DALLA CREAZIONE ALLA CADUTA. ANALISI DEL GENESI


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PREMESSA

“Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza”, non è una frase religiosa, ma ateistica. L'interpretazione religiosa è subentrata successivamente, quando si era smarrito il suo significato ateistico.

Con quella frase l'autore voleva semplicemente dire che tra Dio e l'uomo non vi è alcuna sostanziale differenza, o comunque voleva dire che in un lontano passato l'uomo avvertiva la divinità come molto prossima alla sua esistenza, proprio perché non vi scorgeva alcuna sostanziale diversità: Dio era come l'uomo perché l'uomo era come Dio.

E quando si parla di Dio, si deve per forza parlare di un principio “duale”, analogamente alla differenza di genere nella specie umana. In quel “facciamo” sta appunto la differenza di genere. “Facciamo” sta per “partoriamo”. All'origine della specie umana vi è un rapporto d'amore e di sessualità.

Che questa divinità potesse passeggiare nel giardino (una foresta), insieme alle sue creature, è indicativo della familiarità della natura divina a quella umana. Tra il Dio “duale” e l'uomo “duale” c'è di mezzo la natura, in maniera assolutamente necessaria. Entrambi non possono prescindere dalla natura. Tutta la “creazione” degli astri, descritta nel Genesi, è semplicemente finalizzata alla comprensione della formazione del nostro pianeta, preposto a ospitare l'essere umano.

La materia in realtà è eterna e infinita: nessuno l'ha creata e nessuno potrà mai distruggerla. E – stando agli scienziati – quella che vediamo noi è solo una piccola parte di quella effettivamente esistente (per non parlare dell'anti-materia, che probabilmente non vedremo mai).

La cosa poco chiara, nel racconto del Genesi, in realtà è un'altra. Riguarda il contenuto della tentazione: “Diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male”. Di quale “male” sta parlando il serpente, visto che il peccato della trasgressione del divieto non era ancora stato posto?

C'è qualcosa di poco chiaro anche nello stesso divieto. Perché porlo a chi, non avendo ancora peccato, non può rispettarlo con la dovuta consapevolezza? I nostri progenitori conoscevano o no il peccato prima di peccare? Se non avevano mai peccato, certamente non potevano conoscere tutti gli effetti di un'azione negativa su di loro. Al massimo potevano conoscerli in maniera traslata, approssimativa o indiretta. La frase che Dio dice per indurli a non trasgredire il divieto, e cioè che sarebbero “morti”, non ha alcun senso nel contesto del racconto, poiché la morte è proprio una delle conseguenze del peccato.

Tuttavia è evidente che una minaccia del genere non avrebbe avuto alcun senso neppure se non fossero stati assolutamente in grado di capirla. Qui dunque il concetto di “morte” deve per forza avere un significato diverso rispetto a quello che gli attribuiamo noi. “Morte” probabilmente voleva soltanto dire “solitudine”, cioè enorme difficoltà a vivere un'esistenza al di fuori di un contesto comunitario protettivo. In ogni caso sembra qui che Dio si stia comportando come un genitore che sa già tutto della vita e non vuole che accada qualcosa di spiacevole ai propri figli.

Ma se è così, il peccato era già stato posto da qualcun altro, cioè da qualcuno che insidiava l'incolumità di Adamo ed Eva. La tentazione di trasgredire il divieto era praticamente indotta da un nemico esterno alla comunità primitiva, un nemico che Dio (qui in rappresentanza di un consiglio di anziani) conosceva già in tutta la sua pericolosità, mentre Adamo ed Eva (qui in rappresentanza di una giovane generazione) non potevano conoscere sino in fondo a causa della loro inesperienza o ingenuità. Lo temevano, per così dire, di “riflesso”, spaventati all'idea di poter trasgredire un divieto tassativo, cioè di poter compiere qualcosa che da Dio (il collettivo consapevole) sarebbe stata considerata molto negativamente.

Ma che cos'era questo eden? Una campana di vetro? una realtà fittizia in cui proteggere delle persone che, a motivo della loro innocenza, erano troppo sprovvedute per agire autonomamente? Di regola si pensa il contrario: l'eden rappresentava qualcosa di “naturale” e il serpente qualcosa di “artificiale” o di “innaturale”.

L'autore si è immaginato i nostri antichi progenitori come due soggetti naturali, innocenti, fisicamente nudi, moralmente ingenui, anche se non così sprovveduti da non capire le insidie del nemico, che pare geloso del loro “paradiso terreno”, in quanto la foresta sembra offrire tutto il necessario per vivere. La tentazione non era tanto quella di “mangiare la mela”, quanto quella di vivere la stessa vita del serpente, al di fuori della foresta. La mela è solo il simbolo di una vita diversa, che, sulle prime, appare migliore (le tentazioni riguardano i cinque sensi e anche naturalmente l'intelligenza, la ragione, l'amor proprio...). Una vita diversa, intrigante, di cui dovevano essere in qualche modo a conoscenza, altrimenti non ci sarebbe stata alcuna scelta colpevole, bensì una fatalità, e se ci fosse stata fatalità o casualità o inevitabilità, la punizione divina sarebbe parsa eccessiva (espulsi per sempre dall'eden!).

Quindi in questo racconto non vi è tanto la descrizione della nascita del genere umano, ma la descrizione di una caduta. La caduta è stata una forma d'involuzione da una condizione naturale di vita a una innaturale. In questo passaggio regressivo Adamo ed Eva erano consapevoli di ciò che facevano, cioè erano consapevoli quel tanto che bastava per compiere qualcosa di sbagliato. Essi hanno voluto compiere ciò che all'interno della foresta era assolutamente vietato.

Ma che cosa avevano fatto di così grave da meritarsi un castigo così grande? Era così grave conoscere il bene e il male come lo conosceva Dio, cioè in maniera approfondita? Non erano forse destinati a conoscerlo? Non è forse conoscendo il male che si può meglio evitarlo? Il punto però è proprio questo. Per conoscere il male ed evitarlo, occorre avere una certa maturità, altrimenti si soccombe. Ci vuole una certa esperienza di vita e non solo una conoscenza teorica.

Il peccato originale sta proprio in questo: nell'aver anteposto un proprio percorso individuale a qualcosa di consueto nel collettivo. Si è anteposto l'arbitrio alla libertà, la coscienza individuale all'esperienza collegiale. Si è compiuto un atto di forza contro dei valori dominanti. Ci si è sentiti liberi mentre si trasgrediva il divieto, ma, così facendo, ci si è posti contro qualcosa di tradizionale, di acquisito. Si sono violate delle leggi non scritte, degli usi e costumi ancestrali. Continuare a restare nella foresta sarebbe stato impossibile. La comunità andava tutelata dall'abuso, altrimenti si sarebbe sfaldata, distrutta. Tutti avrebbero scelto la strada dell'individualismo, e per il collettivismo sarebbe stata la fine.

L'autore ci ha voluto far capire la tragedia di questa dicotomia, che si sarebbe potuta tranquillamente evitare rispettando il divieto. Il quale, se era stato posto, un motivo doveva esserci. La crisi era già in atto, anche se non in forma drammatica. È normale che all'interno di un'esperienza collettiva vi siano momenti di debolezza o di stanchezza, ma questo non vuol dire che si debbano rompere delle tradizioni consolidate.

L'autore ha semplicemente descritto il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo. Ha descritto una rottura, di tipo individualistico, avvenuta circa 6000 anni fa. Che poi da questa rottura sia nata l'agricoltura e la stanzialità, è irrilevante. Non è possibile attribuire all'agricoltura o alla stanzialità, in sé e per sé, le radici dello schiavismo. Dalla creazione alla caduta ci deve essere stato un momento di anti-socialità, che prescindeva dallo sviluppo delle forze produttive e dalla tipologia del rapporto socioeconomico.

Tutta la storia dell'umanità, inclusa quella che gli storici chiamano “preistoria”, è la storia di due stili di vita: individualistico e collettivistico. Il primo, in questi ultimi 6000 anni, si è espresso in varie forme (schiavismo, servaggio, capitalismo, socialismo statale), che si è cercato ogni volta di superare, ritenendo insufficienti quelle forme all'esigenza di collettivismo insita in ogni essere umano. Questo processo di superamento non è ancora terminato, e non potrà esserlo fino a quando non avremo recuperato lo stile di vita “preistorico”.

Noi non ci ricordiamo quando siamo stati generati: sappiamo soltanto di esserlo stati. Il fatto di non sapere il momento preciso ci dà una sensazione di eternità. Il non-sapere ci rende eterni e quindi liberi, liberi di essere ciò che vorremmo. Senza poter andare indietro, fino al momento preciso in cui siamo stati concepiti, ci sentiamo indotti a non considerare la morte come la fine della nostra vita, ma solo come un ulteriore momento di trasformazione.

Noi sappiamo soltanto che in ogni processo di trasformazione intervengono degli elementi opposti, che si attraggono e si respingono continuamente: si attraggono per creare continuamente qualcosa di nuovo, e si respingono per mostrare la loro differenza.

Dall'embrione primordiale allo sviluppo del feto, sino alla nascita del neonato, sino allo sviluppo della personalità umana. La morte non è che un passaggio da una condizione di vita a un'altra, come il seme e la pianta, il bruco e la farfalla.

Siamo destinati a esistere, in quanto l'intero universo è soggetto, da sempre, a continua trasformazione, che è poi una forma di evoluzione, di cui non possiamo vedere l'inizio e di cui sappiamo che non avrà mai fine. Il fatto di non averlo creato ma di farvi parte è garanzia di eternità.

Quando viene percepito dalla coscienza, il ticchettio dell'orologio non può mai smettere. La pila è questo desiderio di infinità, nello spazio e nel tempo, che ci caratterizza.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Antico Testamento - Genesi
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La colpa originaria. Analisi della caduta


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