LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

(a.1.1) L’arcano dell’accumulazione originaria in Marx

Per quanto riguarda il pensiero di Marx e dei suoi sostenitori, Pellicani mostra chiaramente di non condividerne né l’impostazione dialettica [= la realtà si pone in contrasto con se stessa e si svolge nella contraddizione; il continuo superamento della contraddizione è la base di un progresso storico continuo, per sua natura indirizzato verso una meta ultima: la liberazione materiale e morale dell’uomo] né quella economicistica [= la dimensione economica come motore ultimo del divenire storico e sociale; idea che implica – in unione col punto precedente – che le varie forme o modi di organizzazione economica costituiscano, nella loro evoluzione, il soggetto ultimo del movimento dialettico della storia, ossia ciò in cui tale movimento concretamente si invera].

L’autore contesta fondamentalmente a Marx e ai marxisti due idee di fondo: a) quella (dialettica o storicistica) secondo cui la storia umana costituirebbe un progresso continuo e inarrestabile verso un meta finale, b) quella secondo cui la dimensione economica costituirebbe, nella sua evoluzione interna, il motore ultimo del progresso della storia nel suo complesso (economicismo). Al contrario, secondo Pellicani, sono i fattori politici e istituzionali a determinare i modi produttivi che caratterizzano le società umane. Proprio questa tesi infatti – assieme alla precedente, ad essa profondamente legata, che nega ogni intrinseco finalismo storico – è ciò che l’autore si sforzerà di dimostrare nel corso del suo saggio.

Ma torniamo al punto da cui eravamo partiti, ovvero alla critica della teoria marxista della genesi del capitalismo. Tale teoria si basa su un problema che Marx definì l’“arcano dell’accumulazione originaria”, e che sorse in lui dalla constatazione che il capitalismo non nasce dallo sviluppo del commercio in quanto tale (una tale attività difatti, è presente sin dalle epoche più remote e più o meno in tutte le società umane), bensì dalla divisione della popolazione tra una maggioranza di lavoratori salariati, costretti a vendere il proprio lavoro ad altri per il fatto di non essere proprietari dei mezzi alla base del loro lavoro (proletari) e una minoranza di “capitalisti”, proprietari di enormi quantità di danaro (capitale) con cui possono acquistare i mezzi (tanto gli strumenti tecnologici, quanto le materie prime, quanto infine il lavoro degli stessi proletari) necessari alla produzione di beni da cui ricaveranno un profitto.

Secondo Marx, è una tale separazione a rendere possibile una produzione di tipo capitalistico, ciò che costituisce quindi il discrimine più profondo tra essa e le altre forme di organizzazione produttiva.

Ma, si chiede Marx, se il Capitale è il mezzo imprescindibile (oltre che il fine) della produzione capitalistica, e se questa può sorgere solo a partire da un capitale iniziale, dove trovarono i primi capitalisti (i “pionieri” del capitalismo) il loro capitale di partenza? Quest’ultimo infatti non poteva, secondo il discorso che Marx stesso aveva sviluppato, formarsi economicamente prima dell’instaurazione del capitalismo – e ciò dal momento che le forme di organizzazione produttiva a esso precedenti non erano in grado, in quanto ancora essenzialmente orientate al consumo anziché all’accumulazione, di creare un vero capitale.

Per rispondere a una tale spinosa domanda, osserva Pellicani, Marx dovette rinunciare alla sua stessa ipotesi di base, ovvero all’idea che l’economia sia motore di se stessa. Troppo chiaro gli appariva infatti, che un tale capitale iniziale non poteva essersi formato per via puramente economica, dal momento che – come appena accennato – sia il feudalesimo delle campagne che il sistema corporativo delle città non potevano assolutamente dare luogo a un’accumulazione di ricchezze monetarie paragonabile a quella necessaria per avviare la produzione capitalistica.

La spiegazione che Marx diede a questo arcano dunque, fu che un tale capitale di partenza si fosse formato tra XVI e XVII secolo (e non prima di tale periodo!) in seguito all’affermazione tra i nascenti Stati nazionali di una pratica sistematica d’esproprio a favore dell’alta borghesia, di terre fino ad allora ritenute comuni o stabilmente assegnate a piccoli contadini. Gli stati nazionali infatti, sosteneva Marx, avevano troppo bisogno dell’appoggio economico e politico della classe borghese, per non favorirne volontariamente e consapevolmente lo sviluppo economico, anche se necessario con misure di natura coercitiva e violenta. E furono appunto tali misure a “fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico” (pag. 28).

Pellicani nota inoltre, come attraverso una tale teoria Marx non entrasse in conflitto solo con se stesso, ma anche con gran parte della storiografia economica del suo tempo (da Marx definita borghese), la quale sosteneva che una tale capitale ‘originario’ non fosse in realtà null’altro che il prodotto della plurisecolare laboriosità e propensione al risparmio della borghesia medievale (teoria questa, da Marx rifiutata non solo per i motivi già delineati, ma anche per la sua irriducibile avversione alla classe borghese!) Marx opponeva insomma, alla visione classica e continuista in merito alla nascita dell’economia moderna (che ancora oggi ha peraltro, come vedremo, molti sostenitori) una visione discontinuista, basata sull’idea della violenza di stato come fattore di rottura tra il vecchio e il nuovo sistema, ovvero come motore di avviamento della moderna produzione capitalistica industriale.

Vedremo avanti che Pellicani non condivide essenzialmente una tale tesi. Pur ammettendo che l’espropriazione forzata delle terre sia stata un fattore decisivo per lo sviluppo del capitalismo moderno, egli si rifiuta infatti di porre una cesura netta tra la borghesia tardo-medievale e quella capitalistica moderna, ovvero di dare al fattore della violenza di stato (che pure indiscutibilmente vi fu) un valore fondativo per la nascita del capitalismo stesso.

Qui tuttavia, ci preme soprattutto di osservare come Marx, ponendo la violenza politica e militare (… da lui definita, in questo come in altri casi, levatrice della storia) dei nascenti stati moderni come motore primo dello sviluppo capitalistico, finisse per contraddire la sua stessa ipotesi esplicativa di base, ovvero l’idea della capacità autogenerativa delle forme economiche, viste come forze motrici esclusive della storia umana.

Dopo questa disamina del pensiero di Marx, Pellicani si dilunga a mostrare il modo in cui i suoi eredi cercarono di risolvere l’aporia posta dal loro maestro. In particolare, egli descrive il tentativo, a suo dire poco credibile, di un famoso storico dell’economia marxista, Maurice Dobb, di fare ciò che lo stesso Marx non era riuscito a fare: dimostrare cioè la ‘filiazione’ del capitalismo dalla forma di organizzazione economica precedente, il feudalesimo. Un tentativo – spiega Pellicani – tanto fallimentare e forzato da finire per confermare, seppure indirettamente, l’ipotesi metodologica alla base del suo saggio: la priorità dei fattori istituzionali e politici su quelli economici.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014