LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

(b) Critiche al testo

Dopo aver tediato i lettori con la mia lunga sintesi, che spero possa comunque dirsi esaustiva e soprattutto fedele allo spirito del testo, passo a esporre brevemente il mio personale punto di vista sul suo contenuto.

Senza avere la pretesa di “fare le pulci” a un libro che – come si può leggere su Wikipedia alla voce “Luciano Pellicani” – è stato definito “un classico” dalla rivista statunitense Telos, e che brilla indiscutibilmente sia per completezza storica (visti i frequenti rimandi alla storia mondiale, non solo europea) che per chiarezza e linearità argomentativa, nondimeno proverò qui di seguito a descrivere il mio personale punto di vista su alcune delle idee in esso espresse.

Le mie considerazioni verteranno in particolare su tre punti: la posizione dell’autore sulla natura del divenire storico; l’enorme vuoto esplicativo da lui lasciato in merito alla storia europea (vuoto del quale peraltro, egli pare non accorgersi neanche); le trasformazioni conosciute dal mondo asiatico negli ultimi decenni (che mi hanno indotto a fare delle considerazioni, per così dire, aggiuntive e integrative rispetto al discorso di Pellicani).

(b.1) La visione “istituzionalista” del divenire storico

La cosa che mi ha maggiormente colpito e interessato di questo libro, è la disinvolta sicurezza con la quale si rimette in discussione l'assunto fondamentale del pensiero marxista, quello cioè della priorità dei fattori socio-economici rispetto a quelli politici e istituzionali (nonché ideologici e militari) come causa della trasformazione delle società umane – un assunto quest’ultimo, che fino ad allora ritenevo un’acquisizione oramai irrinunciabile dalla ricerca storiografica.

Tuttavia devo anche dire che, a un’analisi più attenta, mi pare di poter ravvisare dei punti di debolezza tanto nella teoria “istituzionalista” di Pellicani (oltre che nella sua interpretazione della dialettica marxiana), quanto in quella materialista di Marx: punti di debolezza che le rendono, nonostante il loro enorme potere di fascinazione, strumenti non del tutto soddisfacenti ai fini di un’interpretazione realmente scientifica della storia.

Qui avanti dunque, oltre a esprimere i miei dubbi su tali teorie, cercherò di proporre una soluzione o via d’uscita alle difficoltà che vi ravviso – una ‘soluzione’ certamente non particolarmente originale, ma esito in ogni caso di un percorso di ricerca personale e come tale (penso) degna di essere esposta. Comincerò parlando della concezione marxista e materialista della storia, passando poi a descrivere quella – ad essa fondamentalmente antitetica – di Pellicani, in massima parte frutto di una riflessione critica sulla precedente.

Secondo la visione di Marx e dei marxisti, la società è nella sua essenza un’associazione tra individui il cui fine è procurarsi i beni materiali necessari alla vita propria e dei propri discendenti. Essa ha perciò come scopo, innanzitutto, quello di garantire la sopravvivenza dei suoi componenti, scopo che essa persegue innanzitutto attraverso una determinata organizzazione sociale della produzione, ovvero attraverso una determinata struttura economico-sociale. Secondo tale visione perciò, l’economia, in quanto fattore capace di dare alle esigenze della comunità una risposta concreta, è la componente più profonda del vivere sociale, quella a cui tutti gli altri aspetti vanno – almeno tendenzialmente – ricondotti e da cui dipendono.

Ma cos’è poi l’“economia”? Essa è l’incontro tra una serie di tecniche produttive (quelle che la civiltà in questione è arrivata a scoprire e a fare proprie) e una determinata organizzazione sociale del lavoro (sia essa asiatica, servile, schiavile, capitalistica, comunistica…) che costituisce appunto la base della loro concreta estrinsecazione a livello sociale.

D’altronde – spiega Marx – i rapporti di potere che regolano il funzionamento economico della società, si fissano col tempo in rapporti giuridici o di proprietà ad essi speculari, cangianti quindi a seconda delle diverse forme di organizzazione. Così, ad esempio, se nel modo di produzione asiatico vi è un unico proprietario per tutti i beni, il Sovrano, nelle società feudali esiste invece una vasta classe servile contrapposta a una ristretta classe di nobili feudatari e di cavalieri armati al loro servizio, mentre infine nelle società capitalistiche troviamo una maggioranza di lavoratori salariati contrapposta ad un gruppo molto più esiguo di detentori del capitale, indispensabili al finanziamento e al funzionamento delle grandi imprese industriali e capitalistiche.

Fu appunto questo uno degli aspetti rivoluzionari della visione marxista della storia e della società, quello cioè di concepire i rapporti giuridici (e più in generale i fenomeni extraeconomici) come effetto piuttosto che come causa dell’organizzazione economico-produttiva della società.

D’altronde – notava Marx – l’errore di considerare i fattori ideologici e giuridici come causa della società reale non deve stupire, dal momento che caratteristica precipua dell’ideologia è, oltre al fatto di giustificare i rapporti di sfruttamento dati, quella di porsi come qualcosa di assoluto, di eterno, che trova la propria origine e giustificazione solo in se stessa, mascherando così la sua vera natura. A un’analisi più attenta infatti, tutto ciò che si trova al di là della sfera economica si dimostra come un prodotto indiretto, e in gran parte inconsapevole, di rapporti sociali ed economici affermatisi gradualmente e spontaneamente nel corso del tempo.

Questa in sostanza la visione marxista del divenire storico, almeno nei suoi aspetti materialistici ed economicistici. Vi è tuttavia in tale visione – come già si è fatto presente – anche un altro aspetto cruciale, quello dialettico, volto a giustificare l’evoluzione della civiltà umana nei suoi differenti stadi, ovvero l’avvicendarsi e il succedersi delle varie forme di organizzazione economica (nonché ovviamente, in seconda battuta, di quelle politiche, giuridiche e ideologiche, conseguenza delle prime).

Ed è appunto a partire da questo secondo aspetto che si sviluppa la critica di Pellicani alla filosofia marxista. Secondo tale critica difatti, la dialettica marxiana fallirebbe proprio in quella che dovrebbe essere la sua missione e la sua ragione d’essere: quella cioè di spiegare, di enunciare le cause del divenire storico. Questo argomento è peraltro approfondito soprattutto nel primo capitolo del libro, dedicato alla critica della teoria marxiana della genesi del capitalismo. In esso si legge infatti (con particolare riferimento a un passo del Manifesto che parla del trapasso della civiltà europea dal medioevo al capitalismo) che Marx, pur credendo di “spiegare” il divenire storico, si limita in realtà a fornire una mera descrizione dei cambiamenti sociali ed economici di esso, senza tuttavia “dedurre logicamente l’explanandum – nel nostro caso specifico, il capitalismo – da un explanans costituito da condizioni (o cause) coperte da enunciati universali (leggi)” (pag. 21) – senza cioè rendere veramente conto del perché di tali mutamenti.

Né secondo Pellicani la cosa in sé può o deve stupire, dal momento che il tentativo di spiegare l’economia a partire da se stessa è sempre destinato a fallire, ragione per cui è inevitabile che la “spiegazione” marxista dell’evoluzione delle società umane, volendo basarsi appunto su una presunta capacità auto-propulsiva dell’economia, sia priva di un reale potere esplicativo. Bisogna infine osservare come, pur rifiutando l’impostazione economicistica marxista, Pellicani accetti l’idea che tra organizzazione socio-economica e organizzazione politico-giuridica della società sussista una profonda interrelazione. La vera differenza rispetto a Marx infatti, non riguarda assolutamente un tale asserto, bensì piuttosto la domanda su quale di questi due termini sia causa dell’altro.

Prima di passare a criticare la teoria di Pellicani però, mi pare opportuno accennare a quelli che a mio avviso sono i limiti effettivi dello storicismo marxista, cosa che peraltro farò riservando un occhio di riguardo all’interpretazione (secondo me davvero discutibile) che di essa si dà nel nostro libro.

È a mio parere giusta, almeno per alcuni versi, la critica di aleatorietà rivolta dal nostro autore alla dialettica marxista. È vero difatti, che nel discorso marxista permane una forte ambiguità sui criteri che sarebbero alla base della dialettica storica. Ciò poiché Marx non si preoccupò di spiegare e forse nemmeno di definire esattamente secondo quali criteri ogni singola fase storica (con le sue caratteristiche intrinseche) entrerebbe in crisi, come genererebbe cioè dal suo stesso interno le contraddizioni che ne preparerebbero poi il superamento. Per tale ragione, resta forte nel suo pensiero l’ambiguità su quelle che sarebbero le cause generali del cambiamento storico. Di sicuro dunque rimane solo il fatto che, per Marx, ogni tipo di organizzazione socio-economica prepara in qualche modo la propria fine attraverso il suo stesso svolgimento.

In particolare, a mio avviso, resta oscuro un punto: quanto il processo dialettico alla base della trasformazione storica sia dovuto a fattori puramente economico-sociali (legati cioè al cambiamento delle forze produttive per ragioni di ordine non  tecnologico) e quanto invece a fattori tecnologici (ovvero all’invenzione di tecniche produttive capaci di generare profondi cambiamenti nell’organizzazione della società). Un esempio di cambiamento del primo tipo può essere considerato l’esaurimento della manodopera schiavile che fu causa del declino della società schiavista romana. Esempi del secondo tipo di cambiamento possono essere considerati invece la scoperta dell’agricoltura o la Rivoluzione industriale, che scardinarono alla radice l’organizzazione produttiva della società, inaugurando delle fasi storiche del tutto nuove.

Certo, si deve pur sempre dire che, per Marx, la storia è prima di tutto storia di conflitti e di trasformazioni sociali, e che le trasformazioni tecnologiche sono in gran parte il riflesso o comunque il prodotto di tali cambiamenti, capaci come tali di alimentarli contribuendo così in modo decisivo alla trasformazione di una fase storica nella successiva. Le trasformazioni tecnologiche sono, in altri termini, l’esito per molti versi necessitato di una determinata situazione storico-sociale (ad esempio, la Rivoluzione industriale fu un evento profondamente connesso all’emergere della classe borghese, capace come tale di dare a tale classe un’ulteriore e portentosa spinta in avanti, nonché prodotto della sua mentalità razionalistica e dei suoi interessi economici). Un tale discorso dunque, riporterebbe orientativamente le problematiche tecnologiche a quelle sociali, ovvero in sostanza ai meccanismi della lotta di classe.

Nonostante tali ambiguità di fondo, tuttavia, mi pare si possa dire che il nocciolo della lettura marxiana del divenire storico sia effettivamente dialettico, ovvero basato sull’idea che ogni stadio o fase storica contenga in sé i presupposti per il proprio superamento, e che (pur come tutto discutibile) abbia un suo profondo potere esplicativo.

Al contrario, secondo Pellicani una tale lettura è in realtà (come si è già detto) fondamentalmente errata, quantomeno dal punto di vista eziologico! Mi pare, se ben intendo il suo discorso, che il suo modo di procedere sia all’incirca questo. Dapprima egli riduce l’interpretazione storica marxista a una lettura per così dire tecnocentrica della storia, affermando che “più che una spiegazione economica, Marx fornisce una spiegazione tecnologica del mutamento sociale” (pag. 20). E infatti, partendo dal presupposto marxista che l’organizzazione della produzione (delle forze produttive) sia strettamente interrelata al livello di sviluppo tecnologico della società, egli deduce – in modo secondo me del tutto improprio – che il mutamento sociale per Marx dipenda interamente da un tale sviluppo, da lui peraltro concepito come causa di se stesso, quasi non dipendesse (quantomeno in primo luogo) dagli sviluppi sociali o di classe ma ne fosse al contrario la causa (scrive infatti a pag. 22: “i suoi [di Marx] principi metodologici gli imponevano non solo di presentare lo sviluppo tecnologico come il fattore causale capace di dare ragione di tutte le trasformazioni strutturali […], ma anche di concepirlo come causa sui.”)

Ma, essendo di per sé l’innovazione tecnica un fatto per così dire estemporaneo, un tale bilancio smarrisce la natura intimamente dialettica del discorso marxista, e con essa quindi la sua reale capacità esplicativa. Che (quasi) ogni invenzione o scoperta infatti, trovi un presupposto forse non necessitante ma certamente necessario nelle scoperte precedenti, è un fatto che implica l’esistenza (peraltro irrefutabile) di una progressione costante nell’avanzamento tecnico-scientifico, ma in nessun modo ha implicazioni di carattere dialettico. Una tale interpretazione tecnocentrica perde dunque di vista la logica stessa della lettura marxista della storia (in quanto la svuota della dialettica di classe che ne è il vero motore) e con essa di conseguenza la sua effettiva capacità di spiegarne le ragioni evolutive. Se essa fosse corretta, si potrebbe effettivamente dire che la lettura storica marxista consiste in una mera descrizione dell’evoluzione delle tecniche produttive dell’umanità, e dei mutamenti sociali ed economici a esse conseguenti.

A partire da questa errata lettura tuttavia, Pellicani ha buon gioco ad affermare che la dialettica marxista costituisce, in realtà, un tentativo fallimentare di spiegazione del divenire storico, e assieme a ciò ad affermare la necessità di rifondare la lettura della storia su presupposti di natura non più economica bensì politico-istituzionale. Ed è appunto questo, ciò che egli fa nei capitoli rimanenti del suo libro.

Eppure, se paragoniamo la struttura del discorso (dichiaratamente non marxista) di Pellicani a quella del seguente articolo (www.homolaicus.com), opera di un autore rigorosamente marxista, non possiamo non accorgerci delle profonde affinità che li accomunano. Entrambi ad esempio, contrappongono mondo orientale (non europeo) e occidentale (europeo): il primo fondato fondamentalmente sulla proprietà pubblica o statale, il secondo invece su quella privata. Entrambi riconoscono il ruolo centrale del (libero) mercato come causa della nascita del capitalismo attraverso l’accumulazione di enormi capitali finanziari, resa peraltro possibile dal principio giuridico (tutto occidentale) della proprietà privata.

E tuttavia, nonostante la struttura dei due discorsi sia sostanzialmente analoga, si dà il caso che diversa ed anzi opposta sia la percezione delle cause alla base dei meccanismi che descrivono (e che, per l’appunto, sono secondo me fondamentalmente gli stessi): se per Pellicani infatti essi hanno un’origine essenzialmente politica, per il secondo autore invece hanno un’origine economica.

A chi credere dunque? A chi dare ragione? Ovvero – e soprattutto – perché presupposti metodologici tanto contrapposti, possono dare adito nei fatti a interpretazioni nella sostanza così affini? L’accostamento tra queste due domande non è affatto casuale, dal momento che – io penso – la risposta alla seconda contiene implicitamente anche quella alla prima.

Questa anomalia infatti, si spiega facilmente con la complementarietà dei punti di vista che in tali interpretazioni si fronteggiano. È come se questi due autori avessero percorso strade opposte, che li hanno condotti però nello stesso luogo, ragione per cui, anche se diverso è il loro angolo prospettico, analoga è la sostanza dei loro bilanci!

E ciò per una ragione molto semplice, che la dicotomia su cui tanto si insiste tra dimensione economica e dimensione politico-istituzionale non è, in realtà, che una falsa opposizione, nella misura in cui questi due ordini di fattori non hanno nella concretezza storica un’esistenza separata, ma al contrario si intrecciano e si legano inestricabilmente tra loro. Se quindi tracciare un confine netto tra questi fattori non è assolutamente possibile, come sarebbe possibile dire quale dei due sia causa dell’altro?

Non deve stupire allora, il fatto che il discorso istituzionalista di Pellicani si possa ritrovare – quantomeno nei suoi aspetti generali – specularmente riflesso in quello, di impronta rigidamente dialettica e materialista, dell’articolo indicato e, più in generale, nella visione marxista classica dell’evoluzione della storia umana (scandita come noto in quattro successivi periodi o ere: asiatica, antica, feudale, capitalistica e infine comunistica).

Laddove ad esempio, Pellicani afferma che lo sviluppo delle città medievali fu reso possibile dalla frammentazione politica e istituzionale del mondo feudale, un autore marxista potrebbe affermare che esso fu innanzitutto il prodotto di un assetto economico basato su “isole produttive” fondamentalmente autonome tra loro, le curtes, di un’anarchia produttiva insomma, all’interno della quale fu possibile la proliferazione di nuovi centri economici, quali furono appunto le libere città medievali, i quali dialetticamente finirono per scardinare (negare) l’organizzazione da cui erano sorti ponendo i presupposti di una nuova era.

Non ha quindi senso – quantomeno oltre una certa misura – domandarsi se vengano prima le istituzioni e le leggi alla base della vita sociale ed economica o se, al contrario, venga prima la vita reale (coi suoi aspetti economici e organizzativi) e poi, puro effetto di essa, le regole del vivere sociale. Se è vero difatti (come afferma la filosofia marxista) che la vita reale si cristallizza nelle regole e nelle istituzioni sociali, è però anche vero (come nota Pellicani e come afferma in genere la visione istituzionalista) che queste ultime influenzano in modo sostanziale la prima, guidandone gli sviluppi e le trasformazioni.

In conclusione, penso si possa dire – e sono ben consapevole di non essere il primo a farlo – che la storia umana deve essere considerata non come la somma di fattori separati e interagenti tra loro, bensì al contrario, almeno in ultima analisi, come un insieme organico di eventi e fatti che non possono, se non arbitrariamente, essere concettualmente distinti, ovvero riportati a classi o categorie differenti. Anche se infatti una tale operazione di separazione e ricomposizione riflette un’esigenza strutturale e irrinunciabile della mente umana, tutto ciò non deve farci dimenticare come l’oggetto della nostra ricerca – ovvero, in questo caso, la storia – sia nella sua essenza qualcosa di diverso dal discorso nel quale cerchiamo di imprigionarlo. Paradossalmente, si potrebbe dire che quello di guardare con un certo scetticismo e distacco gli strumenti che usiamo per comprenderlo, sia l’atteggiamento che ci permette di comprendere al meglio un tale oggetto.

A un paradigma di ricerca di tipo gerarchico, fondato su un’organizzazione piramidale di presunti fattori storici (economia, politica, diritto, ecc.), non sarebbe dunque meglio sostituirne uno sistemico, fondato sull’idea di una continua azione reciproca e non gerarchizzata tra tali fattori, o meglio ancora uno per così dire liquido il quale (pur intellettualmente ‘ineffabile’) si basi sulla consapevolezza che tali fattori hanno un’esistenza solo virtuale e che – anche da un punto di vista concettuale – si richiamano tra loro in modo tanto stringente da non poter essere in ultima analisi separati?


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014