LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

-- Il miracolo giapponese --

L’unico paese asiatico nel quale – almeno al tempo in cui questo testo fu scritto – si fosse sviluppata una florida economia capitalistica, era il Giappone. Proprio per questa ragione, il ‘miracolo’ giapponese è l’argomento che Pellicani affronta nell’ultimo capitolo, o Nota, del suo libro.

La tesi da lui avanzata è abbastanza semplice, ed è che all’origine di questo presunto miracolo vi fu in realtà la formazione, a partire dal XVI secolo, di una struttura istituzionale molto somigliante a quella dell’Europa feudale, in quanto caratterizzata da una profonda anarchia politica e militare. In subordine a tale fattore, egli riconosce poi l’influenza che, sempre a partire da tale secolo, gli olandesi esercitarono attraverso la propria presenza commerciale e culturale sulla società giapponese.

Anche in Giappone difatti, a partire da tale periodo, le strutture dello stato centralista e imperiale cominciarono a indebolirsi portando come conseguenza al frazionamento della società in aree semi-indipendenti, governate ciascuna da un signore locale, lo shogun, dalle forti connotazioni militari. Allo shogun del resto, era sottoposta una vasta gerarchia di funzionari armati che componevano una sorta di aristocrazia della spada (il cui ultimo gradino era costituito dalla classe dei samurai) che aveva il compito di governare e “spremere il surplus” a una massa di lavoratori agricoli tenuti ai limiti della sussistenza.

Anche qui inoltre, seppure forse in modo meno radicale che nell’Europa feudale, quella dell’imperatore finì col tempo per divenire una figura pressoché simbolica, ed anche qui si formò una classe di mercanti (chonin) insediati nei centri urbani, che gradualmente riuscì a smarcarsi dall’invadenza di poteri superiori conquistando diritti all’autodeterminazione economica e politica sempre maggiori.

Quest’ultimo fatto d’altronde – spiega l’autore – poté avvenire soprattutto per due ordini di ragioni: da una parte cioè per il disprezzo che l’alta società nutriva verso le attività svolte dai ceti urbani e mercantili (il codice d’onore dell’aristocrazia, il bushido, faceva difatti assoluto divieto ai suoi membri di ingerirsi in attività di natura commerciale); dall’altra per il fatto che i mercanti, non avendo garantito per legge il diritto alla proprietà fondiaria, fossero particolarmente inclini a reinvestire i propri profitti in nuove imprese commerciali. In tal modo il mondo delle campagne, che cadeva sotto la giurisdizione di una potente e spietata aristocrazia di rentiers-guerrieri, si separò sempre di più da quello delle città, sede dei traffici e della produzione artigianale.

A partire da questi presupposti, non può stupire il fatto che, nonostante alcune profonde differenze rispetto al feudalesimo europeo (tra le quali spiccano l’assenza dello scontro tra potere temporale e potere spirituale e legami di vassallaggio molto più forti e improntati a una fedeltà quasi assoluta), la società nipponica conoscesse sviluppi per molti aspetti analoghi a quelli che caratterizzarono la corrispondente fase della storia europea.

Anche qui infatti – ci mostra l’autore – le classi mercantili approfittarono della confusione e dell’anarchia politiche dilaganti al fine di “sviluppare liberamente i loro traffici e di accumulare ingenti patrimoni che reinvestivano con grandi profitti” (pag. 311) ed anche qui, inoltre, le città riuscirono con successo a emanciparsi dalla tutela politica dello stato e della nobiltà per conquistare sempre maggiori autonomie gestionali.

Né valse a interrompere questo trend la reazione di carattere antifeudale del periodo Togukawa (XVII-XIX secolo) durante il quale, grazie anche all’impiego delle armi da fuoco fornite in gran copia dagli olandesi, lo stato ripristinò il suo antico potere dirigistico, imponendo inoltre alla nazione, in contrasto con i periodi precedenti, una chiusura pressoché totale verso il mondo esterno.

Anche in questa mutata situazione difatti, i ceti commerciali ed artigianali continuarono a svolgere un ruolo essenziale nel soddisfare i bisogni delle classi dominanti, mentre al contempo si formò una nuova classe, quella dei ronin (come erano chiamati i samurai caduti in disgrazia a causa delle pesanti imposte statali sulla proprietà fondiaria), che si riversavano depauperati nelle città divenendo acerrimi nemici dello shogunato e delle antiche istituzioni nazionali (le quali infatti, contribuirono a scardinare al fianco delle classi mercantili).

Quando infine, agli inizi dell’Ottocento, divenne chiaro che la politica di isolamento commerciale del Giappone non poteva più essere mantenuta, la rinnovata influenza economica e culturale dell’Occidente poté contribuire a dare il colpo di grazia all’antica società nipponica, accelerandone la trasformazione in senso capitalistico. E tuttavia – ricorda l’autore – “penetrando attraverso le maglie del sistema feudale, la borghesia aveva [già] creato “un sistema di produzione industriale non di tipo artigianale o corporativo, ma piuttosto capitalistico”, il quale era oramai “la più avanzata economia dell’Asia”” (pag. 317).

Il caso del Giappone dunque, non dimostra soltanto (e una volta di più) come all’origine dello sviluppo capitalistico vi siano sempre fattori di natura politica e istituzionale, ma anche come l’influenza europea sul mondo asiatico abbia portato allo sviluppo di un’economia di mercato solo laddove già esistevano i presupposti perché ciò avvenisse. Una tesi questa, che trova un’ulteriore conferma nella storia della Russia, la quale, pur profondamente influenzata nella sua evoluzione dal contatto con la cultura tecnico-scientifica dei vicini paesi europei, rimase pur sempre ancorata – anche nel corso di quella grandiosa opera di rinnovamento interno che fu la Rivoluzione sovietica – alle sue antiche tradizioni stataliste e antilibertarie.

-- Il caso dell’URSS, un esempio di industrializzazione senza modernizzazione --

Già abbiamo accennato alla Russia, a questo enorme stato in parte europeo e in parte asiatico, vicino da alcuni punti di vista alla nostra storia e alla nostra cultura, ma anche per altri – altrettanto profondi – da esse molto distante. L’ambiguità di questo rapporto è ben esemplificata dall’Unione sovietica, una creazione politica (risultato, come noto, di una rivoluzione violenta che scalzò l’antico potere zarista) nella quale gli aspetti tecnologici e industriali della modernità europea si sommarono e mescolarono inscindibilmente con i caratteri politici tradizionali della società russa.

La tesi di Pellicani è riassumibile in sostanza in questa frase: “Tutti i tratti culturali che caratterizzano la società aperta – l’individualismo, la ragione illuministica, la separazione tra potere temporale e potere spirituale, l’istituzionalizzazione dei conflitti di classe ecc. – sono stati intenzionalmente e sistematicamente espunti dalla Russia comunista, ad eccezione della scienza, della tecnologia e dell’industrialismo” (pag. 301-2).

L’Unione sovietica insomma, lungi dall’essere, come molti vollero credere, l’espressione della modernità post-capitalista (ovvero di una società più moderna di quella attuale) fu in realtà il tentativo – peraltro riuscito – di conciliare le strutture istituzionali e ideologiche del mondo asiatico con i requisiti tecnologici della moderna civiltà occidentale. Essa non fu altro insomma, che “un’industrializzazione senza modernizzazione”, o meglio ancora “un’industrializzazione contro la modernizzazione” (pag. 302) dal momento che i rivoluzionari spazzarono via la gracile società civile (ovvero quel complesso di classi e attività urbane che ruotavano attorno alla nascente borghesia capitalistica) che lo stato zarista, in uno sforzo di modernizzazione dall’alto, era riuscita a formare.

Ciò che avvenne con la Rivoluzione d’ottobre, spiega Pellicani, fu “la rapidissima sostituzione di una “classe eletta” borghese con una nuova “classe eletta” ideo-burocratica” (pag. 302): un evento questo, che portò a una recrudescenza di quell’antico assolutismo statale che i membri dell’intellighenzia zarista avevano cercato di mitigare.

E tuttavia la Rivoluzione d’ottobre non fu soltanto un’opera di restaurazione politica: con essa difatti, almeno da certi punti di vista, lo scenario politico russo mutò radicalmente rispetto al passato. Soprattutto, mutò la cornice in cui si esercitava il dominio delle élite di stato: “la scena sociale fu interamente occupata da un nuovo soggetto storico: la burocrazia carismatica universale: carismatica, poiché traeva il suo diritto di comandare da una dottrina a carattere gnostico che si considerava il “risolto enigma della storia”; universale, poiché rivendicava una giurisdizione potestativa universale e non riconosceva nulla di privato” (pag. 303). Il Comunismo reale dunque, fu la realizzazione letterale di quel Dispotismo di matrice asiatica che, almeno fino ad allora, si era manifestato sempre in forme mitigate, nelle quali – nonostante lo strapotere statale – rimaneva pur sempre un certo margine d’azione per l’impresa individuale e la proprietà privata.

E tuttavia, ricorda l’autore, anche l’Unione sovietica dovette, almeno per un certo periodo della sua storia, scendere a compromessi con l’iniziativa privata e con il mercato. Ciò avvenne durante il periodo della NEP (nuovo corso economico), quando l’economia di guerra fece vacillare il nuovo stato sovietico e, con esso, il potere delle sue élite. Un tale corso ebbe peraltro effetti molto positivi sulla situazione generale, riproponendo (mi pare) l’antico e collaudato dualismo di piccola iniziativa privata (in questo caso contadina) da una parte e dirigismo di stato dall’altra.

Eppure, con la morte di Lenin e il passaggio dei pieni poteri nelle mani del suo successore Stalin, tale corso fu bruscamente invertito e i contadini indipendenti (kulaki) spazzati via attraverso una vera e propria guerra di sterminio.

Ma perché – si chiede l’autore – il potere sovietico era tanto determinato nello spazzare via ogni tipo di mercato? Per la semplice ragione che i mercati portano sempre in se stessi il seme della libertà, tanto economica che culturale. Essi si opponevano dunque al disegno staliniano di un totale assorbimento della società civile all’interno delle strutture burocratiche e militari dello stato, un disegno che forse in poche esperienze storiche venne perseguito con un rigore e una determinazione pari a quella della Russia sovietica.

Come Sparta secoli prima, anche l’Urss cercò di conservare la propria integrità politica attraverso la rimozione forzata di ogni forma di mercato. Essa non fece l’errore del Giappone del periodo Togukawa che, lasciando prosperare le classi mercantili, preparò involontariamnete la propria rovina. E tuttavia – possiamo dire oggi, a qualche anno dalla pubblicazione del libro – anch’essa, come Sparta, finì in ultimo per cedere alle lusinghe della modernità e dei mercati, rovesciando in modo repentino (e con effetti per molti versi disastrosi) i propri principi politici e morali.

A conclusione della sua analisi, Pellicani afferma che il caso sovietico conferma la tesi di fondo del suo saggio, cioè che “la variabile decisiva per spiegare la genesi del capitalismo è di natura politica. Se lo Stato riesce a comprimere, o addirittura a schiacciare, la società civile, l’economia viene, eo ipso, ingabbiata e quindi non può svilupparsi secondo la sua logica interna e trasformarsi in capitalismo” (pag. 307). In caso contrario invece, una tale trasformazione è, presto o tardi, destinata ad avvenire.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014