PLATONE E L'ANAMNESI

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PLATONE (428-27/347)

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Platone e lA TEORIA DELL'ANAMNESI

Con la sua teoria dell'anamnesi (o reminiscenza), Platone potrebbe aver ragione se escludesse che le idee assolute sono già del tutto formate nell'iperuranio. Il che però sarebbe per lui un controsenso, in quanto l'anima ricorda cose che ha visto quando era al di fuori del corpo, e si ricorda solo quelle che ha potuto vedere o contemplare. Ovvero l'anima, il cui corpo non si è almeno sufficientemente purificato dalle passioni, non ricorda proprio nulla.

Ora, proviamo a togliere l'aspetto mistico di questa filosofia, che cosa resta? Supponiamo che il senso del bene sia interno all'uomo, sin dalla nascita, e che non esistano idee assolute nell'aldilà, e quindi nessuna esperienza extrasensoriale da parte dell'anima. Cosa dobbiamo fare per far emergere questo senso del bene?

Se anche ci mettessimo a purificarci dalle passioni, che garanzia avremmo di aver scoperto la vera idea del bene che è in noi? Da soli potremmo mai avere sicurezza di qualcosa? Supponiamo insomma d'esserci purificati dalle nostre passioni, individualmente, ma di vivere in una società fortemente dominata da ogni sorta di vizi e debolezze: fino a che punto potremmo essere convinti d'aver fatto la cosa giusta?

A prima vista l'unico modo per avere un barlume di convinzione potrebbe essere quello di riuscire a condividere la nostra esperienza con altre persone. Ma come facciamo a sapere che questa esperienza comune rifletta davvero un'idea oggettiva di bene e non sia piuttosto una forma d'illusione, una deformazione della verità dataci proprio da un certo modo di vivere, insieme, la purificazione dalle passioni? E' sufficiente pensare che un'esperienza comune del bene sia più vera di un'esperienza individuale?

In realtà l'unico criterio possibile di verifica dell'attendibilità o della verità dell'idea di bene, è quello di mettersi continuamente a confronto con la società, cioè coi suoi problemi, coi suoi bisogni. Un'esperienza che si chiude in se stessa, foss'anche di tipo collettivo, finisce coll'avere di sé e della società una percezione deformata. Se non ci si confronta continuamente con la realtà che ci è più vicina, si diventa astratti, anche se proprio da questo confronto si potrebbe rischiare di corrompersi.

Platone andava a cercare il criterio del bene come un cattedratico, compiendo un lavoro ascetico su di sé, di liberazione dalle "passioni", come se ogni aspetto istintuale della persona andasse visto con sospetto. Da un lato gli interessava, come filosofo, l'assoluto, dall'altro se lo andava a cercare da solo. Invece di limitarsi a dire che ogni uomo ha un punto di vista limitato sulle cose e che può pervenire a un'idea oggettiva di bene solo mettendosi a confronto con gli altri, senza mai pretendere di arrivare a qualcosa di assolutamente incontrovertibile, preferiva, idealisticamente, pensare che tutto il bene stesse fuori del mondo e che gli uomini non potessero in alcun modo realizzarlo compiutamente sulla terra, proprio perché, al massimo, riescono a ricordarsi dell'idea assoluta di bene solo una piccola parte, tant'è che per lui "purificarsi" voleva dire "prepararsi alla morte". La liberazione definitiva dalle passioni era possibile solo nell'aldilà.

Invece di accontentarsi di una realizzazione progressiva del bene, che è anzitutto un bene sociale, preferiva limitarsi a concepire il bene in maniera filosofica, col pensiero, previa ovviamente una sorta di purificazione morale dalle proprie passioni.

Quindi era giusto pensare che la verità è già in noi, ma andava anche detto che nessuno riesce a scoprirla da solo, né in questa vita né in nessun'altra, se non accetta di mettersi a confronto con le verità degli altri, scoprendo, dagli errori che si compiono, quale sia la strada giusta per arrivarci.

PLATONE E IL MITO DI THEUTH

La diffidenza che Platone aveva per la scrittura era una conseguenza del suo discepolato presso il maestro Socrate. Su questo però fu del tutto incoerente. E il fatto d'aver scelto il dialogo come modalità più adatta a esporre la sua filosofia, non rende questa più concreta e realistica. Quando si rivendica la superiorità della cultura orale su quella scritta, non si può tergiversare. Se si è davvero convinti che la vera conoscenza, quella utile per il presente, implica un rapporto vivo tra gli interlocutori, un qualunque testo scritto la falsifica o comunque ne riduce lo spessore, la portata.

Il mito di Theuth, da lui completamente inventato nel Fedro (anche se qualcuno l'ha identificato col dio lunare Thoth), in cui si parla di tutto ciò, ha degli aspetti poco sensati. Infatti il dio, quando si recò presso il proprio re Thamus (che alcuni identificano con Ammon), proponendogli di far imparare agli egizi la scrittura, non avrebbe potuto incontrare un rifiuto così categorico, aprioristico, semplicemente perché la scrittura è sempre stata considerata dai sovrani uno strumento di discriminazione usato dalle classi più alte: serviva appunto per impedire facili emancipazioni; solo chi la conosceva poteva far carriera o elevarsi di grado.

Inoltre, di fronte alla prospettiva, offerta da Theuth, che la sua arte potesse arricchire facilmente chiunque ne possedesse il segreto, nessun sovrano si sarebbe tirato indietro. E poi quale re avrebbe potuto contraddire, senza pagarne le conseguenze, le proposte di un dio? di un dio, peraltro, che già aveva inventato i numeri (e quindi il calcolo), la geometria e l'astronomia, per non parlare di vari giochi d'intelligenza?

Che senso ha questo mito? S'è mai visto un faraone che si oppone a un progresso culturale che avrebbe potuto favorire quello materiale di molti concittadini? Questa domanda è destinata a rimanere senza risposta. Infatti, anche paragonando, in chiave psicologica, Platone a Thamus e tutta la filosofia a lui precedente a Theuth, non si ottengono suggerimenti meritevoli d'essere approfonditi.

Più interessante invece è la motivazione con cui il sovrano rinuncia all'uso della scrittura. Chi l'apprenderà - egli afferma con sicurezza apodittica - cesserà di esercitare la memoria, perché, fidandosi dello scritto, richiamerà le cose alla mente non più dall'interno di se stesso, ma dal di fuori, attraverso segni estranei. Insomma la scrittura serve non per esercitare una memoria interiore, ma soltanto per richiamare alla mente, in maniera artificiosa e alquanto superficiale, delle nozioni astratte.

Questa cosa è verissima, e anche la successiva: gli studenti, grazie alla scrittura, possono avere notizie di molte cose, ma senza alcun vero insegnamento si credono illusoriamente sapienti.

Tuttavia, se questo è vero, perché Platone scrisse così tanti libri? La risposta qui è molto semplice: la sua filosofia non s'è mai trasformata in azione, se non nella fase immediatamente successiva alla morte del suo maestro. La sua filosofia è rimasta tale e non è mai diventata una politica, come invece fu quella di Socrate, anche se il Socrate ch'egli delinea nei suoi testi appare con un filosofo allo stato puro, del tutto estraneo alle vicende politiche.

Ma la vera domanda in realtà è un'altra: chi aveva detto a Socrate che la scrittura non serve a niente per realizzare concretamente una politica davvero democratica? Qui la risposta che dà Platone è completamente fuori luogo. Infatti fa dire a Socrate che il motivo dell'inutilità della scrittura sta nel fatto che la vera sapienza è tutta interna all'anima, ed essa viene fuori solo nel dialogo, oltre che ovviamente nel solito tema orfico-pitagorico relativo alla reminiscenza della verità appresa nell'iperuranio in una vita precedente, che Platone, nei suoi testi, ripete come una mantra e che Socrate non avrebbe mai condiviso, proprio perché, posta la conoscenza in questi termini, la funzione del dialogo diventa piuttosto relativa. Se tutto è già dentro di noi, serve a poco parlare con gli altri.

Con ciò Platone rinchiude la filosofia politica di Socrate in un orizzonte individualistico, molto astratto, in cui il massimo della relazione sociale è il rapporto io-tu, in cui peraltro esiste un io che sa tutto e un tu che non sa nulla, come spesso succede nei suoi dialoghi.

Invece l'atteggiamento di Socrate doveva apparire alquanto rivoluzionario ai concittadini del suo tempo. Rifiutare la scrittura come forma di persuasione, d'insegnamento e di riscatto sociale, doveva apparire piuttosto insolito, almeno nella cultura ellenica.

Eppure, nel comportarsi così, Socrate non aveva fatto altro che recuperare una modalità d'esistenza pubblica e privata molto antica, anteriore alla stessa civiltà schiavistica del mondo greco e persino del mondo egizio. Egli aveva avuto intenzione di riproporre una relazione sociale dell'epoca primitiva, preistorica, dove la democrazia era davvero autentica, pur non esistendone neppure il nome.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 13-09-2016