendo di origine ebraica (poi passato al luteranesimo per volontà del padre, che aveva abiurato la propria fede), e quindi attento alle "cose religiose", tende a fare, di tanto in tanto, dei collegamenti tra economia borghese e caratteristiche di tipo teologico. Come p.es. quando parla del denaro: "Dalla sua forma di schiavitù, nella quale si presenta come semplice mezzo di circolazione, esso diventa improvvisamente sovrano e dio nel mondo delle merci. Esso rappresenta l'esistenza celeste delle merci, mentre queste rappresentano la sua esistenza terrena" (p. 181).

Lo dice perché davvero il denaro, nell'economia capitalistica, può fare tutto, anche auto-incrementarsi, sfruttando tutte le potenzialità dei mercati. Eppure la frase suddetta non spiega affatto come il denaro, da semplice mezzo di scambio, diventi fine a se stesso. Non lo spiega perché viene usato l'avverbio "improvvisamente". Quel che Marx vuol fare apparire come naturale, in realtà ha avuto bisogno di secoli e secoli per realizzarsi.

Tuttavia a Marx questo non interessa. Egli infatti non fa un'analisi storica, ma fenomenologica; non mette in rapporto organico la cultura con l'economia, ma si limita a dire, sfruttando le sue pregresse conoscenze in materia di religione, che, nel sistema capitalistico, il denaro si comporta come se fosse un dio. I confronti tra economia e religione non sono "strutturali", bensì "incidentali", del tutto casuali: sono usciti dalla sua penna soltanto per un'esigenza esemplificativa, per rendere l'analisi fenomenologica più chiara, più calzante. L'uso di immagini simboliche è una costante nella sua mente enormemente acculturata.

Ma il fatto che qui Marx lasci intendere che il capitalismo appaia come una sorta di "monoteismo del mercato", di per sé non è affatto sufficiente per capire i nessi organici che legano un certo tipo di religione con un certo tipo di economia. La mancanza di un'analisi "olistica" di questo tipo porta Marx, inevitabilmente, a dare giudizi affrettati sui processi di transizione, dei giudizi che, per quanto fossero molto più avanzati di quelli degli economisti borghesi, restavano alquanto superficiali nella comprensione soprattutto del comunismo primitivo.

In un certo senso è incredibile come egli non vedesse la necessità di compiere un'analisi culturale dopo aver detto che tra "brama di avere" (merci) e "brama di arricchimento" (di denaro) sono due cose molto diverse. È evidente, infatti, che sotto il capitalismo il denaro possiede una "sensualità astratta" (p. 183), che però - aggiungiamo noi - non può derivargli da se stesso.

Se si è convinti che "l'avidità di denaro o la brama di arricchimento rappresentano necessariamente il tramonto delle antiche comunità" (ib.), non è poi possibile non andare a verificare storicamente l'attendibilità di un'affermazione del genere. Il dominio del valore di scambio non nasce dal nulla. Non ci si può limitare a sostenere che presso i Romani e i Greci "il denaro compare nella sua purezza soltanto... come misura e come mezzo di circolazione, e a un grado non molto sviluppato" (ib.), e non fare poi un'analisi storica con cui dimostrare i motivi per cui lo schiavismo impediva una transizione verso il capitalismo. Cosa che non avvenne non tanto per motivi di ordine quantitativo - come lascia supporre Marx -, quanto proprio perché mancava la mentalità adeguata, cioè non era sufficientemente sviluppata la cultura cristiana.

Quanto alle questioni quantitative non ha alcun senso equiparare il mercato greco-romano a quello capitalistico. A quel tempo il mondo greco-romano era in realtà enormemente sviluppato, anche se incredibilmente poco rispetto ai mercati borghesi del XIX sec.

Marx conosce bene almeno tre aspetti fondamentali:

  1. che la concezione del denaro come fine a se stesso presuppone una cosa che nel sistema schiavistico mancava (o meglio, non era dominante): il lavoro salariato;
  2. che, sotto il capitale, "lo scopo del lavoro non è un prodotto particolare che sta in un particolare rapporto con i bisogni particolari dell'individuo, ma è il denaro..." (p. 185);
  3. che sotto lo schiavismo non può nascere il capitalismo: "L'uomo antico poteva comprare immediatamente lavoro, p.es. uno schiavo; ma lo schiavo col suo lavoro non poteva comprare denaro" (ib.). La schiavitù industriale degli afro-americani (fino alla guerra di Secessione) era stata possibile solo perché in Europa occidentale vi erano degli Stati capitalistici, ove la manodopera libera era salariata.

E tuttavia non sa andare oltre, non è in grado di dire che cosa ha reso culturalmente possibile il passaggio dal lavoro schiavile a quello salariato (il quale ovviamente implicava la libertà giuridica del cittadino-lavoratore), cioè non s'accorge che la comunità antica, quella pre-schiavistica, era già stata dissolta dalla comunità schiavistica, pur senza che il denaro diventasse un fine nello scambio delle merci.

Quando pensa alla comunità antica, Marx ha in mente quella già schiavistica, non tanto o non sempre quella privatistica del mondo greco-romano, quanto piuttosto quella asiatica-statalizzata. "Nelle comunità primitive - dice a p. 189 - il commercio su base aurea o argentea aveva un'importanza soltanto collaterale, legata all'eccedente, come del resto l'intero scambio".

Per dimostrare che Marx non sempre si riferisce alle comunità asiatiche, basta riportare quanto scritto a p. 193: "Presso tutti i popoli antichi l'accumulazione di oro e argento si presenta originariamente come privilegio sacerdotale e reale... L'accumulazione serve poi soltanto a ostentare l'abbondanza... come offerta ai templi e ai loro dèi... per opere d'arte pubbliche... come mezzo di riserva nel caso di necessità straordinarie... per acquisto di armi ecc.".

Giustissima invece è l'osservazione che laddove il denaro "non scaturisce dalla circolazione - come in Spagna - ma viene trovato per così dire in carne ed ossa [nelle Americhe], impoverisce la nazione, mentre quelle nazioni che devono lottare per strapparlo agli spagnoli sviluppano le fonti della ricchezza e si arricchiscono realmente" (p. 186). È qui delineata, in un unico pensiero, tutta la storia della Spagna coloniale e vetero-feudale, surclassata dagli inglesi calvinisti e imprenditori.

Parlando del puritanesimo inglese, Marx arriva quasi a capire il rapporto organico tra religione ed economia. Scrive: "Il culto del denaro ha il suo ascetismo, le sue rinunce, i suoi sacrifici - la frugalità e la parsimonia, il disprezzo per i piaceri mondani, temporali e fugaci; la caccia al tesoro eterno. Di qui la connessione del puritanesimo inglese o anche del protestantesimo olandese con la tendenza ad accumulare denaro" (pp. 195-6). Lo dice chiosando uno scrittore del XVII sec., E. Misselden. E lo dice molto tempo prima di Max Weber! E tuttavia lo dice in maniera incidentale.

Marx non vede un rapporto di causa-effetto tra protestantesimo e capitalismo industriale (e mai ne vede uno tra cattolicesimo e capitalismo commerciale). Semplicemente rileva che il protestantesimo si poneva come sovrastruttura ideale per uno sviluppo "naturale" del capitalismo, indipendente dalla volontà umana. Il motivo per cui il Marx economista fosse così determinista dipese, molto probabilmente, dal fatto che egli, come politico-rivoluzionario, si sentiva uno sconfitto.

*

La fine di questa parte dei Grundrisse è scritta, in alcuni passaggi, quasi in forma romanzata. Le categorie economiche diventano dei personaggi viventi, teatrali, ognuno con la sua parte da recitare. Al denaro, "come forma generale della ricchezza, si contrappone l'intero mondo delle ricchezze reali di cui esso è la pura astrazione - e perciò, fissato in questa forma, è pura immaginazione" (p. 198).

È davvero strano, in tal senso, che una mente brillante come la sua, che pur aveva scorto una certa familiarità delle categorie economiche borghesi con quelle della religione cristiana, non si sia accorto che tutta l'economia borghese non è altro che, in forma laicizzata, un prodotto diretto del cristianesimo; nel senso che è soltanto una trasposizione sulla terra di ideali metafisici del tutto astratti e formali, in cui al dio della fede si è semplicemente sostituito il dio denaro.

Non avrebbe potuto esserci uno sviluppo capitalistico dell'economia non solo in presenza dello schiavismo, ma neppure in assenza del cristianesimo. Là dove è stato possibile il capitalismo, in assenza di cristianesimo come religione dominante, è perché è stato imposto con una forza di tipo colonialistico o imperialistico, oppure perché il governo in carica - ed è il caso p. es. dell'odierna Cina - non ha avuto bisogno del cristianesimo per favorire lo sviluppo del capitalismo: si è semplicemente limitato a sfruttare la laicizzazione del cristianesimo già compiuta dalla borghesia e fatta propria da un'ideologia di tipo comunista, che professa l'ateismo sul piano teorico e tollera il capitalismo sul piano pratico: cosa che nessun paese occidentale è mai riuscito a fare, avendo da sempre, storicamente, collegato il capitalismo al cristianesimo. Da sempre perché questo collegamento è avvenuto dapprima nell'ambito del cattolicesimo-romano, a partire dalla nascita dei Comuni, e successivamente nell'ambito del protestantesimo, luterano e soprattutto calvinistico.

Il cristianesimo si è modificato in forme sempre più laicizzate: dall'ortodossia al cattolicesimo, da questo al protestantesimo, da questo al capitalismo e da questo al socialismo statale. Si evolve in forme sempre più laicizzate poiché esso è nato falsificando in chiave religiosa il messaggio originario del Cristo, ch'era di tipo ateistico e comunistico. E il processo non è ancora terminato, poiché per superare definitivamente il cristianesimo e tutte le sue varianti laicizzate, dobbiamo prima tornare al comunismo primitivo.

Note

(1) Oggi si pensa addirittura di abolire il denaro come monete e banconote, ma anche come titoli di credito, assegni ecc., per limitarsi a usarlo in maniera del tutto virtuale, cioè elettronica o telematica.

(2) Su questo argomento Engels era ancora più determinista di Marx, che nella lettera alla Zasulič si mostrò possibilista su una transizione diretta dal feudalesimo al socialismo. Engels invece nel 1848 vide in maniera favorevole la conquista francese dell'Algeria, poi si espresse nella stessa maniera "colonialistica" anche nei confronti della conquista statunitense del Messico e di quella italiana dell'Eritrea (cfr H. Jaffe, Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, ed. Jaca Book, Milano 2007).

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015