LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

-- Il mondo romano: Monarchia, Repubblica, Impero --

Evitando ogni riferimento al periodo successivo a quello appena trattato, ovvero all’Ellenismo, anche laddove a mio avviso ciò sarebbe stato possibile e in un certo senso opportuno (vedremo avanti a proposito di quale argomento), Pellicani analizza in più punti l’evoluzione della società romana dal periodo repubblicano fino a quello tardo imperiale.

Quella romana, a differenza di quella della Grecia classica, non fu una storia di città-stato, ma di un piccolo stato che gradualmente, attraverso guerre e successive incorporazioni di regioni prima autonome, si trasformò in un Impero. L’enorme estensione territoriale che Roma ben presto acquisì, non può essere assolutamente ignorata se se ne vuole comprendere la struttura istituzionale e politica, oltre che – come logica conseguenza – economica.

Una delle peculiarità della storia romana fu quella di costituire, almeno da un certo momento in avanti, una sorta di punto d’incontro tra due tradizioni che fino ad allora erano rimaste separate: quella dei piccoli stati occidentali da una parte e quella dei grandi stati asiatici dall’altra.

In modo estremamente sintetico, si può dire che il periodo monarchico costituisca la fase pienamente occidentale di tale storia, la società di quel periodo essendo per molti aspetti analoga a quella spartana appena descritta, in quanto caratterizzata da dimensioni territoriali relativamente ridotte, dalla proprietà privata e inalienabile delle terre (accanto alla quale però, sussisteva quella statale o demaniale) e da un’organizzazione di governo che, nonostante la presenza di un’autorità religiosa e politica suprema quale quella del sovrano, aveva in realtà un carattere essenzialmente oligarchico e nobiliare.

A tale periodo fece seguito quello repubblicano. In esso, se da una parte l’autorità dei re fu definitivamente abolita a vantaggio dell’aristocrazia senatoria, dall’altra ebbe luogo anche un’evoluzione di carattere democratico, con l’istituzione dei tribuni della plebe e in generale di istituzioni rappresentative delle classi popolari.

Ciò che, d’altronde, caratterizzò l’intero periodo repubblicano e i primi secoli di quello imperiale, fu la tendenza a una continua estensione dei confini dello stato. A questo proposito, un punto di svolta decisivo è individuato dall’autore nella sconfitta e nell’inglobamento da parte di Roma dell’impero punico (II a.C.), fatto che ne decretò la definitiva trasformazione nella principale potenza mercantile del mondo mediterraneo. Ebbe allora inizio una terza fase dell’evoluzione del mondo romano, di carattere più segnatamente dispotico e orientale.

Un tale incorporamento costituì del resto una vera e propria rivoluzione sociale ed economica, dal momento che unificò sotto un unico dominio un territorio sterminato, all’interno del quale la circolazione (in gran parte marittima) delle merci poté da allora avvenire senza restrizioni rilevanti. Da allora lo spirito mercantile si insinuò così a fondo nella nazione romana da far nascere e prosperare una vasta classe affaristica, una nuova aristocrazia di carattere finanziario (quella degli equites o cavalieri) che andò ad affiancarsi a quella senatoriale e politica che nei secoli precedenti aveva spodestato i sovrani dal loro ruolo di comando.

Ma una trasformazione quale quella appena descritta, non poteva non comportare anche degli impressionanti sconvolgimenti istituzionali. Quanto più infatti la società romana si allargava, tanto più per forza di cose doveva evolvere in senso centralistico, sviluppando poteri dispotici e personalistici (dei grandi generali prima, dei veri e propri imperatori poi) e una vasta e ramificata burocrazia amministrativa, il fine della quale era peraltro di coadiuvare l’azione direttiva dei poteri centrali. Tali cambiamenti portarono inevitabilmente con sé per i cittadini romani dei grossi sconvolgimenti, in particolare un forte ridimensionamento delle libertà e dei diritti politici dei secoli precedenti.

La nascita della grande Roma mediterranea insomma, decretò la fine dell’antica società repubblicana e delle sue tradizioni oligarchiche, dando così inizio a una nuova stagione – statalista e “asiatica” – della sua storia!

In sintesi dunque, possiamo dire che la trasformazione imperiale dello stato romano comportò due processi paralleli e tendenzialmente antitetici tra loro: quello verso l’estensione dei mercati e l’egualitarismo politico-istituzionale da una parte, e quello verso il centralismo e il dispotismo statale dall’altra.

Per un certo periodo questi due processi andarono di pari passo e poterono anzi sostenersi a vicenda. Infatti – fa notare Pellicani – gran parte dell’iniziativa privata del periodo tardo repubblicano e dei primi secoli dell’Impero operava per conto dello stato, da cui riceveva in appalto opere di carattere pubblico quali la riscossione delle tasse, la costruzione di infrastrutture, ecc. In tal modo lo stato costituì un volano per l’impresa privata. Cosa che peraltro poté avvenire poiché, nonostante una simile commistione, il confine tra pubblico e privato rimase pur sempre ben definito, ragion per cui lo stato non poté mai avanzare pretese sui proventi dei suoi appaltatori, le cui ricchezze rimasero assolutamente distinte dalle finanze pubbliche.

In altri termini, l’imprenditore che lavorava per lo stato rimaneva comunque, prima di tutto, un libero imprenditore nonché, e soprattutto, l’unico proprietario dei profitti della propria impresa, come tale libero di utilizzarli a proprio piacimento. Egli poteva perciò, se lo desiderava, reinvestire tali guadagni in altre attività lucrative, secondo una logica già pienamente capitalistica volta all’accrescimento indefinito della ricchezza attraverso il suo reinvestimento.

Ovviamente, tutto questo non significa che nel mondo romano imperiale si fosse già sviluppata un’economia integralmente capitalistica, dominata cioè dal libero mercato. Anche in una tale fortunata congiuntura difatti, la gran parte della produzione rimaneva pur sempre orientata al consumo, piuttosto che al commercio.

A questo proposito, l’autore si chiede se – senza le trasformazioni politiche che caratterizzarono la storia del tardo impero, e di cui parleremo qui di seguito – l’economia imperiale avrebbe potuto svilupparsi in un senso realmente capitalista. Ma a questa domanda, egli osserva, non si potrà forse mai rispondere. L’unica cosa certa a riguardo è che, “a partire dal III secolo, la scena politica cambiò in modo radicale, con conseguenze rovinose per la borghesia imprenditoriale” (pag. 154).

Lo stato iniziò infatti allora ad acquisire un ruolo sempre più dirigistico e dispotico, completando così quella trasformazione in senso “orientale” che aveva iniziata nel periodo tardo repubblicano. Fino ad allora, nonostante il dovere dei sudditi di pagare le imposte, la proprietà privata era stata rispettata. Così la libera iniziativa in campo economico. Ma ora, a causa della crescente pressione delle spese militari, la politica statale divenne sempre più interventista. Lo stato aveva difatti sempre maggiore bisogno di danaro e per ottenerlo finì per ingerirsi sempre più pesantemente nell’economia, al fine ovviamente di incamerare più facilmente le ricchezze prodotte.

Quelli che un tempo erano stati degli appaltatori, divennero ora dei funzionari: persero cioè la loro indipendenza economica nonché in gran parte la proprietà delle ricchezze prodotte. Lo spazio della libera impresa finì insomma per assottigliarsi e con esso quello del libero mercato. D’altronde, anche dove non assumeva funzioni apertamente dirigistiche o manageriali, lo stato finiva comunque per imporre ai propri sudditi una tassazione spropositata, tarpando così le ali a quel poco d’impresa privata che ancora rimaneva.

E tuttavia, indebolendo l’iniziativa privata, lo stato (che, fa notare giustamente Pellicani, è per sua natura “un pessimo gestore delle risorse materiali e umane”) indeboliva senza rendersene conto la sua stessa base economica, e quindi se stesso.

Anche se l’immagine dell’impero che declina sotto la pressione delle tribù barbariche non è certamente errata, non bisogna comunque dimenticare che un tale fattore fu soltanto una delle facce della medaglia. L’altra fu la spirale che, a partire dal III secolo dopo Cristo, trascinò l’impero romano verso una sempre più bassa produttività, nonché e di conseguenza verso una sempre maggiore povertà.

Alla fine, dopo una lotta durata circa tre secoli, i barbari ebbero ragione degli eserciti romani (i quali peraltro, oramai da tempo avevano finito per disporre della società, anziché esserne uno strumento) dilagando all’interno dei suoi confini e dando così inizio, soprattutto nella parte occidentale dell’impero, ad un lento ma inesorabile processo di disgregazione delle antiche strutture statali romane.

Al termine di tale processo, come noto, l’Europa occidentale era oramai frazionata in un vasto numero di isole produttive autonome, le curtes medievali, di natura essenzialmente agricola. Era l’inizio di una nuova fase storica della società europea e occidentale, ovvero di un nuovo tipo di organizzazione politica ed economica, comunemente ricordata come feudalesimo.

Anche da un tale bilancio dunque, emerge chiaramente come all’origine del declino economico e sociale dell’Impero romano vi fossero fattori di natura politico-militare (la pressione dei barbari, l’aumento delle spese militari e la conseguente trasformazione in senso dispotico e dirigistico dello stato romano…) piuttosto che economica! Anche qui, insomma, la trasformazione della società nei suoi aspetti più profondi fu dovuta a ragioni intrinsecamente non economiche, pur avendo poi pesanti ripercussioni anche sull’organizzazione economica.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014