DALLA CREAZIONE ALLA CADUTA. ANALISI DEL GENESI


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IPOTESI INTERPRETATIVE

Cosmologia e Antropologia 1 - 2

Creazione dell'uomo, Duomo di Monreale
Creazione dell'uomo, Duomo di Monreale

Fonte sacerdotale

La parola “Bereshit” (“In principio”) non sta a significare una creazione “dal nulla”, ma la continuazione in forma nuova di qualcosa di preesistente e quindi corrisponderebbe all'espressione “da quel momento in poi”, ovvero “quando Dio cominciò a creare i cieli e la terra, la terra era un vuoto caos” (“ex nihilo”, o meglio “ex ouk ontôn”, che significa “da ciò che non è”, è nozione ellenistica formulata solo a partire da 2 Mac 7,28, cioè verso il 100 a.C.). “Bereshit”, nella Bibbia, si usa sempre per indicare l'inizio di un regno, il punto di partenza di una nuova monarchia, ma anche la “primizia”, cioè la cosa più bella o più nobile.

Dunque il “nulla” nel testo della Genesi, non è in sé, come una determinazione metafisica, ma – si potrebbe quasi dire – coincide col fatto che all'origine della vita vi è l'acqua, suddivisa in acque planetarie, in cui gli animali possono vivere, e acque cosmiche, del tutto inaccessibili agli esseri viventi e sulle quali poggia lo stesso pianeta. La differenza tra le “acque” dei due racconti è che quelle “jahviste” sono il prodotto del lavoro, le “sacerdotali” invece della natura: due forme diverse di ricchezza.

Si deve quindi presumere che il testo sacerdotale della Genesi non si riferisca affatto alla nascita dell'universo ma semplicemente a uno sviluppo particolare della Terra, che da “informe” e “deserta” diventa “abitabile” o “praticabile”. Lo stesso verbo “bara'” (“creò”) in ebraico indica l'azione di “mettere ordine ad una cosa che si trova in uno stato magmatico”, “creare una cosa meravigliosa, nuova, sorprendente”, ovvero “finalizzare le cose distinguendole, dando loro un significato preciso” (gli animali, p.es., vengono creati secondo la loro propria specie, nel senso di “specifico istinto” o peculiari caratteristiche): “separare” è un modo semitico per indicare la creazione.

Come tale, “bara'” viene usato nell'Antico Testamento solo in riferimento a Dio, benché indichi anche il lavoro del boscaiolo intento a tagliare un tronco, che dovrà poi consegnare a uno scultore perché lo modelli in maniera creativa.

La differenza sostanziale tra i due racconti della creazione sta nel fatto che mentre in quello jahvista la creazione dell'uomo è finalizzata a una gestione intelligente e produttiva della terra, in quello sacerdotale appare invece come un completamento naturale dell'atto della creazione.

Nel primo racconto il protagonista della creazione, sino all'ultimo giorno, è Jahvè-Elohim, che crea l'uomo per puro senso della gratuità. Nel secondo il vero protagonista è l'uomo, creato allo scopo di governare la Terra. Vi è insomma una sorta di involuzione dal materialismo naturalistico all'idealismo religioso.

Prima del riposo sabbatico viene compiuta l'ultima “fatica”, quella più importante di tutte: il parto dell'essere umano. Che si debba parlare di “parto” è testimoniato sin dal secondo versetto: [1,2] “Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.

La parola ebraica “ruach” è infatti di genere femminile e indica una pluralità di significati: “vento”, “alito”, “respiro”, “soffio vitale”, “spirito”. Pur tradotta con il termine neutro “pneuma” (di origine stoica) nella versione greca dei LXX e con il maschile “spiritus” nella Vulgata, essa suggerisce un'idea di leggerezza, di impalpabilità e, nello stesso tempo, di terrena concretezza. Assomiglia all'altro termine indicativo del lato femminile della divinità: “shekinah” (“pienezza di partecipazione”).

Certamente non ha nulla a che fare con l'anima, essendo inscindibili per gli ebrei lo spirito e il corpo. Dio qui appare come un vasaio che lavora l'argilla, la quale, per diventare “umana”, ha bisogno di mescolarsi con qualcosa di particolare. Occorre una sorta di fecondazione artificiale, in cui un elemento naturale venga penetrato e fecondato da un elemento extra-naturale.

Un riferimento all'elemento femminile venne attribuito allo spirito vitale da coloro che lo identificarono con la Sofia-Sapienza discesa dal Pleròma, o mondo superiore, per unirsi, come Madre, con l'elemento maschile, simboleggiato dalle “acque”. Gerolamo addirittura, riprendendo miti cosmogonici fenici, che vedevano il mondo come un uovo cosmico covato da Dio e poi esploso, usò verbi come “incubabat”, “fovebat”, che chiaramente facevano pensare a una partecipazione quasi materna alla creazione: la terra è “madre”. Dunque in luogo di “aleggiare” si sarebbe anche potuto tradurre “covare”.

[1,28] “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”.

La Terra va anzitutto “popolata”: è questo il primo compito degli esseri umani, e per poterlo fare in tutta tranquillità essi non devono avere rivali, non possono trovare ostacoli insormontabili che impediscano loro di realizzare questo compito.

Il verbo “kavash”, reso con “soggiogare”, non vuol significare l'esercizio di un potere illimitato sulla Terra, e il verbo “radah”, tradotto generalmente come “dominare”, possono essere intesi come “amministrare”, “governare”, “dirigere”, “guidare” (“radah” in ebraico significa “reggere, guidare, pascolare”, un'azione che può essere quella di un re ma anche di un semplice pastore.).

D'altra parte, presso il popolo d'Israele, l'esercizio del potere sovrano non era mai concepito in maniera assolutistica: il re non doveva essere idolatrato (“selem”), e spesso i profeti mettevano il popolo in guardia verso i sovrani che volevano essere adorati come dèi.

Uomini e animali vengono creati nello stesso giorno: ciò che li differenzia è il fatto che solo gli umani sono “a immagine e somiglianza” del creatore. Gli animali paiono creati apposta per far sentire l'uomo superiore a loro. Nel racconto jahvista invece sembrano esistere solo nel momento in cui l'uomo, chiamandoli per nome, li identifica.

La ripetizione per ben sei volte dell'espressione: “e Dio vide che era cosa buona” (“tôv”), sta appunto ad indicare che, anche a prescindere dall'esistenza dell'uomo, il mondo creato viene considerato dalla tradizione ebraica intrinsecamente “buono”, nel senso che l'essere, o meglio l'essere-artista, creativo, si compiace della sua opera d'arte. Quando viene creato l'uomo (l'ultima creazione, la più impegnativa) il testo ebraico usa l'espressione “tôv me'od”, cioè “cosa molto buona (o bella)”.

Ed è la parola che crea, il logos: per i semiti il verbo è la realtà più preziosa dell'essere umano. Anche il vangelo di Giovanni esordirà dicendo la stessa cosa.

La materia precede l'esistenza umana e il significato del genere umano non può andare oltre al fatto d'essere un ente intelligente di natura. Non esiste alcuna divinità oltre la materia e l'umano: come l'umano è all'origine dell'umano, la materia è all'origine della materia. Non è possibile immaginare un'eternità o un'infinità della materia senza immaginare la stessa cosa per l'essere umano. L'umano è tutto in potenza nella materia, è la materia che diventa atto consapevole di sé, estrinsecando la propria essenza.

La materia è in un mutamento continuo (automovimento), dove si scontrano forze opposte, che determinano ogni volta soluzioni inedite (autotrasformazione). La materia non può essere creata né distrutta ma solo trasformata, non nasce dal nulla e non può ritornare nel nulla. È sempre esistita ed esisterà sempre.

In ogni caso qui si ha a che fare con una fase storico-evolutiva differente da quella del racconto jahvista. Qui sembra d'essere ancora nella fase nomade, in cui l'uomo è “padrone” di tutta la Terra, da cui ottiene spontaneamente di che sfamarsi, e non tanto di una singola porzione di territorio, delimitata da confini, in cui deve svolgere un lavoro per poter vivere.

La fonte sacerdotale sembra voglia recuperare un passato irrimediabilmente perduto, proprio perché molto più lontano di quello anelato dalla fonte jahvista. La fonte sacerdotale resta inevitabilmente, per questa ragione, più astratta, più utopistica, più ideologica di quella che l'ha preceduta di mezzo millennio.

La parte più “clericale” di questa fonte non sta tanto nell'errata traduzione con la parola “Dio” del nome “Jahvè-Elohim” (presente già nel primo versetto), che al massimo poteva essere tradotto con il nome “Uno-Molti”, “Essere-Altro”, “Io-Noi”, ad indicare che per la mentalità ebraica risultava inconcepibile la solitudine di un'entità onnipotente.

L'“essere” non andava interpretato come una “divinità” distinta da una “umanità”. L'essere è “umano” sin dalle origini dell'universo, determinato al plurale, a partire dalla distinzione duale di genere. La differenza tra l'umano terrestre e l'umano cosmico sta unicamente nel diverso rapporto tra energia e materia, di cui non siamo ancora perfettamente consapevoli. In tutto l'universo, pur essendo presente una realtà materiale soggetta a degrado e perenne trasformazione, esiste anche una forma di energia assolutamente inesauribile e anzi in progressivo aumento: quella dell'autocoscienza, che deve per forza avere una propria corrispondente materialità.

Quando Cristo dice nel vangelo di Giovanni: “Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi?” (10,34), voleva in sostanza dire che se all'origine della creazione vi è stato un atto divino, ebbene questo venne compiuto da un essere umano. A differenza di tutti gli altri animali, gli uomini sono “divinità”, lo sono sicuramente in potenza.

Ma il clericalismo di questo racconto sta piuttosto nei versetti dedicati al sabato:

[2,1-3] “Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro ch'egli, creando, aveva fatto”.

La creazione viene concepita come un lavoro, una fatica del creatore, che la creatura deve appunto riconoscere rispettando la festività religiosa del sabato (che nell'altro racconto non esiste neppure). Alla creatura non è ancora dato il compito di “lavorare” ma solo quello di “riprodursi”, il che non lo rende molto diverso dagli animali: come se la differenza sessuale a fini riproduttivi fosse all'origine del senso della stessa creazione dell'universo.

È vero che in questa fonte viene esplicitamente dichiarato che “l'uomo è a immagine di Dio”, ma questa “fortuna” non viene “guadagnata” dall'uomo, viene elargita gratuitamente da chi appare di molto superiore all'umano, da chi vuole conservare una certa distanza dal proprio “prodotto”. Il Dio dei sacerdoti agisce sì come un “buon padre”, ma non “passeggia nel giardino” accanto alle proprie creature.

Resta comunque significativo che si giunga al vertice della creazione con la nascita dell'essere umano: evidentemente oltre l'umano non esiste nulla.

[1,29-30] “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”.

Non c'è un lavoro vero e proprio da compiere: l'uomo e la donna hanno già tutto il cibo che occorre loro per vivere (tutti gli esseri viventi sono vegetariani). Il fatto di “dominare” sui pesci e sugli uccelli non sta ancora a significare che gli uomini se ne debbano “cibare”. È un dominio più che altro simbolico, non foss'altro che per una ragione fondamentale: la tecnologia non permetteva certo all'uomo di poter sottomettere a sé tutte le risorse della natura. Non a caso agli albori della scienza moderna, in virtù della possibilità che la tecnologia offriva di “dominare” l'ambiente, vi fu chi pensò di poter far tornare l'uomo allo stato di natura, antecedente al peccato d'origine.

È infatti noto che la visione strumentale della natura e quell'atteggiamento d'indifferenza morale verso gli esseri viventi non umani, frutto della mentalità occidentale moderna, si avvalgono di riferimenti biblici e riflessioni teologiche che fanno risalire proprio al racconto della Genesi il primato dell'antropocentrismo sul naturalismo.

[1,26-27] “E Dio disse: – Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.

Dio creò l'uomo a sua immagine: maschio e femmina li creò. Il testo originale dice: “Dio ('elohim) creò (bara') l'uomo a sua immagine (betzalmo); lo creò a immagine di Dio (betzelem 'elohim bara' 'oto); maschio e femmina li creò (zakar uneqevah bara' 'otam)”. Qui si parla di “uomo” in senso lato, a prescindere da qualunque differenza che non sia quella di genere. Viceversa nella letteratura extra-biblica più antica, in oriente, solo il sovrano poteva pretendere d'essere lo specchio di Dio.

“Zelem” (o “selem”) indica la statua, plasticamente simile alla realtà. “Somiglianza” invece è traduzione della parola “demut”, un astratto che indica una somiglianza più fluida, meno precisa. L'uomo è molto simile all'archetipo ma non identico.

Come si può notare il plurale “li creò” compare solo dopo la distinzione “maschio/femmina”, mentre la parte iniziale del versetto biblico è al singolare, “lo creò”: tale distinzione è finalizzata ad una possibilità di relazione che si realizza pienamente nell'unione della coppia (“'adam wechawah”, “Adamo ed Eva”), mediante cui essa diviene un'unica realtà che rimanda all'originario Esserci e che esprime l'unità nella diversità dei generi.

Gli esseri umani, creati contemporaneamente nella loro distinzione sessuale, appaiono soltanto dopo la creazione della Terra, ma qui non viene detto, come invece nell'altro racconto, che loro stessi sono fatti di terra, benché dotati, a differenza degli animali, di “spirito vitale”.

Da notare che la scienza del tempo, ereditata poi dal cristianesimo, era “monogenista”, in quanto faceva discendere tutta l'umanità da un tipo primigenio e unico, per quanto nel racconto jahvista proprio la presenza dell'albero della conoscenza del bene e del male deve far necessariamente supporre la presenza di altre popolazioni, il cui stile di vita veniva considerato “vietato” nell'ambito dell'Eden.

In questo racconto non viene detto che erano “nudi”, eppure i progenitori hanno come unico compito quello di “riprodursi”. La cosa verrà ribadita anche nel racconto del diluvio: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn 9,1), cioè “siate moltitudini”, come se la “riproduzione” fosse il compito principale del genere umano. Non a caso mentre per noi “storia” vuol dire “indagine”, “ricerca”, la parola ebraica “toledot” significa invece “generazioni”, riproduzione sessuale. È un invito ad amarsi nonostante tutte le possibili differenze. Anche in questo è ben visibile il limite moralistico dell'ideologia religiosa.

È evidente che qui la riproduzione viene considerata come una forma di responsabilità personale, da sottrarsi all'istintività puramente animale. La riproduzione non deve essere avvertita né come un obbligo (qui è semplicemente un invito), né come una fatalità imposta dall'alto, né come una forza cieca, istintiva, del tutto spontanea, proprio perché alla riproduzione gli esseri umani devono dedicare particolare cura e attenzione. “Siate fecondi” infatti può anche voler dire “amatevi” e non soltanto “riproducetevi”, come d'altra parte si evince nel rapporto di coppia del racconto jahvitico, pur essendo esso impostato sul tema dell'innocenza primordiale, quasi priva di sessualità.

Quel “facciamo” non indica solo che all'origine della creazione vi è un'entità collettiva, ma anche che questa entità ha sicuramente caratteristiche “umane” e che, in tale umanità, si sta riproducendo.

All'origine della creazione vi è stata una sorta di “parto umano”, generata da una fecondazione aventi caratteristiche analoghe a quelle umane. Sia in ebraico che in arabo Dio viene anche chiamato “rachman”, che significa “colui che ha l'utero”: il concetto di “misericordia” è espresso dal concetto femminile di “rechem”, cioè “utero”.

Insomma siamo stati creati per diventare a nostra volta creatori, generatori di semi che fecondano uova. In tale processo evolutivo mutano soltanto le potenzialità operative, relative al diverso ambiente spazio-temporale, alle diverse dimensioni di vivibilità dell'essere e dell'esserci.

Quanto alla creazione materiale vera e propria va detto che l'autore, benché il testo sia stato strumentalizzato dai fondamentalisti o letteralisti per opporre creazionismo a evoluzionismo, pone una sorta di progresso nella formazione delle specie, in quanto mostra d'avere consapevolezza che i mammiferi vengono dopo gli uccelli e gli uccelli dopo i pesci.

L'immagine della Terra “tohu” e “bohu”, “deserta” e “informe” (“aóratos”, cioè “invisibile”, e “akataskéuastos”, “disordinata”, si legge nel testo greco dei Settanta), indica non tanto un demiurgo che (come nel Timeo platonico) plasma una materia preesistente, quanto la traccia di un disegno creativo ed evolutivo presente da sempre nella mente della divinità-logos, che si sarebbe poi fatta carne, stando ai cristiani, nella persona del Cristo.

La creazione della luce prima degli astri è stata vista con ironia dagli esegeti laicisti. Oggi invece si ritiene, senza per questo tentare inutili “concordismi” tra religione e scienza, che sia stata una intuizione geniale, in quanto avvicina di più il momento biblico della creazione a quello moderno del cosiddetto “big bang”, in cui un'esplosione di luce è avvenuta nel buio più totale, generando astri che si vanno espandendo nell'universo.

In tal senso la creazione andrebbe vista come un evento luminoso nelle tenebre e non tanto come la trasformazione di un caos primordiale in un ordine razionale.

La tenebra non sarebbe che l'assoluta semplicità delle cose, in cui non si riescono a distinguere le singole parti. Non ci sarebbe dunque stato un disordine primordiale ma una semplicità allo stato puro, quale può essere quella di un neonato al cospetto di un adulto. L'infanzia dell'umanità è a immagine e somiglianza dell'infanzia dell'universo.

Nelle tenebre, con la loro semplicità indistinta, si forma improvvisamente la luce, che permette anzitutto di distinguere il giorno dalla notte, il buio dalla stessa luce.

La tenebra è più oscura del buio assoluto, è “divina caligine”, come diceva l'Areopagita, luce inaccessibile. L'essere è quel che è (“Io sono colui che sono”, sentenzia Jahvè): la sostanza è forma, il contenuto è metodo, l'interno è l'esterno, la libertà è la necessità, la potenza è l'atto, la memoria è desiderio e tutto è racchiuso, concentrato, in un unico punto, senza dispersione, senza divisione.

La creazione è stata generata da un'entità che, pur nella propria essenziale semplicità, aveva in sé, potenzialmente, tutta la complessità più infinita, esattamente come il cervello di un qualunque neonato ha in sé le capacità di svilupparsi, condizioni esterne permettendo, senza alcun limite.

Chi usa il concetto di “Dio” in antitesi a quello di “uomo”, tradisce l'uomo, lo mortifica e lo induce ad accettare ciò che lo umilia. L'ateismo è la prima forma umana di emancipazione dal servilismo della religione. È la risposta più adeguata alla domanda di libertà di coscienza.

Non a caso qui il tempo è una creazione successiva a quella della luce. La velocità della luce è la misurazione del tempo. “E fu sera e fu mattina”.

Meno facile da capire è la separazione delle acque terrene dalle acque celesti mediante il firmamento. Anche qui le traduzioni fanno perdere al testo il significato originario. Le parole ebraiche “shamayin” (v. 1) e “raqia” (v. 8) andavano tradotte come “cieli” e “volta celeste” (“parete solida”).

Pur con la loro cosmologia fissista e geocentrica gli ebrei già avevano intuito che i “cieli” (l'universo) erano molto più estesi e infiniti del firmamento (il cielo, l'atmosfera) che contiene o racchiude la Terra.

I “cieli” sarebbero stati pieni non di aria o di fuoco o di “vuoto”, ma di “acque”. La Terra, per gli ebrei, era come un feto immerso nelle acque di un utero cosmico, al di fuori del quale vi sarebbero altre acque. Paolo di Tarso parla di “creazione che soffre le doglie del parto” (Rm 8,22).

Per molto tempo si è pensato che la Terra, in sé immobile, galleggiasse sugli oceani, mentre il cielo non era che una cupola di cristallo che poggiava sui bordi del mondo. La luce poteva anche non provenire dal Sole. In fondo è solo un'acquisizione recente che il nostro pianeta, coi suoi movimenti di rotazione e di rivoluzione, sia in realtà sospeso nel vuoto. Non dimentichiamo che molte simulazioni gli astronauti le fanno proprio stando sommersi nelle acque delle piscine.

Impossibile comunque non vedere qui l'idea di un'origine acquatica della vita sulla Terra. Viene anzi detto esplicitamente che le terre emerse sono il prodotto di un prosciugamento delle acque. Fuoco e Acqua sono per gli ebrei più primordiali o comunque più significativi di Terra e Aria.

Ancora meno facile da capire è come possa esserci la luce e la vita stessa sulla Terra, prima ancora che siano stati creati il Sole e la Luna. Qui evidentemente si è in presenza di un equivoco. La luce di cui s'era parlato prima non può essere quella stessa prodotta dal Sole. Anzi lo stesso Sole è un prodotto della luce.

Sole, Luna, stelle servono più che altro per dare il senso del tempo agli esseri viventi, che devono ancora essere creati. Il tempo precede l'esserci, lo costituisce come tale, tant'è che subito dopo vengono creati gli esseri viventi, prima animali (nelle acque e nel cielo) e poi umani (sulle terre emerse).

La luce era un atto spontaneo di autocreazione della materia, senza finalità eteronoma. L'essere umano invece pare sia un atto di consapevole autopromozione, con evidente finalità eteronoma.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Antico Testamento - Genesi
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