LO PSEUDOCOMUNISMO DI PLATONE

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PLATONE (428-27/347)

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LO PSEUDOCOMUNISMO DI Platone

E' a dir poco vergognoso che tutti i manuali di storia della filosofia usino il termine "comunismo" per qualificare le bislacche idee stataliste che aveva Platone. Forse gli autori lo fanno per prendersi una rivincita nei confronti di Marx, il quale, avendo la presunzione di dire che tutti i filosofi della storia, inclusi quelli della Sinistra hegeliana, che pur avevano inventato il moderno ateismo, s'erano semplicemente limitati a "interpretare" il mondo, quando invece il problema era come trasformarlo, sostituendo la filosofia con la politica. Sicché egli doveva essere messo alla berlina, dopo che tutto il mondo aveva visto, e quindi anche i filosofi impenitenti, quali disastrosi risultati s'erano ottenuti dall'applicazione dell'ideologia comunista.

E così, cosa ci poteva essere di meglio che far passare per "comunista" qualsiasi corbelleria, anche precedente a Marx, che prevedesse l'abolizione di quel sacrosanto principio borghese chiamato "proprietà privata"?

I suddetti autori dovrebbero però anche aggiungere, visto che di Platone accettano quasi tutto il resto, che le sue assurde teorie politiche erano una diretta conseguenza delle sue teorie filosofiche. Sicché, se proprio si vuol parlare di "comunismo", lo si metta almeno tra virgolette, precisando, quanto meno, che si trattava piuttosto di una forma di "statalismo", la quale, per fortuna, Platone non riuscì a realizzare da nessuna parte e che, forse proprio per questo, egli ne parlò in maniera più che altro provocatoria, per sfidare una cittadinanza resasi colpevole della più grave ingiustizia che avesse mai compiuto: condannare Socrate a morte.

Ma quali erano le teorie platoniche in materia di politica, fatte passare per "comuniste" dai manuali di filosofia? Nella Repubblica il Platone aristocratico si comporta come un moralista parlando di tre categorie sociali: i filosofi-politici, cioè coloro che governano, i militari, cioè coloro che difendono la polis,  e i lavoratori in generale. Una volta deciso il loro ruolo nello Stato, sono inamovibili.

Le prime due categorie sono ovviamente di un livello molto superiore, ma siccome Platone pensa sempre che uno possa corrompersi, delinea delle precauzioni che dovrebbero aiutare i loro componenti a restare integri. Quali sono queste precauzioni?

Le fondamentali sono due:

  1. i politici e i militari non possono sposarsi né avere proprietà privata (se non per le cose di primaria necessità), altrimenti non potrebbero dedicarsi totalmente al bene comune: in particolare non possono possedere una casa o un magazzino in via esclusiva, cioè vietandone l'accesso ad altri; di sicuro non devono possedere né oro né argento, poiché queste cose sono fonte di ogni male; oltre al salario di stato non possono avere alcun altro reddito, per cui non sarebbero in grado né di fare un viaggio né di fare regali; tutto ciò di cui hanno bisogno devono riceverlo gratuitamente dallo Stato, in maniera sufficiente per vivere una vita dignitosa;
  2. siccome però i politici e i militari rappresentano le classi migliori, e la riproduzione umana è necessaria, si accoppieranno con le donne migliori, che risulteranno quindi di "proprietà collettiva"; l'accoppiamento sarà una sorta di "dovere sociale", che non implicherà alcun sentimento d'amore, in quanto non ci sarà alcun legame matrimoniale, né il riconoscimento della paternità o maternità dei figli, essendo questi di "proprietà" dello Stato, che si occuperà di farli diventare politici, militari o lavoratori.

Queste cose vengono dette nella Repubblica, con non pochi ripensamenti, per fortuna, nel Politico e nelle Leggi.

Qual è dunque l'ideale di "statista" per Platone? Anzitutto è un uomo celibe, disposto a procreare solo con donne molto intelligenti, nella convinzione che i figli ereditino i geni migliori di entrambi, pur venendo educati da istituzioni pubbliche. Ciò comunque non escludeva il passaggio da una classe sociale all'altra.

Lo statista, che è un filosofo cinquantenne pronto a governare, non è un uomo che può provare sentimenti o passioni di tipo sentimentale o amorose, in quanto ciò lo distoglierebbe dalla sua attività, che prima di essere politica, è stata di tipo scientifico, filosofico e militare (beninteso, mettendo la filosofia al vertice). Può, dentro di sé, provare delle "passioni", ma solo per la ricerca del bene, della giustizia e della verità.

L'arte viene rifiutata in toto, ad eccezione della musica, la cui logica è affine alla matematica (ma senza il canto, che potrebbe eccitare) e, anche per quanto riguarda la poesia, prima bisogna depurarla da tutti quegli elementi sconvenienti sul piano morale.

A chi somiglia uno statista del genere, la cui idea pareva irrealizzabile a chiunque Platone la proponesse? Somiglia a quegli extraterrestri che, nei film di fantascienza, occupano il nostro pianeta, ritenendo noi umani troppo primitivi per poter popolare l'universo. Loro si ritengono infinitamente più avanzati, in quanto, grazie all'uso della ragione, sono in grado di controllare eugeneticamente la popolazione; d'infondere nei lavoratori il rispetto assoluto di politici e militari del tutto spersonalizzati; d'impedire che tra quest'ultimi, privati di ogni proprietà e mantenuti dai lavoratori, possano nascere gelosie e rivalità.

Dove sta il moralismo in questa concezione della politica?

  1. nel fatto che questo stile di vita non lo si ritiene praticabile dai lavoratori, che sono la stragrande maggioranza dei cittadini, per i quali anzi si pensa che il guadagno economico sia uno stimolo a fare sempre meglio. Sicché Platone pensa che i lavoratori debbono accontentarsi di guadagni leciti, in maniera che sia impedita sia la ricchezza eccessiva che la povertà;
  2. non ritenendo possibile questo stile di vita per tutti i lavoratori, che possono quindi arricchirsi, pur entro certi limiti, Platone s'illude che nei custodi della città (politici e militari) l'idea di rinunciare ad arricchirsi (cioè ad avere delle eccedenze o delle proprietà che vadano oltre il mero soddisfacimento dei bisogni) possa rimanere inalterata nel tempo.

Questi custodi devono convincersi del fatto che la loro felicità sta unicamente nella felicità della città nel suo complesso, per cui loro devono semplicemente sentirsi appagati del fatto che, pur non possedendo nulla, detengono le leve del potere della città, per cui possono intervenire in qualunque momento, soprattutto quando vedono, tra i lavoratori, che qualcuno si sta arricchendo contro gli interessi della città.

Si sa che ogni forma di moralismo contiene in sé degli aspetti d'illusorietà. Uno l'abbiamo già visto: quello di pensare che una gestione libera della proprietà non possa condizionare l'altruismo di chi, stando al potere, non può praticarla. A tale proposito Platone avrebbe dovuto rispondere alla seguente domanda: siamo proprio sicuri che tra gli statisti "nullatenenti" non scoppierebbero profonde rivalità, pur in assenza di proprietà privata? Nella Russia di Stalin e nella Cina di Mao non era forse questa la regola all'ordine del giorno? Peraltro, siamo proprio sicuri ch'essi non concepirebbero tale assenza di proprietà come un diritto a usare liberamente qualunque cosa, a proprio arbitrio, dimostrando così di non essere affatto gli individui "migliori" della società?

L'altra è il rovescio di questa, ed è quella tipica di tutte le rivoluzioni borghesi: chi dispone di proprietà privata non ama essere tenuto sotto controllo da un potere politico che non sia diretta espressione dei suoi interessi. Inevitabilmente tra i lavoratori più ricchi si formeranno delle alleanze per trasformare il loro potere da economico a politico.

Non è da escludere che persino tra il genere femminile, che pur Platone si vanta di non escludere dalla carriera politica, si possono formare delle rivendicazioni sul diritto ad essere "donna" e non mero oggetto riproduttivo.

Platone ha sempre pensato a un tipo di Stato al di sopra delle parti, che si rivela necessario proprio in quanto gli uomini, lasciati a se stessi, non sarebbero assolutamente in grado di governarsi, sia perché nessuno, da solo, è in grado di badare a se stesso, sia perché gli istinti prevarrebbero sulla ragione.

Tuttavia in un regime sociale caratterizzato da divisioni di ceti e di classi, in cui esistono cittadini liberi e schiavi, e dove le differenze si insinuano fortemente anche tra maschio e femmina, lo Stato sarà sempre un ente al servizio delle categorie più forti. E' lo Stato in sé che va superato, facendo della società civile l'unico luogo dell'autogoverno, in cui le differenze sociali sono superate dalla proprietà comune (che non vuol dire "statale") dei fondamentali mezzi produttivi.

Insomma, siamo proprio sicuri che nella Repubblica siano presenti le prime tracce di comunismo apparse nell'ambito delle civiltà divise in classi? Come mai allora se la portavano nello zaino gli ufficiali nazisti?

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 13-09-2016