LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

-- Capitalismo e stati nazionali --

Oltre che delle città-stato medievali, Pellicani si occupa in un apposito capitolo degli stati nazionali, visti come la cornice politico-istituzionale all’interno della quale, all’uscita del periodo feudale, si sviluppò un capitalismo di tipo nuovo, più propriamente moderno: di carattere industriale, nazionale e coloniale.

Prima di parlare di questo capitolo però, credo sia importante sottolineare come l’interesse preminente del saggio di Pellicani non siano tanto i meccanismi propri dell’economia capitalistica (ad esempio, le ricorrenti crisi di sovrapproduzione di cui parlava Marx), quanto piuttosto le ragioni della sua genesi e la descrizione dei primi stadi del suo sviluppo. Forse proprio per questo, pur essendo uno tra i più avanzati cronologicamente, questo capitolo non si spinge nella sua trattazione della storia europea oltre il XVII secolo.

Il primo concetto su cui insiste l’autore (in linea peraltro con la teoria sulla genesi del capitalismo da lui sposata e da noi definita continuista, della quale abbiamo già parlato nel paragrafo a.1.1) è l’idea che l’organizzazione economica moderna non sia, in realtà, che l’estensione su scala globale di quella, il cui raggio d’azione fu chiaramente inferiore, delle città-stato italiane del tardo medioevo. Di quest’ultima, secondo l’autore, il capitalismo moderno eredita praticamente tutto: non solo cioè lo spirito di intrapresa e il principio della competizione di mercato come base dell’economia, ma anche gli strumenti finanziari e più in generale l’attitudine alla pianificazione e al calcolo sistematico dei vantaggi e degli svantaggi economici.

Rifacendosi tra l’altro allo stesso Marx – il quale pure, come abbiamo visto, è per molti versi un esponente della scuola opposta a quella continuista – Pellicani fa notare che “la rivoluzione economica che si ebbe nel Cinquecento e nel Seicento, e grazie alla quale il capitalismo divenne, a tutti gli effetti, un’economia-mondo, non fu che l’applicazione su scala planetaria delle forme economiche che erano state ideate e saggiate nei secoli precedenti” (pag. 257).

A partire da questi presupposti, è chiaro come inevitabilmente l’interesse primario dello storico diventi quello di capire quali mutamenti siano insorti nell’organizzazione sociale ed economica europea con la nascita e l’affermazione degli stati nazionali, comprendere cioè come questi organismi politici abbiano influenzato e potenziato un’economia già da tempo improntata alla concorrenza e al libero mercato.

Ma per capire il modo in cui ciò avvenne, è necessario innanzitutto prendere atto di quelli che furono i cambiamenti istituzionali fondamentali delle società europee nel periodo in cui tali trasformazioni ebbero luogo. Si può dire che essi furono essenzialmente di due tipi, peraltro profondamente interconnessi tra loro: da una parte vi fu la rinascita, dopo secoli di anarchia politica e militare, di un potere – quello dello stato e del sovrano – capace di detenere il monopolio della forza e quindi dell’ordine; dall’altra, e in conseguenza di ciò, vi fu la fine dell’indipendenza delle città-stato, inglobate (come il resto della società) nella giurisdizione di questo nuovo potere. Accadde cioè, come notato da molti studiosi, qualcosa di simile a quel che accadde nel periodo dell’espansione romana, nel corso della quale città-stato prima autonome vennero soggiogate da un potere superiore fortemente burocratizzato e accentratore, che ne limitò pesantemente le originarie libertà.

E tuttavia, i moderni stati nazionali si distinguono da tutte le precedenti esperienze statali per alcuni aspetti fondamentali. In primo luogo, per la “forza” della società civile, capace di imporsi e limitare le pretese accentratrici dei sovrani, nonostante la loro indiscussa superiorità militare. Ciò poté accadere poiché, nei secoli precedenti, nel periodo cioè delle autonomie cittadine e della gestione collegiale del potere, le città avevano sviluppato tutta una serie di istituti rappresentativi (gli Stati Generali, le Assemblee di notabili, i Parlamenti cittadini… in altre parole, le “fortezze e casematte” di cui parla Gramsci nel brano già citato) che in seguito, cioè appunto in questi anni, avrebbero finito per costituire uno dei loro principali baluardi contro le tendenze autocratiche dei sovrani (cfr. pag. 260).

La presenza all’interno delle città di una società civile già sviluppata e autonoma, costrinse insomma i re a venire in qualche modo a patti con esse, attraverso il confronto forzoso con i loro antichi organismi amministrativi. In tal modo i centri urbani, pur non riuscendo a mantenere una vera e propria indipendenza politica, riuscirono comunque a detenere una certa capacità di condizionamento sulle decisioni dei monarchi. A tale proposito, l’autore fa notare come, nonostante si parli spesso e giustamente, in riferimento a questi periodi dello sviluppo politico europeo, di “monarchie assolute”, una tale definizione appaia eccessiva qualora tali monarchie vengano paragonate – dal punto di vista degli effettivi poteri di controllo – a quelle, ad esempio, della Russia degli zar o del mondo vicino-orientale.

Un altro elemento distintivo della moderna storia europea fu poi il fatto che qui (a differenza, osservo io, di quanto accadde negli antichi stati ellenistici) i sovrani e le alte sfere politiche compresero lucidamente come la loro ricchezza e potenza andasse di pari passo con quella della loro borghesia imprenditoriale. Quanto più infatti quest’ultima era florida e ricca, tanto più di conseguenza – soprattutto attraverso le entrate fiscali – poteva divenirlo lo stato. Proprio per tale ragione, tra stato e borghesia capitalistica si instaurò da subito quel proficuo regime di collaborazione che costituì una della basi del benessere economico della società moderna, oltre che una delle sue principali peculiarità storiche e politiche.

Fino ad allora, come abbiamo più volte avuto modo di vedere, i grandi stati avevano sempre limitato e spesso anche mortificato le proprie classi affaristiche e imprenditoriali, le cui ricchezze alle volte avevano arbitrariamente requisito. I sovrani infatti, avevano sempre cercato di detenere su tali attività un controllo quanto più rigido possibile, intuendo che un loro libero e pieno dispiegamento avrebbe finito per comportare una limitazione, se non dei loro poteri formali, della loro autorità reale.

Del tutto diversa rispetto a questa fu la strategia adottata dai sovrani moderni, i quali – attraverso politiche che, a posteriori, si usa definire mercantilistiche – fecero di tutto per fornire alla propria borghesia occasioni sempre nuove di crescita e di sviluppo.

La politica che dunque, almeno in linea di massima, essi seguirono nei confronti delle città e delle loro classi imprenditoriali, fu quella di cercare di limitarne il meno possibile l’autonomia. O, per essere precisi, di limitarne l’indipendenza politica (tanto che, da allora, la borghesia assunse connotati pressoché esclusivamente economici, perdendo i caratteri pubblici che aveva avuto nel periodo delle autonomie comunali) ma di rispettarne pienamente, e anzi di favorirne, la libertà imprenditoriale e la tendenza all’espansione indefinita.

La differenza di fatto tra gli stati nazionali occidentali e quelli extraeuropei dello stesso periodo, è ben esemplificata secondo Pellicani nel confronto tra questi e la vicina Russia, nella quale, egli afferma, “i monarchi “consideravano le città come loro proprietà e mantennero su di esse un controllo dal punto di vista amministrativo, giudiziario e militare”, con il risultato che “lo sviluppo capitalistico fu bloccato,” mentre “in Europa le città godettero di una relativa autonomia in quanto furono, di regola, in grado di esercitare sul governo tutta una serie di pressioni, soprattutto di carattere economico” (pag. 260).

Né va dimenticato il peso che, sulla scelta di questo tipo di conduzione politica, ebbe il fatto che l’Europa fosse oramai divisa tra nazioni in costante competizione tra loro (un fatto questo che, pur del tutto estraneo alla tradizione imperiale romana, costituì invece un dato fondante della storia degli stati ellenistici). Come ricorda Weber, in un passo della sua Storia dell’economia mondiale citato nel nostro testo, “a differenza di quanto accadde nell’antichità, le città dell’età moderna caddero sotto il potere di Stati nazionali in concorrenza tra loro, impegnati in una incessante lotta di potere, sia in pace che in guerra. Questo stato di cose creò la più ampia possibilità per il capitalismo occidentale moderno. I singoli stati dovettero fare i conti con il capitale mobile, che dettò loro le condizioni sotto le quali esso avrebbe potuto sostenerli. Da questa alleanza dello Stato con il capitale, imposta dalla necessità, nacque la borghesia nazionale, la borghesia nel senso moderno della parola.” (pag. 261, corsivi miei).

Un altro fattore cruciale per lo sviluppo della borghesia moderna, sia dal punto di vista commerciale che da quello industriale, furono poi – ricorda Pellicani – le scoperte geografiche del XV secolo. Tali scoperte diedero infatti a essa, coadiuvata ovviamente dal potere militare e politico dei rispettivi stati, l’opportunità non solo di estendere i propri traffici a livello intercontinentale, ma anche e soprattutto di sviluppare enormemente, attraverso l’afflusso di materie prime a basso costo e di ingenti quantità di metalli preziosi, le proprie strutture produttive.

E tuttavia – ci ricorda una volta di più l’autore – le opportunità materiali non bastano da sole a fare l’economia. Quest’ultima difatti, lungi dall’essere capace di determinarsi autonomamente, ha sempre bisogno per sussistere di scelte di natura politica. A questo proposito, egli mostra i differenti indirizzi seguiti dagli stati europei tra XVI e XVII secolo, contrapponendo le linee di sviluppo di stati liberali come l’Inghilterra, la Francia e l’Olanda, a quelle dello stato più conservatore e reazionario che vi fosse allora in Europa, la Spagna.

Mentre infatti Inghilterra, Francia e Olanda seguirono tutte – pur con diverse sfumature – politiche liberali volte a favorire lo sviluppo delle attività di mercato, la Spagna al contrario si configurò da subito come uno stato assoluto, improntato cioè, in nome degli ideali controriformistici, a un rigido controllo sulla propria vita sociale, che ebbe come effetto quello di menomarne pesantemente gli sviluppi capitalistici.

E del resto, tutti i principali artefici dei destini politici degli stati liberali (da Richelieu in Francia a Cromwell in Inghilterra) dimostrano nei loro scritti di essere chiaramente consapevoli della centralità delle problematiche economiche per la fortuna dei loro stati, attribuendo perciò allo sviluppo mercantile una preminenza assoluta nei loro programmi. La politica insomma, non è più per loro (come invece in passato) qualcosa di fondamentalmente slegato e di più nobile rispetto all’economia, bensì al contrario una sua funzione. Per essi dunque, uno stato non può dirsi in buona salute, se non lo è la sua economia.

Quanto alla Spagna, si può dire che essa conobbe, dal punto di vista politico, una parabola pressoché opposta a quella appena descritta. Nonostante infatti vi sia stata anche lì una notevole evoluzione in senso mercantilistico, le sue politiche nazionali, davvero poco lungimiranti, furono volte tutte a deprimere, anziché a favorire, il processo di modernizzazione.

A un certo punto ad esempio – ricorda Pellicani – e per motivi di mera “purificazione” religiosa, “nel 1492 i Re Cattolici promulgarono un decreto di espulsione degli ebrei”, minoranza culturale che (come ricordava Sombart) svolgeva un prezioso ruolo di dinamizzazione della società. Né una tale scelta, assieme ad altre di eguale tenore, poté non avere conseguenze negative per gli sviluppi socio-economici della Spagna, che rimase quindi profondamente arretrata rispetto alle altre nazioni europee sia dal punto di vista economico che da quello culturale.

Il capitalismo insomma, lungi dall’essere una scelta o necessità che si autoimpose agli stati, fu piuttosto una strada che alcuni decisero di percorrere, e che altri invece – per ragioni essenzialmente culturali e politiche – decisero di disertare.

A conclusione del capitolo, Pellicani elenca succintamente quelle che a suo avviso furono le caratteristiche salienti dei moderni stati nazionali, ovvero le qualità che permisero la formazione di una moderna classe borghese e di un’economia del libero scambio. Tali furono “in primo luogo, la certezza del diritto, ovvero l’eliminazione dell’arbitrio come prassi normale dei governanti; poi, la neutralizzazione del fattore religioso, dannoso sia per la pace interna che per la salute dell’economia nazionale; poi ancora, l’inviolabilità della proprietà privata e la piena libertà d’impresa […]; infine, il governo rappresentativo, quale garanzia che gli interessi della borghesia imprenditoriale sarebbero stati perennemente presenti all’attenzione dei governanti e altrettanto permanentemente difesi” (pag. 282).


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014