LA REVISIONE DELLA TEORIA DELLE IDEE NELL'ULTIMO Platone

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PLATONE (428-27/347)

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LA REVISIONE DELLA TEORIA DELLE IDEE NELL'ULTIMO Platone

Nel suo Parmenide Platone cominciò a riflettere seriamente su un aspetto controverso della sua filosofia, riguardante i rapporti tra cose e idee. Fu l'inizio di un ripensamento che porterà, già nel Sofista, a prodigiosi sviluppi linguistici, passati alla storia come "teoria dei generi". L'eccessiva dipendenza dalla metafisica parmenidea, ch'egli poneva a inizio della filosofia qua talis, a dispetto di quella naturalistica ad essa precedente, l'aveva portato a un vicolo cieco.

Platone era un idealista e Parmenide, con la sua categorica dottrina dell'essere, per cui B non potrà mai essere A e il non-A non esiste, lo aveva aiutato benissimo (tanto quanto Pitagora, con la pretesa di ridurre tutto a numero e di vivere in maniera ascetica) a sviluppare il suo autoritarismo sapienziale e cattedratico.

Quando giunse però alla maturità cominciò a chiedersi se davvero era giusto pensare che ad ogni cosa terrena vi fosse una corrispondente idea assoluta nell'iperuranio. Aveva già affrontato questo tema nel Fedro, nel Fedone e nella Repubblica, offrendo sempre la medesima soluzione: il rapporto tra idee e cose è essenzialmente mimetico (imitativo), nel senso che le cose sono copie di idee corrispondenti (i singoli uomini, p. es., sono copie dell'idea di uomo). L'idea è l'essenza dell'esistente.

Aveva però individuato anche un altro modo di relazionare cose e idee: quello metessico (partecipazione), secondo cui vi sono qualità delle cose (i predicati dell'esistente) che possono partecipare alle idee corrispondenti (p.es. Socrate è giusto in quanto partecipa all'idea di giustizia). E così, mentre l'idea imitata dalle cose è unica, le idee partecipate sono molteplici.

Il giovane Platone preferiva la mimesi, perché dava più sicurezza logica e astratta; quello maturo preferisce invece la metessi, più aperta alla diversità. Bisognava insomma andare oltre Parmenide e le sue tautologie. Platone però, avendo fatto tutta la sua vita soltanto il filosofo, non poteva farlo che in maniera filosofica. E fu così che sviluppò una serie di ragionamenti incredibilmente avanzati e complessi, forse tra i più moderni di tutta la sua filosofia. In un certo senso egli inventò la filosofia del linguaggio, che potremmo anche chiamare linguistica e logica formale.

Da queste riflessioni puramente filosofiche emergeranno, col passare dei secoli, scienze che oggi non abbiamo dubbi a considerare esatte, come p. es. l'insiemistica (in matematica), l'informatica (si pensi solo all'utilizzo degli operatori booleani nelle ricerche di parole su testi indicizzati, o alle relazioni tra tabelle nei database, all'uso dei diagrammi di flusso e a blocchi (flow chart) o all'uso dello storyboard nella costruzione di un sito-web o di un fumetto o di uno spot e persino di un film, ma anche a tutti i linguaggi telematici veri e propri), la biblioteconomia (la classificazione decimale di Dewey per catalogare i libri), tutte le classificazioni e nomenclature della materia organica e inorganica, sino alle scienze più vicine all'area umanistica, come lo strutturalismo, il formalismo, la logica ecc.

Cosa aveva scoperto Platone di così tanto eccezionale da sentirsi autorizzato a tralasciare la teoria della mimesis, in cui aveva sempre creduto? Aveva scoperto che l'associazione cose/idee poteva valere solo per le cose più significative, quando ci si limitava alle essenze; ma se si pensava di sviluppare la methexis, si potevano catalogare una serie infinita di cose, anche le più banali, anche con un numero limitato di termini.

Nel Parmenide egli era giunto alla conclusione che l'uomo potrebbe mettere in relazione tutte le cose a una condizione, quella di conoscere perfettamente tutte le idee in sé. Senonché questo a nessuno è possibile farlo, perché, vivendo sulla terra, si deve per forza passare attraverso la mediazione delle cose, che sono soltanto copie delle idee. Delle due quindi l'una: o si restringe la conoscenza soltanto alle cose essenziali, oppure, se la si vuole ampliare a qualunque cosa (anche quelle meno nobili, come p.es. le unghie, i capelli e il fango), bisogna lasciar perdere la questione dell'essenza e limitarsi alle relazioni di significato, che sono una sorta di combinazioni di più idee.

E' così che nasce la teoria dei generi: un numero circoscritto di idee poteva spiegare una quantità indefinita di cose ("spiegare" nel senso di classificare, catalogare, categorizzare). Era il trionfo della predicazione sull'essere astratto, metafisico, che pur Platone si guardava bene dall'abbandonare.

Parmenide era stato troppo schematico: per lui la predicazione non poteva neppure esistere. Una cosa infatti non poteva essere identica e, allo stesso tempo, diversa da un'altra. Se dico che Socrate non è Platone, predico il non essere di Socrate, cioè egli "non è" non in quanto diverso da altri, ma in quanto inesistente. Anche se dico che Socrate è sapiente, affermo che Socrate non è Socrate, ma un'altra cosa, cioè appunto che è sapiente. Parmenide vedeva le cose in bianco e nero; invece Platone inizia a vederle, nella maturità, in tutte le loro sfumature di grigio. Le cose sono anche quando "non sono", perché quando "non sono", sono pur sempre in relazione semantica ad altre cose esistenti (foss'anche una relazione di non appartenenza) e diventa più facile padroneggiarle (quanto meno sul piano linguistico).

Quindi tra le idee più generali bisogna mettere non solo l'essere (cioè il fatto di esistere), ma anche il non-essere (formale, linguistico, relazionale, dialettico). In particolare per "generi sommi" (quelli dai quali tutti gli altri dipendono) Platone intendeva l'essere, che è identico a se stesso e diverso da altro, e il divenire, nel senso di moto o quiete. La filosofia di Eraclito si stava prendendo la rivincita su quella parmenidea.

Persino il verbo "essere" andava reinterpretato. Cioè se dico "Socrate è" sarebbe contraddittorio sostenere, nello stesso tempo, che "non è". Ma se dico "Socrate non è bello", gli ho soltanto negato una qualità, senza negargli l'esistenza né altre qualità. Sembra una banalità, ma se da questa semplice cosa è nata una poderosa filosofia del linguaggio, con tutti i crismi della logica formale, ci accorgeremo che si trattò di una vera e propria rivoluzione, di cui il primo a rendersi conto sarà il discepolo più significativo di Platone: Aristotele.

* * *

Ragionando sulla teoria dei generi, Platone si trova ad un certo punto costretto a riformulare la definizione che in precedenza aveva dato al termine "dialettica". Infatti, ora non è più questione di "ragionare insieme" per trovare la verità, e neppure di saper usare l'analisi e la sintesi nell'esporre le cose. Si tratta piuttosto di catalogare o classificare o categorizzare le cose dividendole per generi e specie, creando una sorta di struttura ad albero, in cui un'idea complessa viene suddivisa in tante idee più semplici.

L'esempio, abbastanza complicato, che Platone propone è quello del pescatore con la lenza. Partendo da una definizione del genere, egli si chiede come la si possa scomporre sino alle definizioni minime. Ma, per farla breve, è sufficiente usare la parola "uomo", che è di genere animale, di specie mammifero, di ambiente terrestre, di postura bipede, di vista binoculare e così via. In pratica si costruisce una sorta di mappa concettuale.

Siccome Platone era un idealista, sarebbe partito sempre da un'idea generale o comunque generica e avrebbe finito con lo scomporla sino agli elementi specifici più semplici, mettendola, in un certo senso, alla prova. Ma è evidente che si può procedere anche in maniera inversa, come in certi percorsi romanzati o sceneggiature filmiche o semplici giochi, dove, a forza di scegliere le opzioni sbagliate, si finisce col trovare la soluzione giusta.

Più interessante invece il fatto che, in questa maniera, si doveva continuamente riflettere sul tipo di relazioni da fissare per avere una conoscenza la più possibile razionale. Generalmente infatti le idee (o categorie) sono tra loro connesse in maniera gerarchica, secondo rapporti d'affinità o compatibilità o appartenenza o inclusione. P. es. l'idea di "gatto" può essere inclusa in quella di "felino", ma non è certamente possibile fare il contrario.

Inutile dire che da una tale categorizzazione ad albero, in cui tutto viene ridotto a una questione terminologica di classificazione (che agli inizi del basso Medioevo verrà ripresa soprattutto dai nominalisti, mentre discutevano sui cosiddetti "universali"), si poteva facilmente passare a una squalificazione delle astratte metafisiche, in quanto il concetto stesso di "essere" non avrebbe più potuto beneficiare di alcuna scontatezza: diventava una semplice parola che, come tante altre, andava ogni volta precisata nel suo significato.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 13-09-2016