PLATONE E LA GIUSTIZIA

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PLATONE (428-27/347)

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Platone e la giustizia

La Repubblica, dialogo dedicato al tema della giustizia, si apre con le considerazioni di Cefalo, il padre di Lisia, sulla vecchiaia e si chiude con il mito di Er sul destino delle anime dopo la morte: i problemi esistenziali dell’individuo trovano la loro soluzione nella giustizia della città. L’individuo è in piccolo quel che la città è in grande ed è un elemento della città.

In posizione centrale, all’inizio del libro VII, c’è il mito della caverna. La Giustizia, come tutta la vera realtà, è fuori della caverna. Nella caverna arrivano solo ombre della realtà esterna. Per capire le ombre bisogna sapere di che cosa sono ombre. Bisogna uscire dalla caverna per capire bene quel che si vede nella caverna.

Con il mito della caverna, Platone offre una metafora poetica e molto efficace alla distinzione che la filosofia (Eraclito, Pitagora e Parmenide) ha elaborato fra doxa e alètheia. Bisogna uscire dalla caverna per trovare la giustizia della città e degli individui della caverna. Il problema della giustizia è una questione di conoscenza, di vera conoscenza. Prima e fondamentale condizione per realizzare la giustizia è la conoscenza della giustizia. L’uscita dalla caverna non è per tutti. È per pochi. I più restano nella caverna e i pochi che ne sono usciti devono tornare nella caverna. La città giusta va costruita nella caverna.

Platone, di origine aristocratica, propone, sotto influenza pitagorica, una rivoluzione aristocratica: l’aristocrazia trovi la sua origine e la sua legittimazione nel sapere, più che nella nascita. Platone non rinnega l’aristocrazia del sangue: nella sua città ideale i figli delle classi dirigenti, i figli dello Stato, se non sono particolarmente inadatti, diventano guardiani e filosofi; i figli dei lavoratori subalterni, nati in famiglia, ereditano la sorte dei genitori, se non hanno doti eccezionali che ne rendano possibile la promozione sociale all’educazione statale. Platone, però, propone come più profondo fondamento dell’aristocrazia il sapere.

Siamo lontanissimi da Protagora e dal suo discorso sui doni di Zeus. Siamo molto lontani anche dalla maieutica socratica praticata in piazza, per strada e, tendenzialmente, a disposizione di tutti (nel Menone, Socrate pratica, con successo, la maieutica su uno schiavo!).

Platone è pitagorico: si arriva alla giustizia con la conoscenza e la matematica ha, nell’educazione alla vera conoscenza, una funzione fondamentale: determina il distacco dello sguardo dalle ombre e il suo passaggio alla visione degli enti veramente reali, quelli ideali. Platone propone la funzione educativa della matematica per le stesse ragioni per cui condanna l’arte imitativa, che abitua a prendere sul serio le ombre della caverna e le riproduce, realizzando ombre delle ombre della realtà.

Il distacco matematico dalle ombre introduce all’educazione filosofica. Dagli enti ideali matematici alle idee-valori, fra le quali c’è la Giustizia. Il sapere matematico introduce al sapere filosofico, alla conoscenza del dover essere, del Bene. L’educazione matematica determina il passaggio dall’opinione alla scienza, l’educazione filosofica promuove il passaggio dalla scienza dell’essere (gli enti numerici e geometrici, le Idee della matematica) alla scienza del dover essere (le Idee-valori, al vertice delle quali c’è il Bene).

Platone si serve dell’evidenza che caratterizza il primo passaggio conoscitivo per proporre anche il secondo e ben più decisivo passaggio, dopo il quale la consegna del potere ai filosofi diventa una conseguenza scontata. Se si può raggiungere la scienza del Bene, di cui la Giustizia è parte; se questa scienza ha i caratteri di certezza e di stabilità della scienza matematica, perché non consegnare la città a chi possiede questo sapere?

Il vero, nella sua forma più alta, è il Bene. L’identità di vero e di bene è il principio cardine della filosofia platonica. È dato per scontato, ovvio. Esso fonda la corrispondente identità di sapere e potere, promuove il sapere al potere! È la soluzione di Platone alla crisi di Atene che manda Socrate a morte. È la rivoluzione pitagorica, che ha avuto nella storia europea molte imitazioni.

L’idea di Giustizia della Repubblica è l’idea della città ideale, tripartita, con i filosofi al potere e senza leggi. L’aristocratico Platone, rifondando l’aristocrazia sulla scienza del bene, recupera l’arcaica diffidenza aristocratica nei confronti delle leggi: se la città è in mano ai migliori, a coloro che conoscono il bene, che bisogno c’è di leggi? Esse non possono che introdurre con la loro astrattezza elementi di rigidità nel governo dei filosofi, che merita totale libertà discrezionale. Se i filosofi sono arrivati a conoscere la Giustizia, perché vincolarli con elementi rigidi e astratti di giustizia quali sono le leggi?

L’idea moderna delle leggi a difesa dei cittadini dal potere dello Stato è lontanissima dalla Repubblica: se il potere è nelle mani di chi conosce il Bene, quali pericoli corrono gli individui?

Ma Platone riteneva possibile realizzare la sua città ideale? Ha senso questa domanda? Proviamo a rispondere mettendo in campo alcuni dati.

  • Nel Fedro, scritto negli stessi anni della Repubblica, Platone propone il mito del volo celeste dell’anima verso l’iperuranio, un volo difficile, al seguito degli dèi che si muovono con facilità. Poche anime umane riescono a raggiungere la pianura della Verità e per poco tempo. Il mito ripropone la metafora dell’uscita dalla caverna.
  • Se l’uscita dei filosofi dalla caverna è difficile, parziale e per breve tempo, come la vista della Verità iperuranica, i filosofi tornati nella caverna e messi al potere della città sanno che la verità delle ombre è fuori della caverna, ma sanno anche che la loro conoscenza non è divina, che la stabilità scientifica della Giustizia resta un ideale.
  • Nella Lettera VII, Platone, ormai vecchio, riconosce i limiti della scienza.
  • Se è vero che il Critone è stato scritto in età matura, come ritengono molti studiosi, la sua celebre prosopopea delle Leggi ci conferma che per Platone solo l’ideale, ma non reale, città della Repubblica può fare a meno delle leggi.
  • Nel Politico, opera della vecchiaia, Platone riconosce il valore delle leggi, perché la forma di governo perfetta, quella che si distingue dalle altre “come dagli uomini un dio”, non è di questo mondo (1). Bisogna, quindi, accontentarsi di “seguire le tracce” della città ideale, redigendo leggi alle quali i governanti devono attenersi (2). Tuttavia, con acuto senso del limite, osserva che “la legge non potrà mai cogliere ciò che è il meglio e il più giusto esattamente per tutti e stabilire così ciò che è perfettamente conveniente: giacché la differenza che c’è tra i vari uomini e le varie azioni, e la infinita, inquieta variabilità dei casi umani non permettono che nessuna arte definisca nulla di assoluto che valga per tutti i casi e per tutti i tempi” (3).
  • Nelle Leggi, ultima opera, Platone affida alle leggi la fondamentale funzione educativa.
Penso che si possa concludere che, per Platone, muovere verso l’utopia non significhi esserci stabilmente arrivati, perché, nel tentativo esistenziale di imitare gli dei, l’uomo si rende conto di non essere un dio ed ha bisogno di “tracce”.

(1) Politico, 41, 303 b.
(2) Ivi, 40,301 d-e.
(3) Politico, 33, 294 b-c.

Giuseppe Bailone 2007

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 13-09-2016