STUDI LAICI SUL NUOVO TESTAMENTO


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MIKOS TARSIS

DIARIO SU CRISTO

* Premessa - 1) A) Credenti e non credenti - 1.1) Un confronto linguistico sulla semantica - 1.2) Cosa sono i pregiudizi antireligiosi? - 2) Cosa vuol dire essere atei? - 2.1) Una linea ateistica di continuità - 2.2) Il massimo dell'ateismo possibile nella religione - 2.3) Scienza, etica, religione e ateismo - 2.4) Un'ipotesi di dimensione ultraterrena - 2.5) Il valore della storia delle religioni - 2.6) L'etica scientifica e la scientificità dell'etica - 2.7) I campi separati delle scienze umane - 2.8) Poter essere e dover essere - 2.9) Mistico o fideistico? - 3) I limiti del cattolicesimo italiano - 3.1) I limiti dogmatici del cattolicesimo - 3.2) La presunzione delle tradizioni - 4) Il concetto cristiano di Trinità - 4.1) Il concetto superato di Dio-padre - 4.2) Logos e Pneuma - 4.3) Dal Dio ebraico all'ateismo moderno - 4.4) Non può esistere nulla di diverso dall'umano - 5) Gesù e i cristiani odierni - B) La figura del Cristo - 6.1) Sintesi della figura di Gesù - 6.2) Lo scopo dei vangeli - 6.2.1) Vangelo e presupposto della fede - 6.2.2) Il revisionismo politico dei vangeli - 6.2.3) Gli unici due vangeli che contano qualcosa - 6.3) L'antisemitismo come ideologia evangelica - 6.3.1) L'antisemitismo negli apocrifi - 6.3.2) L'antisemitismo nella teologia petro-paolina - 6.4) Miracoli presunti, anzi inventati - 6.4.1) Un segno dal cielo - 6.5) Perché un Cristo ideologicamente ateo? - 6.5.1) Divinoumanità in via esclusiva? - 6.5.2) Reinterpretare il Prologo - 6.6) La questione del tributo - 6.7) Porgere l'altra guancia - 6.8) Il ruolo dei farisei - 6.9) L'uguaglianza dei sessi - 6.10) Il ruolo dell'essenismo - 6.10.1) Identità e ruolo degli esseni - 6.10.2) Cristo proveniva dai Terapeuti egizi? - 6.10.3) Che senso ha l'Apocalisse nel N.T.? - 6.11) L'identità del Cristo - 6.11.1) L'origine giudaica del Cristo - 6.11.2) Le diverse rappresentazioni del Cristo - 6.11.3) Ruolo e personalità del Cristo - 6.11.4) I titoli plausibili del Cristo - 6.12) Quale tipologia politica nel Cristo? - 6.12.1) Un Cristo politico nelle tradizioni giudaiche - 6.12.2) Discepoli analfabeti al seguito di Gesù? - 6.12.3) La fine del Cristo politico - 6.12.4) Un Cristo galileo diventa zelotico - 6.12.5) La Palestina al tempo di Gesù Cristo - 6.12.6) Le due rivolte del Cristo nel IV vangelo - 6.12.7) Le rotture politiche del Cristo - 6.12.8) La decisione d'insorgere - 6.12.9) La differenza tra i Galilei e Lazzaro - 6.12.10) Quante speranze per il tentativo insurrezionale? - 6.12.11) La pace o la spada? - 6.12.12) Dove si fanno le rivoluzioni? - 6.12.13) Aveva senso restaurare la monarchia davidica? - 6.12.14) Un Cristo politicamente sovversivo è obsoleto? - 6.12.15) La tesi di William Wrede - 6.13) Il ruolo di Giovanni Zebedeo - 6.14) Il ruolo della samaritana - 6.14.1) Le due Marie - 6.15) Il ruolo di Giuda - 6.16) Il ruolo di Pilato - 6.16.1) Pilato cristiano? - 6.16.2) La moglie di Pilato - 6.17) La questione del nome di Barabba - 6.18) La flagellazione del Cristo - 6.19) La morte di Gesù - 6.19.1) Gesù e la democrazia giudaica - 6.19.2) La data della morte di Gesù - 6.19.3) Ai piedi della croce - 6.20) Ha senso parlare di "Cristo risorto"? - 6.20.1) Nascita e morte non spiegabili - 6.20.2) Una morte da reinterpretare - 6.20.3) Perché un Cristo divino viola la coscienza? - 6.20.4) L'esigenza di un aldilà - 6.20.5) I racconti di riapparizione del Cristo - 6.20.6) Le contraddizioni nel Cristo redivivo - 6.20.7) Gesù e la Maddalena - 6.21) Racconti natalizi - 6.21.1) L'idea di partenogenesi - 6.21.2) Il paganesimo nei racconti natalizi - 6.22) È possibile riattualizzare Gesù Cristo? - 6.22.1) Senza Cristo politico vincono i miticisti - 6.22.2) Quali insegnamenti recuperare? - 6.23) Il ruolo di Paolo di Tarso - C) Tesi esegetiche - 7.1) Preferisco l'esegesi alla storiografia - 7.1.1) Questioni fondamentali di metodo esegetico - 7.1.2) Strauss e il mitologismo - 7.1.3) La democraticità del Cristo - 7.1.4) Il valore di Bultmann - 7.2) La manipolazione delle fonti - 7.2.1) La speranza di nuove fonti - 7.2.2) Storicità del Cristo o della fede in lui? - 7.2.3) Il valore delle fonti extracanoniche - 7.2.4) Le fonti di Giuseppe Flavio - 7.2.5) Letteratura canonica e apocrifa - 7.2.6) Quali tradizioni letterarie nei vangeli? - 7.2.7) Varianti nei manoscritti del N.T. - 7.3) Esegesi di Destro e Pesce - 7.3.1) Mauro Pesce sulla Sindone - 7.4) Ratzinger su Giuda - 7.5) Fede e politica inseparabili tra gli ebrei? - 7.6) La tesi di Reimarus - 7.7) Brandon e io - 7.8) Esegesi di Francesco Esposito - 7.9) Emilio Salsi su Lazzaro - 7.10) Le tesi di Bermejo-Rubio - 7.11) L'assurda tesi di Schweitzer - D) Le guerre giudaiche - 8.1) La I guerra giudaica - 8.2) La II guerra giudaica - 8.3) La III guerra giudaica - 9) Sommi sacerdoti del periodo erodiano-romano - 10) Governatori romani - ** Conclusione

* Premessa

Il lettore non si aspetti granché: molti brani sono stati presi dal libro precedente, Cristo in Facebook, perché mi piaceva tenerli in un unico posto, che mi agevolava nelle ricerca indicizzata delle parole. A volte m’illudo che, tenendo tutti i pensieri insieme, in un unico PDF, sia più facile che emergano nuove domande, nuove riflessioni. Purtroppo ci vuole un’illuminazione interiore, non bastano questi miseri espedienti tecnici. Sono comunque propenso a considerare i file digitali superiori ai testi cartacei, per quanto di difficile lettura. Se i redattori dei vangeli li avessero potuti usare, sicuramente avrebbero creato dei testi la cui mistificazione sarebbe stata più difficile da individuare.

Ormai comunque si è capito che di “tradizionale” (o di standardizzato) in me non c’è né la credenza né la non credenza. Quando dico che non esiste alcun Dio onnipotente e onnisciente (il cui nome, peraltro, dovrei scrivere con la “d” minuscola), i credenti m’insultano; ma quando dico che la Sindone è l’unico reperto autentico di tutto il Nuovo Testamento, lo fanno gli atei. Per me, lo dico chiaro e tondo, se esiste una sorta di “divinoumanità”, non è possibile andare oltre Gesù Cristo (e di sua moglie1), poiché in lui come uomo ci possiamo identificare, non essendosi comportato come una divinità finché è rimasto in vita.2

Il fatto che sia stranamente scomparso dalla tomba non ci deve riguardare più di tanto: per me resta una sua “questione personale” (e do per scontato che tutti i racconti di riapparizione siano inventati). Non ho bisogno di sapere che è “risorto” per credere che nell’universo nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Anche se il nostro corpo non è destinato a risorgere subito dopo essere morto, di sicuro noi continuiamo a vivere in qualche altra dimensione. Eventualmente con un altro tipo di fisicità. E in quest’altra dimensione ci siamo solo noi umani, destinati a popolare l’intero universo, che è illimitato nello spazio ed eterno nel tempo, così come si conviene alle caratteristiche della nostra libertà di coscienza.

In questo libro (che, a parte alcuni post messi in Facebook nel 2021, è stato scritto nel 2022) si troveranno commenti ad alcuni libri di esegesi critica che mi è capitato di acquistare su Amazon, un portale che ha il merito di offrire proposte correlate a ciò che si va cercando. Nel momento della primitiva stesura la stragrande maggioranza dei pensieri era stata elaborata in maniera puramente casuale, rispondendo anche alle sollecitazioni provenienti da vari gruppi di Facebook dedicati al cristianesimo primitivo. Poi, rileggendoli, si è preferito evitare la successione cronologica, onde risparmiare al lettore inutili ripetizioni, optando invece per una categorizzazione degli argomenti.

Devo ammettere che ormai sulle questioni fondamentali, inerenti ai vangeli, ho le idee abbastanza chiare. E faccio molta fatica a sopportare delle tesi confessionali o che si discostano troppo dalle mie. Non ho più voglia di mettermi a discuterle. Penso pertanto che questo sarà l’ultimo libro su Gesù Cristo, a meno che qualcuno non ritrovi in Turchia il vangelo originario di Giovanni, ma dovranno far presto a tradurlo, perché ormai sento che gli anni cominciano a pesarmi.

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1) A) Credenti e non credenti

1. È possibile un dialogo tra credenti e non credenti?

Nei gruppi di Facebook dedicati al cristianesimo o a Gesù Cristo si assiste spesso a un confronto tra credenti e non credenti. Mi chiedo quali siano le condizioni perché un dialogo del genere sia davvero possibile.

Mi sbaglierò, ma se il dialogo verte su enunciati di tipo teologico, la reciproca incomprensione sarà totale. Il credente infatti dà per scontato ciò che non può dimostrare, poiché esula dall’umanamente razionale o ragionevole o plausibile con un relativo margine di sicurezza.

Di che cosa possiamo parlare se i presupposti del linguaggio sono contraddittori per definizione? Alla fine è solo una perdita di tempo. Con un credente è possibile discutere solo di argomenti che esulano dalla teologia. Lo stesso credente non riesce a sopportare che ciò in cui crede possa essere interpretato in maniera laica, per cui tende sempre a dire che l’interlocutore non conosce i termini della questione o non ha un linguaggio appropriato, come se per interpretare correttamente una pericope di natura mistica (come p.es. la moltiplicazione dei pani e dei pesci) uno fosse preventivamente costretto a leggersi tutti i testi esegetici scritti dai teologi cristiani sull’argomento.

In realtà lo sforzo dell’esegeta laico, non religioso, è soltanto quello di trovare degli elementi razionali anteriori alla loro trasformazione (o deformazione) mistica o teologica. E, non avendo a disposizione fonti non religiose, è per forza di cose costretto ad andare per ipotesi.

Dunque le condizioni per uno scambio proficuo di opinioni non stanno solo nella buona educazione (nella cortesia dialogica), ma anche nei presupposti logici di partenza.

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1.1) Un confronto linguistico sulla semantica

Quando mi si chiede cosa ci faccio in un gruppo dedicato a Gesù Cristo o al cristianesimo, visto che non sono un credente, mi domando se sia davvero possibile, sul piano linguistico, un confronto tra soggetti che interpretano le parole in maniera molto diversa.

Prendiamo p.es. la parola “resurrezione”. Per un cristiano sembra evidente come interpretarla: un corpo morto si è “ridestato” miracolosamente, come dice Marco, ed è riapparso, come dicono gli altri evangelisti, che aggiunsero poi un secondo finale al protovangelo.

Che questo corpo sia risorto per virtù propria (una forza interna bioradiante o bioenergetica a noi sconosciuta), o grazie a una forza esterna (Dio), non costituisce problema per il credente: l’importante è sapere che la morte è stata vinta, e che quindi esiste la possibilità di vivere altrove una condizione migliore di quella terrena. Si crede in qualcosa di straordinario perché spinti da motivazioni tutt’altro che religiose. Esattamente come i novax protestano in piazza contro il governo e i suoi vaccini anti-covid, non perché abbiano vere motivazioni sanitarie, ma perché non hanno strumenti adeguati per affrontare i loro problemi personali, familiari, sociali. Ci si aggrega attorno a un’idea casuale, trovata sul momento, sulla base di incontri contingenti, estemporanei, che si giustificano a vicenda.

Così facendo però il credente non si rende conto che se Gesù fosse davvero risorto per virtù propria (come una sorta di strano extraterrestre), nulla autorizzerebbe a credere nell’esistenza di un Dio-padre onnipotente e onnisciente. Cioè questa esistenza metafisica diverrebbe al massimo opzionale, non strettamente necessaria.

Ma il vero problema è un altro. La parola “resurrezione” può voler dire altre cose, che il credente si rifiuta di prendere in considerazione. E qui non mi riferisco alle sciocchezze di chi ritiene che il Cristo non fosse davvero morto sulla croce, ma soltanto svenuto o entrato in coma, e che nella tomba sia stato risvegliato e curato da qualcuno. Né ritengo ammissibile che i propri discepoli abbiano astutatemente spostato il corpo altrove per far credere ch’era risorto. Rifiuto altresì di credere a quella bislacca tesi filo-ebraica di Mauro Pesce, secondo cui il corpo fu sepolto in un posto segreto da un emissario del Sinedrio: Giuseppe d’Arimatea. E non mi riferisco neppure alla versione di chi sostiene che con quella parola mistica i discepoli abbiano voluto in realtà far “risorgere” le idee e l’operato del Cristo.

So bene infatti che tra il Cristo politico della storia ebraica e il Cristo teologico della tradizione cristiana vi è un abisso. Ormai non c’è neanche un esegeta disposto ad ammettere che tra il Cristo pasquale e quello postpasquale vi è una perfetta continuità (questo a prescindere dal fatto che Gesù sia stato davvero un leader politico).

Mi riferisco piuttosto alla pretesa di usare la parola “resurrezione” (che sicuramente è centrale nel cristianesimo) come se ad essa corrispondesse un fatto inequivocabile, che solo in questa maniera poteva essere interpretato. Oggi non esiste alcun esegeta serio disposto a considerare come “realistici” i racconti di riapparizione del Cristo. Sono tutti chiaramente redazionali. Basarsi su di essi per dire che Gesù era “risorto” non ha alcun senso.

Tuttavia, se un corpo morto non lo si rivede vivo, come si può sostenere che sia “risorto”? Alla fine diventa solo una questione di “fede”. E la fede rischia di assumere le sembianze di un atteggiamento irrazionale.

Ora però, se le cose stanno in questi termini, dobbiamo porci un’altra domanda: dando per scontata l’onestà dei discepoli (relativamente al fatto che il corpo non era stato spostato altrove, o seppellito in un luogo ignoto ai discepoli, o che la morte del Cristo non fu apparente), da dove è venuta fuori l’interpretazione della tomba vuota come “resurrezione”? Fu una semplice invenzione consolatoria, per affermare che le idee di un grande leader come lui non sarebbero mai potute morire, oppure ci si riferiva a qualcosa di reale?

Se il corpo fosse rimasto nel sepolcro, cosa avrebbe potuto impedire ai discepoli di continuare a credere in ciò per cui Gesù era morto? Per quale motivo si sarebbe dovuto dare più peso a ciò che Cristo fece da morto, quando per tutto il tempo in cui era vissuto l’avevano seguito per le parole che diceva, per gli obiettivi che si poneva, per le modalità operative con cui cercava di realizzare la sua strategia eversiva, destabilizzante per le autorità costituite (giudaiche o romane che fossero)? Non l’avevano certo ammirato perché lui diceva che dopo morto sarebbe risorto. Se avesse fatto una dichiarazione del genere, nessuno sarebbe stato disposto a diventare suo discepolo: tutti l’avrebbero considerato un folle, un esaltato, un maniaco suicida...

Nel sepolcro, quindi, è sicuramente avvenuto qualcosa di strano, di umanamente inspiegabile. Solo che l’interpretazione che ne è stata data, ha stravolto le intenzioni originarie del Cristo, che erano quelle di creare una società libera e giusta, senza l’oppressione straniera in patria e senza il collaborazionismo delle classi e dei ceti più agiati nei confronti dell’occupante imperiale.

Usando la parola “resurrezione” si è fatto di Gesù una persona sovrumana, avente una natura divina. Si è spostata l’attenzione su un aspetto mistico, fantastico, trascurando quello più propriamente umano e politico.

Nel sepolcro Pietro e Giovanni trovarono soltanto la Sindone piegata e riposta da una parte, come se dovesse essere conservata, come se servisse per far credere che il corpo non era stato trafugato da nessuno, anzi, che un corpo continuava a esistere, seppure in altra forma (altrimenti avrebbero dovuto trovarla afflosciata sul letto di morte). Nel lenzuolo poterono constatare le forme di una sagoma, che si erano impresse in maniera strana, in maniera troppo perfetta per essere delle semplici macchie di sangue. Più di così non avevano.

Si poteva forse parlare di “resurrezione” basandosi unicamente sull’immagine di una sagoma umana, che si era interamente impressa sul telo in maniera così strana, da ambo i lati per giunta? Ammesso che si potesse farlo, era forse giusto sostenere che, siccome era risorto, doveva per forza ritornare sulla Terra? E perché pensare che tale parusia sarebbe stata imminente e trionfale? Se un uomo dispone di poteri del genere, perché si lascia crocifiggere? Perché non li ha usati mentre era in vita? Che cosa voleva dimostrare lasciandosi ammazzare? Davvero l’aveva fatto per far capire agli uomini che, da soli, senza l’aiuto di una persona sovrumana, non sono in grado di risolvere i loro conflitti sociali? Davvero era questo il messaggio di rassegnazione ch’egli voleva trasmettere?

Semmai ci si potrebbe chiedere: un uomo consapevole di avere qualcosa in più rispetto a tutti gli altri uomini (qualcosa che non aveva mai fatto vedere mentre era in vita), quali modalità avrebbe potuto scegliere per non indurre i suoi discepoli a fantasticare sul piano mistico? Per quale motivo Gesù ha avuto bisogno di scomparire con tutto il proprio corpo e non solo con l’anima? Se avesse lasciato il corpo nel sepolcro, chi avrebbe pensato a interpretare la tomba come “resurrezione”?

Possibile che Gesù avesse deciso di scomparire con tutto il proprio corpo per indurre i discepoli a credere che la cosa più importante della sua vita l’aveva compiuta da morto? Se avesse avuto un’intenzione del genere, un discepolo avrebbe anche potuto pensare che tutto quanto Gesù aveva detto e fatto in vita aveva un’importanza relativa, cioè che di fronte a un evento così eccezionale come la resurrezione, tutto il resto contava poco.

Ecco spiegato perché bisogna per forza credere che Gesù non ha potuto fare a meno del proprio corpo, per quanto orrendamente martoriato fosse. La fisicità del corpo è parte costitutiva della sua divinoumanità (che è poi anche nostra), tant’è che Pietro e Giovanni trovarono aperta la porta del sepolcro. La separazione di anima e corpo non ha senso per gli ebrei. Quindi è giusto parlare anche di “resurrezione dei corpi” per l’intero genere umano. Siamo destinati non solo a esistere, ma anche ad avere un “corpo”. San Paolo parla di “corpo glorioso”, ma cosa intenda è impossibile da capire. È forse sufficiente dire che “non ci sarà né libero né schiavo, né uomo né donna”? Libertà e schiavitù possono anche essere condizioni interiori, quelle della coscienza. Può uno essere “costretto” a sentirsi libero? Non è forse una contraddizione in termini? E poi che significa che non ci sarà una differenza di genere? La riproduzione è una legge dell’universo. E se anche nell’aldilà non fosse identica a quella terrena, resta il fatto che la diversità tra uomo e donna non è un limite ma un vantaggio, in quanto arricchisce la personalità.

Secondo me dovremmo limitarci a dire che il “corpo glorioso” dovrà per forza essere un corpo immortale, sempre giovane e sano, non soggetto a corruzione, la cui “alimentazione” non comporterà scorie di alcun genere. Uccidere fisicamente una persona non avrà davvero alcun senso. Al massimo si potrà offenderla moralmente, ferirla spiritualmente, ma è assurdo pensare che in una dimensione ultraterrena uno sia costretto a subire qualcosa contro la propria volontà. Un corpo è fatto di desideri, e il desiderio più grande è quello di sentirsi liberi. E poi avremo per forza una solida memoria di tutto il male che è stato compiuto sul nostro pianeta, per cui ci sarà abbastanza facile individuarlo. In fondo perché continuiamo a esistere, pur non avendo ormai più nulla di umano e/o di naturale? È proprio per capire fin dove il male si può spingere. Dobbiamo imparare bene a non riprodurlo nella nuova dimensione universale, altrimenti tutta questa indicibile sofferenza terrena non sarà servita a nulla.

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1.2) Cosa sono i pregiudizi antireligiosi?

Quando mi si accusa di nutrire “pregiudizi antireligiosi”, mi chiedo che senso abbia una definizione del genere. Un non credente ha per forza di cose un “pregiudizio” del genere. Cioè non ha bisogno di avere la fede per dire che non ha pregiudizi. Presumo che anche per un credente sia del tutto naturale avere “pregiudizi antiateistici”.

Se per un ateo o un agnostico o un laico una qualunque definizione mistica non ha alcun senso razionale, è naturale ch’egli abbia un “pregiudizio”. Grave sarebbe se avesse pregiudizi contro p.es. gli ebrei o i cattolici, considerati come “persone”. In astratto, sul piano ideale, non ha senso fare differenza tra un credente e un altro. Viviamo in un mondo globalizzato e, almeno in teoria, non può esistere una religione “migliore” di un’altra, né si può pensare che il laicismo sia di per sé migliore di qualunque religione. Semmai esistono persone migliori di altre. Fanatismi li vedo in tutte le religioni e persino negli ateismi: sono forme immorali o disumane che possono appunto esprimersi in maniera laica o religiosa, a seconda delle proprie convinzioni. È la prassi il criterio della verità.

Si può anche ammettere che la religione abbia una certa coerenza logica nelle proprie argomentazioni. Nessuno nega che per i credenti la teologia sia una scienza. E si può anche tranquillamente convenire sul fatto che un credente può comportarsi in maniera conforme alle leggi di natura e ai diritti umani. Tuttavia questo non toglie che per un laico o un ateo qualunque argomentazione religiosa, condotta sulla base di una semantica umanamente incomprensibile, in quanto si riferisce a forze o entità sovrannaturali, non possa che essere rifiutata a priori. Se questo atteggiamento viene considerato “pregiudizievole”, bisogna anche aggiungere che è inevitabile, anzi necessario.

Qui infatti sono i presupposti linguistici, euristici, epistemologici e persino ontologici di partenza che vengono messi in discussione. Il che non vuol dire che tutte le argomentazioni laiche, solo perché tali, siano migliori di quelle religiose. Di fronte a una qualunque argomentazione bisogna sempre esaminare l’intenzione di partenza, l’obiettivo che ci si prefigge, le modalità e i mezzi che si vogliono utilizzare…

Spesse volte talune definizioni religiose non vengono accettate neppure da parte di chi crede in un’altra confessione. Si pensi p.es. al concetto cristiano di “trinità”, che per un islamico comporta la definizione del cristianesimo come una forma di “triteismo”.

Quando è “anti-religioso” il “pre-giudizio” non è un giudizio immotivato o arbitrario, ma è la condizione che permette di chiarire subito entro quale ambito semantico un confronto tra credenti e non credenti è possibile. Cosa che io ritengo impossibile se il presupposto di partenza è di tipo mistico, che per me coincide con “mistificante”. Il che non vuol dire che il dialogo non sia possibile quando in gioco vi sono aspetti non teologici.

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2) Cosa vuol dire essere atei?

Perché la parola “ateismo” fa così tanta paura nei gruppi di Facebook dedicati a Gesù Cristo?

Perché vanifica l’idea di resurrezione?

Perché toglie al Cristo la sua natura divina?

Perché elimina l’idea di giudizio universale?

Perché la si associa all’idea di comunismo?

Perché toglie all’universo qualunque finalità, rifacendosi unicamente all’idea di casualità?

Perché fa della materia una “divinità” autonoma?

Perché si basa su leggi universali e necessarie, escludendo il valore del libero arbitrio?

Perché si ritiene che gli atei siano soggetti privi di eticità?

Perché si pensa che per un ateo non vi sia molta differenza tra gli esseri umani e animali?

Sarebbe interessante discutere di tutte queste sciocchezze, ma trovare un accordo tra atei e credenti è letteralmente impossibile. Sono due mondi separati.

Perché è così difficile accettare l’ateismo nel Cristo quando già lo erano, secoli prima, Confucio, Buddha, Lao Tse, Socrate, tutti i filosofi greci della natura, ma poi anche, successivamente, i sofisti, gli epicurei...?

Se un uomo dice: “Io sono Dio e voi no”, è un folle. Se dice: “Io sono il figlio di Dio e voi no”, appare un po’ meno presuntuoso, ma restiamo sempre nell’ambito della follia. Ma se dice: “Siamo tutti delle divinità, perché non esiste nessun Dio”, allora gli si può credere.

Insomma il sillogismo aristotelico potrebbe essere il seguente:

Se Dio è Gesù Cristo

e Gesù Cristo è umano

allora l’umano è Dio.

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2.1) Una linea ateistica di continuità

Sembra che vi sia una linea di continuità abbastanza impressionante a favore dell’ateismo che ha coinvolto ebraismo, cristianesimo, filosofia borghese e socialista. Una linea che non procede come una retta, ma va a zig-zag a causa del fatto che il genere umano non è coerente coi propri ideali.

Prendiamo l’ebraismo: ha avuto un bel coraggio a sostenere, contro tutte le religioni pagane di quel tempo, che Dio è tanto più grande quanto meno lo si rappresenta. Se non è apofatismo questo, che cos’è? Era una novità assoluta. Peccato non aver saputo dare un respiro universale a tale convinzione.

Poi è venuto il cristianesimo, che, pur deformando l’autentico messaggio ateistico del Cristo, ha fatto un passo avanti rispetto all’ebraismo, dicendo che Dio si era incarnato in un uomo. Gesù non era figlio di Dio in senso metaforico ma letterale, a motivo del fatto ch’era risorto. “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il logos ce l’ha rivelato”, recita il prologo di Giovanni. Quindi in un certo senso bastava credere in Gesù Cristo.

Si è andati avanti con questa convinzione finché, con la nascita della filosofia borghese, si è cominciato a dire, criticando le contraddizioni del feudalesimo cristiano, che Dio coincide con l’universo o la natura (panteismo, deismo, umanismo...) e che l’uomo ha dei diritti naturali inalienabili che deve gestire autonomamente, senza il supporto della Chiesa cattolica. Di qui la nascita di tante confessioni protestantiche che favorivano l’individualismo borghese (benché tale individualismo nasca nei Comuni italiani del Mille, la cui borghesia era ovviamente cattolica, seppur molto lontana dalle convinzioni pauperistiche dei movimenti ereticali medievali).3

Siccome però con la nascita del capitalismo commerciale e imprenditoriale sorge un tipo di società molto conflittuale, la borghesia decise di realizzare con la religione dei compromessi sul piano politico (anche per contenere le rivendicazioni degli operai che sfruttava). Il borghese, ch’era sostanzialmente ateo nel campo degli affari, esibiva una religiosità del tutto formale.

Di fronte a questa incoerenza insorse la filosofia socialista, che mentre chiedeva la fine degli antagonismi sociali, dichiarava apertamente il proprio ateismo e imponeva, laddove era riuscita a compiere una rivoluzione politica, il regime di separazione tra Stato e Chiesa.

I socialisti al potere impararono però a proprie spese che imporre l’ateismo di stato era controproducente, per cui la religione continuò a sussistere. Quanto agli antagonismi, vennero soltanto trasformati da economici a politici, ideologici, amministrativi... in cui lo Stato giocava un ruolo equivalente a quello di Dio o della Chiesa. E fallirono miseramente.

Però il seme era stato gettato. L’uomo sta sempre più prendendo consapevolezza che per superare gli antagonismi sociali (irriducibili a ogni compromesso) ci vuole una società libera e giusta, in cui Dio (religioso o laicizzato che sia) non abbia alcun ruolo e che il concetto di “divinoumanità”, che il cristianesimo aveva applicato al Cristo (e che le filosofie laiche applicano spesso ai leader politici), in realtà vada riferito a ogni essere umano. Siamo tutti dèi perché in realtà, in maniera esclusiva, nessuno lo è.

Lentamente ma progressivamente, compiendo un passo avanti e due indietro, ci stiamo avvicinando a ciò che eravamo prima della nascita delle civiltà schiavistiche, cioè a uno stile di vita umano e naturale, che non ha bisogno di alcun Dio e di nessuna Chiesa e di nessuno Stato. La società deve imparare ad autogestirsi, rispettando le esigenze riproduttive della natura.

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2.2) Il massimo dell’ateismo possibile nella religione

Il massimo dell’ateismo possibile, restando nell’ambito della religione (e del monoteismo in particolare), è quello di equiparare un uomo (a tutti gli effetti) a (un) dio. E, in teoria, dovrebbe essere la stessa cosa anche sul versante femminile, ma di fatto non lo è, in quanto, sin dalla nascita dello schiavismo, è il maschilismo che si è imposto.

È noto che sia l’ebraismo che il cristianesimo sono due forme di ateismo rispetto all’ingenuo politeismo pagano: l’uno rende Dio totalmente nascosto (o comunque percepibile solo in via del tutto eccezionale, in forme assai particolari, come accadeva ai patriarchi, a Mosè e ai profeti); l’altro lo rende sì visibile ma solo in Cristo, e tutti gli esseri umani devono passare attraverso di lui per avere un’esperienza della divinità. L’ateismo ebraico viene garantito, in un certo senso, dal monoteismo assoluto e invalicabile; nei cristiani invece viene garantito dal fatto che solo nel suo figlio unigenito Dio può rivelarsi.

Esiste quindi nel cristianesimo una sorta di materializzazione umanistica di Dio ovvero di autorappresentazione antropologizzata della divinità: non a caso i teologi parleranno subito di “Dio incarnato” (quale prototipo dell’umanità), dando così origine a una sorta di “bi-teismo”, che poi diventerà “tri-teismo”, quando s’introdurrà lo Spirito Santo nell’economia salvifica, quale terza persona della trinità (la femminile “sophia”, l’aspetto non istituzionalizzato della fede, in quanto “lo spirito soffia dove vuole”, Gv 3,8).

La divinità resta anche nel cristianesimo una realtà esterna all’uomo (seppure in forma meno assoluta), essendo l’uomo votato comunque al male, incapace di compiere il bene con le sole sue forze, a causa del peccato d’origine. Il fatto di voler accettare una presenza divina come forma estrinseca all’essere umano induce tutte le religioni, e quindi anche il cristianesimo, a non credere possibile un’autenticità terrena. L’uomo deve semplicemente vivere di fede, confidando nella grazia divina che salva. La salvezza terrena è solo spirituale, poiché la morte, essendo inevitabile, rimanda all’aldilà la necessità di vivere secondo una piena libertà, materiale e spirituale. Nella propria mistificazione il cristianesimo considera la morte il principale effetto negativo del peccato d’origine, superiore alla stessa schiavitù sociale.

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2.3) Scienza, etica, religione e ateismo

A me non convince molto la tesi secondo cui la religione nasce dall’esperienza della morte e dal sogno, cioè dalla consapevolezza che la morte è un tragedia e non un semplice fatto naturale, e che nel sogno noi incontriamo di nuovo i nostri amici o parenti defunti, il che ci fa pensare che esista una realtà o una dimensione di vita diversa dalla nostra.

Ora, a parte il fatto che anche per taluni animali la morte costituisce una tragedia, il vero problema, in definitiva, è che la religione è frutto di un’alienazione sociale, cioè è la conseguenza della perdita di qualcosa di assolutamente vitale (p.es. un significato fondamentale della propria vita, una certezza interiore non discutibile). Insomma un qualcosa che i credenti ritengono irrecuperabile su questo pianeta e per il quale sono disposti a credere in un “amico immaginario” che risolva i loro problemi. Ecco perché è giusta la definizione di “religione come oppio”.

Se io rivedo amici o parenti defunti nei sogni, posso avere un sussulto o addirittura un incubo, perché non me l’aspettavo o perché mi è sembrato di vivere con loro un rapporto innaturale, ma non ci costruisco sopra una religione. Al massimo posso avere un certo culto per i morti, che mi piace ricordare attraverso i loro oggetti o le fotografie che li ritraggono. Ma non ci costruisco sopra una teologia o una gerarchia ecclesiastica, non divento un sacerdote e non mi metto a pregare davanti alle loro tombe.

Per me in sostanza la religione è nata proprio perché si è persa la convinzione che esista una dimensione ultraterrena del tutto naturale (coesistente) rispetto a quella terrena. Cioè quanto più abbiamo avvertito l’aldilà lontano, inaccessibile all’aldiquà, tanto più abbiamo avuto bisogno di darci una religione per continuare a crederci. Solo che così facendo siamo diventati alienati, in quanto abbiamo ritenuto che tutto debba dipendere da entità al di fuori della nostra portata, indipendenti dalla nostra volontà. La religione è diventata un’espressione della debolezza umana, il sospiro della creatura oppressa.

Ecco perché dobbiamo essere atei. Nell’altra dimensione non esiste alcun dio onnipotente e onnisciente, ma al massimo esistono i nostri antenati, in forme e modi che non possiamo sapere.

Detto altrimenti: in origine il genere umano non doveva avere alcuna percezione di distacco tra l’aldilà e l’aldiquà, nel senso che avvertiva le due dimensioni come concomitanti, coesistenti, in linea tra loro, senza soluzione di continuità... Pertanto quando moriva qualcuno, gli altri non avvertivano la cosa come una tragedia o come un fatto inspiegabile o innaturale, di fronte al quale non si può far nulla (come fanno gli animali). Morire era come attraversare una porta, e quindi come rinascere in altre forme e modi, in rapporto alle mutate circostanze, esattamente come fa il feto nel ventre della madre, in attesa di uscire. Il morire, a un certo punto, doveva risultare addirittura desiderabile, proprio in quanto si era convinti di aver dato il massimo su questo pianeta e si era pronti per una nuova esperienza.

Noi tutto ciò non riusciamo a comprenderlo e per questo ci siamo inventati delle religioni. L’alienazione è frutto di una estraneazione a ciò che un tempo appariva naturale.

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2.4) Un’ipotesi di dimensione ultraterrena

Supponiamo che il nostro pianeta non esista più e che tutto il genere umano, dai tempi in cui era apparso sulla Terra, si trovi a vivere in un’altra dimensione, di cui ovviamente al momento non possiamo sapere nulla.

Ci piace solo dare per scontato che la morte, intesa come “fine di tutto”, è in realtà soltanto un momento di passaggio da una condizione di vita a un’altra, per cui uno è costretto a continuare a vivere, che lo voglia o no, e deve trovare il modo di farlo nella maniera più dignitosa possibile, conformemente ai propri desideri.

Supponiamo anche che non esista nessuno che ci dia delle indicazioni univoche, tassative, su come dobbiamo condurre la nuova esistenza. Supponiamo cioè che non esista alcun “giudizio universale”, alcun dio onnipotente e onnisciente, nessuno che abbia la pretesa di dire: “Io sono la via, la verità e la vita”. In queste condizioni cosa faremmo?

Un aspetto preliminare, facile da capire, dovremmo metterlo subito in chiaro: a differenza di come si viveva sulla Terra, nessuno potrà più essere obbligato a fare cose contro la propria volontà. Non solo perché avremo spazi infiniti in cui poter vivere, ma proprio come regola generale dei rapporti umani.

Poiché inoltre sulla Terra abbiamo compiuto errori colossali (i credenti usano l’iperbole “abominio della desolazione”), con cui abbiamo violato la liberà altrui e persino distrutto l’ambiente in cui esercitare tale libertà, dovremmo porre le condizioni per cui tali violazioni non abbiano a ripetersi. Cioè il problema fondamentale da risolvere sarà come indurre qualcuno a non far male a nessuno, senza però togliergli la libertà di farlo. Infatti non esisteranno luoghi infernali in cui scontare le proprie colpe.

I credenti in genere si rifiutano di affrontare questo problema, poiché ritengono che debba per forza esistere una persona assolutamente irreprensibile, dotata di scienza infusa, che spiega a tutti gli altri come devono comportarsi, per cui si aspettano che se qualcuno non obbedisce, venga costretto a farlo. Ma questa sembra essere una posizione immatura, che non ripone sufficiente fiducia nelle capacità umane.

In realtà il suddetto problema può essere affrontato soltanto ricordando a tutti gli esseri umani gli errori compiuti sulla Terra, nella speranza di non ripeterli. La memoria storica di tutto ciò che è stato fatto dovrà essere sempre molto lucida.

Certo, nessuno può essere obbligato a pentirsi del male che ha compiuto, come nessuno può essere obbligato a perdonare chi si pente. Ma tutti dovranno essere messi in grado di capire che per ricominciare da capo, occorre una condivisione degli stati d’animo.

Non esiste una verità predefinita (dogmatica) delle cose, cui bisogna attenersi, nella convinzione che, così facendo, non si sbaglierà mai. Esiste solo il diritto ad essere se stessi e la necessità di poterlo essere in una relazione sociale, le cui modalità e i cui obiettivi sono liberamente accettati. Questo non impedirà di compiere errori, ma permetterà di porvi rimedio appena se ne avrà consapevolezza.

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2.5) Il valore della storia delle religioni

Mi è stato detto che faccio ricostruzioni storiche troppo eurocentriche, troppo occidentali. Sicché mi sfugge il fatto che tutte le religioni parlano di un Dio che diventa uomo. In particolare quelle orientali hanno un’idea di Dio come parte integrante e costitutiva dell’universo, non un Dio trascendente che crea dal nulla, come quello biblico.

In tutta sincerità devo ammettere che non sono un esperto di storia delle religioni. Ho letto Weber in merito, ma secondo me dà troppa importanza alle religioni per spiegare i fenomeni economici. Ho letto qualcosa di induismo e buddismo, ma mi sono sembrate più delle filosofie di vita che delle teologie. Hanno un rapporto molto stretto con la natura, che da noi si è perso, e coi parenti defunti, che per noi invece è abbastanza relativo. Ma non vedo alcuna attenzione per la storia o per la politica o per la giustizia sociale. Di fronte ai problemi o alle tentazioni o ai desideri che appaiono difficili da realizzare, il segreto sta nel non desiderare, nell’autolimitarsi: questo è ciò che vedo nelle filosofie orientali a sfondo più o meno religioso. Il che è castrante, poiché il desiderio fa parte della natura umana. Inoltre mi sembrano filosofie/religioni più comunitarie che popolari, nel senso che riguardano singole comunità ristrette, in cui ognuno di sforza di adeguarsi a riti, funzioni e pratiche ascetiche particolari, senza prendere in considerazione l’esistenza di altre comunità. Non c’è spirito di popolo, come quello ebraico. Ecco forse l’essenismo è l’esperienza che più si avvicina alle religioni orientali.

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2.6) L’etica scientifica e la scientificità dell’etica

A volte ho l’impressione che gli atei siano piuttosto ridicoli quando affermano che la religione non è scientifica. Come se la religione non avesse contenuti meritevoli d’essere presi in esame sul piano etico.

In realtà se c’è qualcosa di scarso o di limitato sul piano etico-morale è proprio l’atteggiamento scientifico, soprattutto quando nega valore alla religione sulla base del fatto che non è in grado di “dimostrare” la fondatezza delle proprie convinzioni.

A questi atei, spesso cinici e materialisti, vorrei dire, papale papale, che la scienza, come pretesa incontrovertibile, non può esistere, poiché tutto è soggetto a perenne evoluzione, nel breve o nel lungo periodo. Esiste semmai il buon senso o il senso comune (come voleva Gramsci). Esiste una dialettica degli opposti che deve portare a una sintesi (come voleva Hegel). Può esistere il pensiero divergente o controcorrente, ma questo risulta essere davvero convincente solo col passare del tempo, quando è entrato nell’immaginario collettivo e tutti lo considerano qualcosa di normale (vedi la Terra che gira attorno al Sole).

Scienza e religione dovrebbero misurarsi solo sul piano etico, mostrando chi delle due è capace di dare frutti migliori a favore della democrazia, dei diritti umani e naturali, di cui la libertà di coscienza è uno dei principali.

Un atteggiamento scientifico antireligioso spesso non è che un atteggiamento dogmatico, come appunto spesso quello religioso, soprattutto quando si trasforma in “teologia”. Possiamo trasformare la scienza in una nuova religione? Come regola di vita dovremmo prendere quella laica di san Paolo: “Vagliate tutto e trattenete il buono”.

Certo è che se la religione vuole detenere un potere politico, il confronto diventa maledettamente difficile. L’anticlericalismo diventa non solo inevitabile ma necessario.

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2.7) I campi separati delle scienze umane

Non sono convinto che abbia ragione chi, per affermare i princìpi della laicità, sostiene che scienza, etica e religione sono ambiti diversi, che van tenuti separati.

Davvero la scienza si fonda sulla ricerca, senza pregiudizi di sorta, e sulla continua verifica dei propri assunti, senza dogmi di alcun tipo? Siamo davvero così liberi di poter agire così in un sistema sociale dove il profitto economico è la prima ragione di vita?

Dicono inoltre che la religione si basa su verità di fede o su un sentimento interiore, di cui i credenti non possono avere delle “prove”. Davvero i credenti non ritengono che le loro relazioni sociali non costituiscano una “prova” sufficiente per continuare ad aver fede?

Dicono che una persona che affrontasse la ricerca storica, e quindi la scienza storica, adottando un approccio religioso, trarrebbe sempre delle conclusioni a favore della propria fede. Ma questo limite non può essere scongiurato da un approccio laicista, poiché anche dell’ateismo si può fare una “religione”.

Cioè sul piano gnoseologico non c’è nulla che in sé e per sé possa dirci quando esiste una verità delle cose e quando no. Sono altri gli aspetti cui dobbiamo prestare attenzione, e il primo è sempre quello dei bisogni umani: come vengono soddisfatti? Li soddisfa di più la scienza o la religione?

Dicono inoltre che l’etica è un ambito che ha carattere filosofico, in quanto tende a stabilire alcune regole di civile convivenza tese al miglioramento della società e del singolo. Essa non è una scienza e neppure una religione, ma, proprio per il suo carattere generalista di materia che stabilisce i termini del buon agire, ha il compito di definire limiti per la scienza e per la fede che possano ritenersi validi per tutti gli uomini.

In realtà le cose non sono così semplici. Un credente assorbe tutta l’etica all’interno della propria fede, a meno che lo Stato non lo obblighi ad assumere atteggiamenti laici, come in genere succede nelle pubbliche istituzioni.

Inoltre se un credente separasse completamente la propria fede dalla scienza vivrebbe come un folle. Oggi è impossibile prescindere dalla scienza, proprio perché siamo usciti dal Medioevo.

Ma anche se lo scienziato lavorasse senza porsi problemi etici, finirebbe per produrre solo delle mostruosità, come p.es. le armi chimiche o atomiche o batteriologiche. Dovrebbe essere anzi l’etica a porre alla scienza gli obiettivi utili da perseguire. Anche perché se non lo fa, i risultati della scienza verranno inevitabilmente strumentalizzati dai poteri dominanti.

Forse a un credente può non far piacere essere giudicato da un’etica laica, non religiosa. Invece, come la religione si permette il lusso di criticare l’etica laica, così è giusto che avvenga il contrario. Questo per il bene dell’uomo e della società intera in cui si vive. Che il bene provenga dalla religione o dall’etica non deve diventare un problema per nessuno, proprio perché dobbiamo abituarci a convivere in maniera democratica.

A volte mi chiedo: che cosa va considerato meritevole di provata verità: un esperimento di laboratorio, i cui risultati possono essere ripetuti in un altro laboratorio, o un’esperienza comunitaria, i cui membri si sentono gratificati a vicenda? C’è più verità in una tradizione socio-religiosa consolidata nel tempo, oppure nelle condizioni e mezzi artificiali che si usano nell’ambito di un laboratorio scientifico? In che misura una scienza del genere potrà mai mettere in discussione le verità di un’esperienza religiosa? Per me la religione è un’etica che può essere superata soltanto con un’altra etica, i cui valori e soprattutto le modalità in cui viverli dimostrino d’essere superiori.

Certo, i fanatici della scienza potrebbero sempre dirmi che se seguissimo la “tradizione”, crederemmo ancora al Sole che gira attorno alla Terra. Bisogna tuttavia dire che abbiamo vissuto per milioni di anni convinti che il fosse il Sole a girarci attorno e non abbiamo avuto crisi esistenziali, anzi abbiamo vissuto in maniera rispettosa delle esigenze riproduttive della natura: cosa che oggi non riusciamo a fare quasi in nessun modo.

Semmai ha sbagliato la Chiesa a connettere le verità scientifiche a quelle teologiche e a imporle in chiave politica.

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2.8) Poter essere e dover essere

Dicono che l’assunto che identifica l’etica è il “dover essere”, mentre quello che identifica la scienza è il “poter essere”.

Questa definizione però mi pare ambigua, poiché se la scienza non si pone il problema del “dover essere”, di sicuro si porrà contro l’essere umano. Questo perché essa esercita le proprie ricerche in contesti condizionati da elementi negativi, come per es. il profitto economico o il dominio politico di una classe sociale.

Il che non vuol dire che il “dover essere” sia qualcosa di statico o di dogmatico. Quello che viviamo oggi non è certo quello che si viveva nel Medioevo. Il “dover essere” si deve interpretare come una necessità di conformarsi a esigenze di tipo collettivo, non a quelle specifiche di classi sociali che vogliono avere privilegi particolari.

Se togliamo all’etica il “poter essere” la trasformiamo in un moralismo, un dovere fine a stesso, di tipo kantiano, che può portare anche alle peggiori dittature. Una persona matura e responsabile ha bisogno di essere umana in maniera conforme alla propria libertà di coscienza.

Anche la scienza però dovrebbe avere l’obbligo di rispettare le esigenze umane e naturali. Cosa che dal ’600 ad oggi non ha mai fatto, in quanto si è posta al servizio del capitale e delle conquiste coloniali. Solo oggi si comincia a parlare di tutela ambientale, ma temo che ormai sia tardi. Pensiamo p.es alla medicina, che è tutta sintetica. Siamo così dipendenti da questa “droga chimica”, che se tornassimo alla fitoterapia moriremmo tutti. Non riusciamo neanche più a capire la differenza tra “chimica naturale” e “chimica artificiale”.

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2.9) Mistico o fideistico?

Mi è stato detto che confondo la parola “mistico” con “fideistico”. Nel senso che i veri mistici sono molto concreti e partono da un esperienza diretta più che da convinzioni dogmatico-fideistiche e per questo non sono ben visti dall’ortodossia. Si pensi a san Francesco, Margherita Porete, Meister Eckart...

In effetti mi rendo conto che il misticismo non sempre viene apprezzato dalle autorità ecclesiastiche, abituate come sono a voler tenere tutto sotto controllo, salvo ricredersi dopo molto tempo. Tuttavia per me mistico e fideistico sono equivalenti. Esattamente come clericale, confessionale, religioso... In astratto non faccio neppure differenza tra religioso e superstizioso, a meno che non siano in questione aspetti storici o culturali o sociologici, con cui differenziare una confessione o una religione da un’altra. Per un laico (ateo, agnostico, non credente) un sacramento è qualcosa di superstizioso, anche se ovviamente per un credente è qualcosa di misterico.

In ogni caso non mi risulta che qualche mistico abbia avuto la forza di ribaltare gli assetti fondamentali del potere ecclesiastico ufficiale, o abbia indotto a ripensare quelli culturali o i dogmi ufficiali.

Quando mi si dice che Cristo, Buddha, Lutero, Gandhi ecc. erano “mistici”, mi rifiuto di crederlo. Per me Cristo era un politico, Lutero un teologo (che quando si mise a fare il politico, stette dalla parte sbagliata, quella dei feudatari), Buddha un filosofo (la cui filosofia di vita poté realizzarsi al di fuori dell’India), Gandhi era un giurista, un filosofo e un politico.

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3) I limiti del cattolicesimo italiano

I cattolici dovrebbe ammettere di credere ai vangeli as is, cioè così come sono, a prescindere da qualunque esegesi critica, semplicemente perché sono impegnati nell’associazionismo di questa confessione, nelle opere di carità, nel volontariato ecc.

Infatti da molti dei loro interventi teorici non si ha l’impressione di un background di studi teorici. Non si mettono mai in discussione le pericopi sui miracoli, sulle affermazioni mistiche del Cristo, sulle sue riapparizioni ecc. Come se non si riuscisse a distinguere il mito dalla realtà, le affermazioni umanamente accettabili di Gesù da quelle del tutto redazionali, frutto di rielaborazioni teologiche di molto successive alla sua morte.

Eppure all’interno dell’esegesi critica si possono trovare autori cattolici che hanno tranquillamente riconosciuto la superiorità di quelli protestanti, che si sono avvalsi, nella lettura del N.T., di scienze ermeneutiche che con la teologia nulla hanno a che fare. E questo non da oggi, poiché le tre ricerche storiche compiute a livello mondiale coprono un periodo lunghissimo, che va dal 1778 ad oggi, e che risultano culturalmente stimolanti anche per chi credente non è.

Insomma i cattolici non possono ridursi a sentirsi degli assediati nei confronti di un secolarismo incalzante, ma dovrebbero guardare le cose in maniera propositiva, depurando la loro religione da tutte quelle incrostazioni che oggi han fatto il loro tempo.

Detto altrimenti. Il problema dei cattolici è che in genere non sanno quasi nulla di esegesi critica, perché restano fermi all’appartenenza schematica a una confessione e all’impegno volontaristico nel sociale, cioè spesso cercano in Gesù Cristo una risposta a un dramma personale, di tipo psicologico o di altra natura. Non lo affrontano come qualcosa che può andare oltre quanto detto nei vangeli, che sono per lo più costruzioni leggendarie, ma come se dovesse offrire una compensazione di tipo psicologico. Non riescono a capire il vero messaggio universale del Cristo, che se fosse religioso sarebbe estremamente limitato, riduttivo.

Rischiano continuamente di non andare oltre ciò che la Chiesa trasmette, cioè oltre la rappresentazione ufficiale che essa offre, convinta di averne il monopolio. Non sanno confrontarsi con altre interpretazioni dell’evento Gesù, un po’ perché, non essendo abituati al libero esame, non ne hanno gli strumenti, un po’ perché la cosa non gli interessa, in quanto riducono la fede a qualcosa di emozionale o di sentimentale.

Soprattutto non capiscono che ad un certo punto finirà tanto la religione quanto l’ateismo e rimarrà soltanto l’uomo naturale, umanamente laico, che crede solo in se stesso, poiché avrà risolto gli antagonismi sociali senza dover chiedere aiuto a nessuna entità metafisica a lui esterna, che inevitabilmente lo renderebbe una persona immatura, priva di libero arbitrio. È che i cattolici purtroppo ritengono che il peccato originale sia stato così devastante da rendere impossibile ogni ritorno all’Eden. E si oppongono a chiunque tenti di farlo, perché per loro è più importante affermare ciò in cui credono che non rimettersi in discussione per il bene dell’umanità.

L’universalità del cattolicesimo romano è stato più che altro una conseguenza del colonialismo europeo. Nessuna religione può aspirare all’universalità, proprio perché è una credenza particolare. Lo stesso Gesù, se voleva essere innovativo, non poteva ragionare come i farisei, che disprezzavano i Galilei e i Samaritani, o come gli zeloti, che detestavano i Giudei. Lui aveva cercato una dimensione che andasse oltre le divisioni etniche o tribali. E per fare questo aveva dovuto rinunciare alla religione.

Oggi è comunque difficile pensare che il futuro del cattolicesimo possa dipendere da qualche nazione occidentale o da qualche movimento ecclesiale che appartenga a quest’area geografica. Per i cattolici il superamento dei conflitti sociali non potrà mai esistere, se non in una prospettiva escatologica. Quindi bisognerà che si preparino a essere scalzati dal cattolicesimo sudamericano o africano o asiatico, che sicuramente vive una situazione molto precaria, ha meno legami coi poteri dominanti e non avrà alcun interesse a godere dell’extraterritorialità per riciclare denaro sporco o per evitare processi a carico dei preti pedofili e cose del genere. Saranno i cattolici di quei Paesi a svegliare le coscienze assopite dei cattolici occidentali, che si accontentano del minimo, chiudendo gli occhi sui grandi problemi della loro confessione.

Questo spiega perché oggi sarebbe meglio essere atei: si ha almeno il vantaggio di mettere tutte le religioni sullo stesso piano, senza fare preferenze di sorta. È un buon punto di partenza, anche se non è certo con l’ateismo che si possono risolvere i problemi sociali, meno che mai si può pensare che sia qualcosa da poter imporre con la forza di uno Stato.

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3.1) I limiti dogmatici del cattolicesimo

Qual è la cosa che mi disturba di più dei cattolici? Il fatto che quello italiano è rimasto fermo, sul piano teorico, a convinzioni che non hanno da dire più niente alla realtà. Nel migliore dei casi abbiamo a che fare con un credente impegnato nel volontariato. Ma da quando la politica cattolica si è laicizzata (salvo gli assurdi anacronismi e integralismi strumentali di Salvini e della Meloni), accettando la separazione di fede e politica, sembra che la loro fede si sia come svuotata. E non riescono a fare il passo che li fa uscire dalle secche del conservatorismo. Non riescono a mettere in discussione dogmi e abitudini superatissimi, come il primato petrino, l’infallibilità pontificia, la monarchia assoluta del Vaticano, il celibato del clero, i dogmi fantasiosi su Maria, l’idea che una Chiesa debba avere un proprio Stato politico, ecc.

Quando i pontefici scrivono cose pregevoli sul piano p.es. ecologico o dei diritti umani, non dicono niente di più di ciò che si può leggere nelle pubblicazioni laiche. Non vedo mai l’intenzione di ripensare la propria storia. Non vedo mai la volontà di ritornare sui propri passi, chiedendosi i motivi per cui un cristiano oggi è anzitutto un cittadino fortemente imborghesito e solo nella sua vita privata è un credente. Mi chiedo come farebbero a esistere se non avessero il papa, che vuole continuamente avere una rilevanza internazionale. In quale altra confessione si fa dipendere la propria credibilità dall’attività pastorale (politica) del proprio leader? Nel cattolicesimo esiste un insopportabile individualismo proprio a livello dei suoi massimi vertici, a prescindere dalla bontà delle encicliche.

Non si tratta solo di “cesaropapismo”, poiché in questo gravissimo limite sono coinvolte tutte le confessioni cristiane (per non parlare di quelle islamiche ed ebraiche). Ma anche di “papocesarismo”, cioè dell’idea che una Chiesa debba avere una propria strutturazione istituzionale di tipo statuale o politico. Nel passato i legami con la Democrazia cristiana sono stati qualcosa di assolutamente vergognoso. E oggi si ripetono coi partiti del centrodestra. Ricordiamo tutti quando Montini disse alle Brigate Rosse di lasciare libero Moro senza condizioni. Sappiamo bene che ciò rispecchiava le indicazioni di Andreotti e di molti altri leader democristiani che volevano la sua morte.

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3.2) La presunzione delle tradizioni

“Abbiamo Abramo per padre. Non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?” – con queste parole del cap. 8 del IV vangelo i Giudei mettevano a tacere Gesù ogni volta che venivano accusati d’incoerenza, di non essere abbastanza risoluti nell’opporsi ai corrotti sadducei e ai Romani oppressori.

Era come se gli avessero detto: “Possono farci quel che vogliono e tu puoi criticarci quanto ti pare, ma alla fine quel che contano sono le nostre tradizioni, in cui crediamo da tempi immemorabili e che abbiamo conservato integre”. Naturalmente mentivano, poiché i mutamenti col tempo erano stati enormi, oppure si sopravvalutavano.

Oggi la stessa cosa succede coi cristiani. “Cristo è risorto – dicono – e questa è una verità più potente di tutti gli scandali della Chiesa e anche di tutte le vostre interpretazioni critiche dei vangeli. La Chiesa esiste da duemila anni proprio perché è fondata su basi solide, anche quando viene gestita da uomini corrotti. Essa conserva in se stessa tutte le potenzialità per superare i propri problemi”.

E con ciò il discorso coi cristiani è chiuso. Puoi dirgli tutte le volte che vuoi che il cristianesimo in duemila anni di storia ha subìto mutamenti tali da diventare tutta un’altra cosa rispetto alla fase primitiva: non servirà a nulla. Se sono cattolici non crederanno alle verità degli ortodossi o dei protestanti; se sono protestanti non crederanno né a quelle dei cattolici né a quelle degli ortodossi. E nessuna delle tre confessioni si rende conto che la secolarizzazione ha indotto gli uomini a non credere in alcuna religione.

Tutte e tre s’illudono di poter costituire un’alternativa praticabile a ogni forma di capitalismo e di socialismo. Tutte e tre restano convinte che le ideologie laiche producono solo delle mostruosità che fanno pagare all’intera umanità dei prezzi elevatissimi. E restano lì, come il cinese seduto sulla riva del fiume, in attesa che gli uomini senza Dio si pentano del male compiuto.

Come se solo i cristiani avessero la verità in tasca! Come se non sapessero che la nascita delle ideologie laiche è una conseguenza dello sviluppo storico del cristianesimo, che da ortodosso è diventato cattolico e poi protestante! Come se per loro fosse assurdo sostenere che all’abominio della desolazione gli stessi cristiani hanno enormemente contribuito!

Coi cattolici, in particolare, non è facile discutere, poiché, essendo abituati ad associare fede e politica, non riescono a esimersi dal mostrare la loro arroganza della verità. Non sono capaci di far parlare solo le idee, di assumere atteggiamenti distaccati, lasciando che sia l’interlocutore a farsi una propria idea su determinati argomenti. Hanno anzitutto bisogno di sapere da che parte stai.

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4) Il concetto cristiano di Trinità

C’è qualcosa che non torna nella concezione di Trinità che hanno i cristiani. Da tempo i non credenti ritengono che altro non sia che una proiezione della famiglia patriarcale. I credenti ovviamente pensano il contrario, e cioè che siamo noi a immagine e somiglianza della divinità.

Tutti noi siamo figli di una coppia. Ebbene se lo Spirito fosse la parte femminile della Trinità, una sorta di “moglie” di Dio, allora avremmo dovuto avere due figli, un maschio e una femmina, giusto per essere equi.

Se invece lo Spirito è come una “sorella” del Cristo, allora non si spiega come sia stata generata da Dio, che viene considerato sempre come un “padre” senza madre e senza moglie, una sorta di “ermafrodito”.

Se invece lo Spirito è la “moglie” del Cristo, allora Dio-padre a che serve? Non potremmo tutti farne a meno?

Certo, uno potrà chiedersi da dove vengano Logos e Pneuma. Ma perché porsi questa domanda quando la riteniamo insulsa parlando di Dio? È come se noi ci chiedessimo com’eravamo nel ventre di nostra madre. Quel che c’interessa è il prodotto finito. Siamo il prodotto derivato di qualcosa di originario? Bene. Basta che questo non ci faccia sentire manchevoli di qualcosa, in perenne dipendenza dalla volontà di qualcuno a noi superiore.

A noi interessa soltanto sapere che siamo figli di 1A e 1B, i quali, sommati, danno 2A o 2B. Se fossimo figli di 1 e basta, non riusciremmo a capire la differenza di genere. Quando c’è il sesso di mezzo, 1+1 dà sempre 1. Abbiamo bisogno di qualcosa che sia diverso dall’altro, in maniera che si completino a vicenda.4

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4.1) Il concetto superato di Dio-padre

Se davvero esistesse un Dio-padre, non credo che avrebbe mai potuto chiedere al proprio figlio di sacrificarsi per fare in modo che, risorgendo, il genere umano capisse che il peccato originale non è la fine di qualunque capacità di bene. Se anche non si vuol pensare che il Padre avesse bisogno del sacrificio del Figlio per riconciliarsi con una umanità irrimediabilmente dannata (che avrebbe voluto sterminare come ai tempi di Noè), non si può neppure pensare che l’autoimmolazione del Figlio fosse l’unico modo per far capire al genere umano che non doveva sentirsi disperato. Cioè occorre che il credente accetti l’idea che il Cristo avrebbe potuto realizzare ugualmente i propri obiettivi contro i Romani e i gestori del Tempio, e che non per questo avrebbe tradito la sua missione redentiva (consolatoria). Anzi una vittoria sui propri nemici avrebbe rafforzato ancor più l’idea che un ritorno all’Eden è un’eventualità realizzabile anche su questa Terra.

Vi piace credere che Gesù sia risorto o che la sua resurrezione sia la cosa più importante della sua vita? Se davvero credete che in lui vi sia una componente divina, non dovreste farvi dei problemi se questo evento fosse accaduto non dopo una sconfitta del movimento nazareno, bensì dopo una sua vittoria. Gesù sarebbe potuto risorgere lo stesso, da anziano giunto alla fine dei suoi giorni. Oppure siete così antisemitici che preferite accettare l’idea che Gesù non poteva che essere ammazzato dagli ebrei, perché solo in questa maniera il suo messaggio avrebbe potuto rivolgersi di preferenza ai pagani? Davvero un leader del genere, così umano e democratico, se avesse vinto la sua battaglia politica, avrebbe cercato di far valere un primato di Israele sulle nazioni pagane?

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4.2) Logos e Pneuma

Noi non sappiamo se esiste un Dio facente funzione di “Padre”, e neppure c’interessa, poiché pensare a qualcuno di “onnisciente” e “onnipotente” è umiliante per la natura umana. Però è giusto pensare che se Cristo è a capo di tutta la creazione (come vuole il Prologo giovanneo, dove viene chiamato Logos), deve per forza esserlo anche lo Spirito, il Pneuma, il soffio vitale, cioè la variante femminile, la sua controparte, in quanto in principio non vi è l’uno immobile, statico, pago di sé, ma l’uno che si qualifica sdoppiandosi immediatamente in due entità diverse. Il due rappresenta la diversità che si completa nel rapporto di genere, fondendo le parti, ma senza confonderle, senza giustapposizioni di sorta. Se si accetta che in principio vi è il Logos, bisogna anche aggiungere che presso di lui era il Pneuma, la parte femminile della divino-umanità.

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4.3) Dal Dio ebraico all'ateismo moderno

Che cos’è Dio per gli ebrei? È tutto ciò che non è, il totalmente altro, l’irrappresentabile, l’indicibile, un nome che non si può neppure scrivere. Infatti usano il tetragramma YHWH o mettono l’apostrofo nella parola Dio al posto della “i”. Si potrebbero usare tantissime parole per qualificarlo: inattingibile, inarrivabile, incommensurabile… Gli islamici ne usano 99.

L’esistenza umana è vittima della schiavitù, è schiava di se stessa: Dio è invece la libertà che si fa necessità. E Mosè deve coprirsi il volto, perché non può e non deve vederlo, altrimenti morirebbe. Chi è impuro non ha diritto di vedere la purezza: deve prima purificarsi, ma siccome di fronte a Dio si ha sempre torto, solo lui può decidere quando, dove e come manifestarsi. Di fronte al roveto ardente Mosè deve togliersi i sandali. Il Dio degli ebrei è energia allo stato puro, che si trasforma in materia senza consumarsi. Non è lacerato dall’uso del libero arbitrio, poiché la coscienza di sé gli sta sempre di fronte.

La sua mente resta imperscrutabile all’uomo. Dio ha delle ragioni che l’uomo singolo può conoscere solo a posteriori, a cose fatte, e non è detto che vi riesca, poiché le conseguenze di certi eventi, e quindi i loro significati ultimi, quelli più reconditi, possono svelarsi dopo un tempo lunghissimo. Di fronte all’Antico di giorni, un giorno vale mille anni e mille anni un giorno.

Questo modo di rappresentarsi la divinità esiste anche nella cultura islamica, la quale, siccome si ferma qui, tende a equipararla al Destino, nei cui confronti l’uomo non può far nulla, se non pregare.

Gli ebrei invece avvertono anche il bisogno di “umanizzare” il loro Dio. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, facciamolo maschio e femmina”, viene detto nel Genesi. Col che l’autore lascia pensare che siamo tutti figli di un rapporto di coppia.

E poi Abramo parla con Jahvè come se questi fosse una persona umana, soltanto più saggia di lui, più giusta, in grado di vedere più in là di lui. Dio è una persona onnipotente che di fronte alle suppliche, ai sentimenti umani, al dolore che si prova, può recedere dalle proprie decisioni, può cambiare atteggiamento, può rinunciare a un’azione distruttiva, per quanto motivata sia. “Se trovo anche un solo giusto a Sodoma, non sterminerò i suoi abitanti”, dice di fronte alle richieste di tolleranza, di benevolenza che Abramo gli suggerisce.

Jahvè è sicuramente un padre e un padrone, è un “Signore degli eserciti”, ma sa anche essere misericordioso, compassionevole, comprensivo. Sperimentano questa sua personalità “umana”, questa sua piacevole debolezza, anche Giona, Giobbe e tanti altri.

Tuttavia la teologia cristiana fa un passo avanti. “Dio nessuno l’ha mai visto”, dice il Prologo di Giovanni, smentendo così, con una sola frase, tutti i rapporti diretti o personali dell’uomo con la divinità. “Solo uno l’ha visto: suo figlio”. Gesù Cristo viene rappresentato come il Figlio unigenito, in via esclusiva (cioè come solo lui può esserlo), di un Dio-padre totalmente inaccessibile all’uomo. Quindi d’ora in poi non è più possibile mettersi in relazione con la divinità se non passando attraverso il Figlio di Dio, il Dio-figlio, e quindi se non passando attraverso la Chiesa che lo rappresenta.

Nei Sinottici Gesù si presenta come “figlio dell’uomo”, per indicare la propria integrale e autentica umanità, ma viene presentato anche come “Figlio di Dio”, inviato dal Padre, con la “F” maiuscola, a indicare che solo lui lo è: tutti gli altri (i giusti, i profeti, i credenti…) lo sono solo in senso metaforico o simbolico. Nel IV vangelo questo “inviato” o “prescelto” dalla divinità, lo è non per “adozione”, ma proprio per “figliolanza divina”, cioè secondo “natura”, in quanto da sempre “consustanziale”, in maniera misteriosa, alla natura del Padre, si dirà nei primi Concili ecumenici sulla cristologia.

Gesù Cristo è autorizzato a identificarsi completamente con la divinità, in maniera esaustiva, assoluta, riservata soltanto a lui, pur essendo anche completamente umano. “Dio vero da Dio vero, generato, non creato”, viene detto nel Credo, in cui l’incarnazione tramite lo Spirito santo diventa un dogma.

Un ebreo ortodosso non avrebbe mai potuto accettare una identificazione del genere. Avrebbe considerato una follia o una bestemmia che uno dicesse “Io e il Padre siamo una cosa sola” (come viene fatto dire a Gesù in Gv 10,30); ovvero: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 12,45). E non avrebbe avuto tutti i torti.

Quando nei vangeli gli ebrei dicono a Gesù: “Nessuno può perdonare i peccati se non Dio” (Mc 2,7; Lc 7,49), volevano appunto dire, giustamente, che nessuno può leggere la coscienza umana. Ma i cristiani dicono il contrario: “A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati, e a chi li riterrete, saranno ritenuti” (Gv 20,23).5 Come se Gesù volesse comportarsi come un “Dio onnisciente” e attribuire ai suoi discepoli identiche facoltà, quando in realtà voleva soltanto eliminare l’assurda equazione di malattia e colpa, tipica degli ebrei, per i quali non aveva senso che uno fosse molto malato senza alcuna colpa morale: un tema trattato soprattutto nel libro di Giobbe, ove i rabbini si sentono autorizzati a criticare il disgraziato protagonista, che non si sentiva colpevole di nulla.

Senonché i teologi cristiani non si rendono conto che se tutto ciò ch’essi dicono fosse vero, cioè se la seguente tesi andasse considerata dogmatica (e non semplicemente metaforica): “Per mezzo di Cristo tutte le cose sono state create” (Gv 1,3), Dio potrebbe anche non esistere naturalmente.

Nessun cristiano arriverebbe mai ad accettare che non cambierebbe nulla se Dio non ci fosse. Eppure è proprio nei dogmi cristologici che il Padre diventa una mera rappresentazione del Figlio o il frutto di una sua immaginazione. E, per quanto gli evangelisti si sforzino di far apparire il Cristo un extraterrestre, egli, in definitiva, di fronte agli esseri umani a lui coevi, appariva soltanto come “uomo”. Gli hanno attribuito, mentendo, dei miracoli favolosi, al di fuori delle capacità umane, sulla base di un semplice ragionamento: se Gesù è davvero risorto, allora è una divinità, e se è una divinità, allora è in grado di fare qualunque cosa. Ma così facendo, non si sono resi conto: 1) che un Cristo così favoloso avrebbe violato la coscienza umana; 2) che il ruolo di Dio-padre diventava del tutto marginale, anche se poi han dovuto rimediare dicendo che solo Dio conosce i tempi del “giudizio universale” (Mc 13,32; At 1,7), giustificando così la mancata parusia trionfale del messia.

In ogni caso nel cristianesimo si continua a credere in Dio proprio perché è una religione, e tutte le religioni non possono rinunciare a un “Creatore”, a meno che non siano delle filosofie che parlano dell’essere e del nulla in maniera astratta, come faceva quella hegeliana, che però non era che una laicizzazione del cristianesimo.

Dunque, nella identificazione in via esclusiva del Cristo con Dio, il Padre scompare e non resta che il Figlio (e la sua Chiesa), che lo si voglia o no. A questo punto è come se il Figlio dicesse: “Mi sento una divinità proprio perché non so da dove vengo, non so quale sia la mia origine”. Gli uomini sanno che sono stati generati da altrettanti esseri umani, ma la divinoumanità del Cristo è tale proprio perché il suo lato umano non sa da dove provenga il suo lato divino. È una garanzia di autenticità la profondità del suo non-essere (quel “non-essere” che invece per noi umani è sempre fonte di infiniti problemi).

Ma allora è forse giunto il momento di fare un ulteriore passo avanti in direzione dell’ateismo, ponendosi in discontinuità con la teologia cristiana, che risulta, a causa dell’esclusività assoluta del rapporto Padre-Figlio, qualcosa di profondamente unilaterale, di infantile, e quindi di non completamente, non esaurientemente umanistico.

Dobbiamo portare alle estreme e più logiche conseguenze l’ateismo religioso del cristianesimo, dicendo che non solo Dio non esiste (o è irrilevante), ma anche che la divinoumanità riguarda ogni essere umano, non unicamente il Cristo. Cioè tutti noi non siamo anzitutto “figli di Dio”, quanto piuttosto delle divinità simili a chi ci ha creati. Cioè siamo parte di un’essenza divinoumana universale che ci precede nel tempo. Non c’è nessuna esclusività nel Figlio, poiché siamo tutti Padri e Figli contemporaneamente. Al massimo esiste una precedenza temporale, come se l’essenza universale precedesse l’essere terreno.

Quel che più importa però è affermare che nel concetto di Padre e di Figlio esiste una differenza di genere, per cui il Padre può essere una Madre e il Figlio una Figlia. E in questa natura bipolare, dialettica, in cui un elemento si compensa nell’altro, pur nella propria diversità, non possiamo sondare le profondità della coscienza, né propria né altrui. Abbiamo una coscienza che è più vasta della vastità dell’universo.

Dobbiamo in sostanza passare dalla monarchia e dall’aristocrazia ebraico-cristiana alla democrazia dell’ateismo laico-umanistico.

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4.4) Non può esistere nulla di diverso dall'umano

Non può esistere un Dio-padre onnipotente e onnisciente, perché per noi umani sarebbe intollerabile. L’idea di un Dio-padre è autoritaria per definizione, oltre che paternalistica e maschilistica.

Al massimo potremmo credere in un Cristo padre del genere umano, e in una figura femminile, moglie di lui (chiamata Ruah, Sofia, Sapienza, Spirito, Paraclito o come si preferisce), madre della stessa umanità. E noi tutti, a nostra volta, saremmo padri e madri di nuovi figli.

Nessuno è destinato a rimanere “figlio”. Si è “figli” solo perché siamo tutti soggetti a una “evoluzione”, la quale, a un certo punto, s’interrompe, facendoci prendere coscienza che siamo diventati “adulti”, liberi di agire in autonomia. E la prima cosa di cui prendiamo consapevolezza è che tutti, senza alcuna eccezione, abbiamo una natura divino-umana.

Il dogma secondo cui il Figlio di Dio sarebbe “generato non creato”, va rifiutato con decisione. Nessuno può essere costretto a rimanere nel ruolo di “figlio” ab eterno. L’evangelista Luca che fa dire a Gesù la frase: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (22,42), lo obbliga a dire una cosa assolutamente vergognosa. Un padre che pretende il sacrificio del figlio per riconciliarsi con una umanità che, secondo lui, meriterebbe di scomparire, è un mostro. Se Cristo è “figlio” di qualcuno, lo è di qualcosa di cui non ha consapevolezza: è “figlio del nulla”, considerando il nulla una realtà coesistente all’essere. Neppure a noi umani interessa sapere di chi siamo “figli”. Lo siamo, certamente, ma sappiamo anche di poter essere “padri”. E questo ci basta.

Attributi come onnipotente e onnisciente non possono appartenere a nessuno in particolare, in quanto sono lesivi della dignità umana, sono mortificanti, soprattutto l’onniscienza. Un Dio onnisciente che ci leggesse nel pensiero, che anticipasse le nostre intenzioni, la nostra volontà, violerebbe immediatamente la nostra libertà di coscienza. Scienza e potenza si acquisiscono strada facendo, in un percorso che prevede “prove ed errori”, e questo vale per tutti, anche per chi ci ha creati. Lo dimostra il fatto che per costruire il pianeta in cui viviamo ci sono voluti 4,5 miliardi di anni.

Noi non possiamo né dobbiamo accettare l’idea di un Cristo onnipotente e onnisciente. Non può aver fatto quel che ha fatto, sapendo sin dall’inizio come sarebbe andata a finire. Questo fatalismo è insopportabile. Non siamo burattini nelle sue mani. Non abbiamo recitato una parte prestabilita da una mente superiore, anche perché alla fine egli è morto per davvero. E di fronte alla sua morte non possiamo non pensare che sarebbe potuta andare diversamente.

Se Cristo avesse potuto evitare di morire in croce, non l’avrebbe fatto avvalendosi dei suoi poteri divini, ma limitandosi unicamente e semplicemente a fare considerazioni umane. Se egli era onnipotente e onnisciente e non ha usato i suoi poteri per non far vedere che siamo degli inetti, delle persone incapaci di sapere e di volere il vero bene, allora vuol dire che noi, pur sentendoci umiliati, non dobbiamo pentirci di nulla, poiché tutto era già stato deciso dalla prescienza divina. La nostra insipienza e la nostra impotenza sarebbero state assolutamente previste, per cui ciò che gli abbiamo fatto rientrerebbe nella normalità. È questa la tesi rivoltante di Pietro, espressa agli inizi degli Atti degli apostoli.

È assurdo pensare che dobbiamo limitarci a prendere atto che non saremo mai capaci di vero bene e che la nostra salvezza dipende solo dalla grazia divina o dalla benevolenza paterna. Queste tesi religiose sono assolutamente stomachevoli e vanno rigettate con decisione.

Il fatto che Cristo sia morto per davvero è una garanzia della sua piena umanità, cioè del fatto ch’era privo di attributi divini diversi dai nostri. Non è sceso dalla croce proprio perché non poteva farlo, non perché non ha voluto. Nessuno dal cielo è intervenuto a liberarlo, proprio perché in cielo non c’è nessuno. Nessuno lo ha risvegliato dalla tomba, proprio perché non esisteva nessuno in grado di farlo. Se è scomparso dalla tomba, solo lui può sapere come vi sia riuscito. Noi sappiamo soltanto che non “fingeva” di essere umano e che non è morto in maniera apparente. Le posizioni docetiche ci fanno orrore.

Noi non abbiamo solo il compito di pentirci di ciò che abbiamo fatto (a lui, alla natura umana e alla natura in generale), ma anche quello di ristabilire su questa Terra (e in qualunque parte dell’universo) il bene che abbiamo perduto passando dal comunismo primordiale allo schiavismo. Noi dobbiamo ripristinare integralmente le condizioni di vivibilità dell’essere umano e naturale. E in questo compito quello che lui ha fatto può tornarci utile, può essere preso come un modello da imitare, pur nella varietà delle forme e dei modi dovuti ai due millenni che ci separano.

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5) Gesù e i cristiani odierni

Non aveva ammazzato nessuno. Non aveva neppure rubato o mentito. Criticava i farisei perché applicavano la legge in maniera arbitraria. Detestava i sadducei perché nella gestione del Tempio erano molto corrotti. Ma non ambiva a una carica politica in parlamento. Chiedeva soltanto di liberare la Palestina dai Romani. Era disposto ad accettare i collaborazionisti pentiti, come fece con Matteo. Ce l’aveva coi suoi parenti solo perché gli impedivano di essere se stesso, ma non abbandonò mai sua madre.

Mostrava solo segni di umanità. Che bisogno avevate voi cristiani di farne un dio? Così avete svilito i suoi meriti. Per un dio infatti è facile comportarsi come gli pare.

Lui stesso aveva detto: “Se amate chi vi ama, che meriti avete? Anche i pagani lo fanno” (Mt 5,46). Ma oggi potremmo aggiungere: “Se amate Gesù solo perché è un dio, che meriti avete? Tutti i credenti amano degli dèi”. Abbiate dunque il coraggio di vederlo solo come uomo, perché se gli attribuite una natura divina, non riuscirete a perdonare chi l’ha ammazzato, a meno che non accettiate che tutto era stato previsto sin dall’inizio. Ma di questa tesi, che annichilisce il libero arbitrio, dovreste vergognarvi.

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B) La figura del Cristo

6.1) Sintesi della figura di Gesù

Due millenni fa esisteva una regione chiamata Palestina, che non sopportava la dominazione dei Romani, e di tanto in tanto la popolazione si ribellava. Solo i più ricchi non lo facevano. Sia i proprietari di grandi terre e quanti, non avendo le terre, volevano arricchirsi col denaro, sia i gestori del Tempio di Gerusalemme e i sovrani degli Stati vassalli di Roma preferivano scendere a compromessi coi dominatori, poiché li giudicavano troppo forti sul piano militare.

Purtroppo le rivolte venivano sempre represse nel sangue. Non c’era una strategia comune, che mettesse d’accordo tutti. Le questioni etniche o religiose tenevano divise le masse e i Romani ne approfittavano.

Un giorno venne fuori uno, di nome Gesù, che cominciò a predicare una insurrezione nazionale che superasse tutte le differenze etniche e religiose.

Senonché tutte le volte che si dichiarava ateo, per superare le rivalità religiose, i teologi più fanatici lo volevano lapidare (Gv 8,59; 10,31): passava per un bestemmiatore.6 Inoltre non riusciva a convincere i Giudei a non sentirsi superiori né ai Galilei né ai Samaritani. Non riusciva neppur a far capire che non si doveva costruire un regno come quello di Davide, ma una società giusta e libera, cioè una democrazia sociale non una monarchia teologica.

In molti erano contro di lui, ma nessuno riusciva a catturarlo, sia perché si nascondeva di continuo, sia perché quando si presentava in pubblico, molta gente lo seguiva e lo proteggeva. Ovviamente i Romani non volevano prenderlo a causa del suo ateismo, ma piuttosto perché voleva compiere una insurrezione contro di loro.

Quando, grazie a un tradimento, i teologi fanatici riuscirono a prenderlo, non ebbero il coraggio di lapidarlo, proprio perché lui era troppo famoso. Così preferirono consegnarlo ai Romani, il cui governatore, Pilato, era molto astuto. Infatti con vari trucchi riuscì a dimostrare che la morte di Gesù non era il potere romano a volerla, ma la stessa popolazione giudaica.

Tutto ciò però non servì a nulla. 30 anni dopo scoppiò una grande rivolta ebraica, che però, non accettando nessun insegnamento di Gesù, portò alla rovina completa della Palestina. Tanto che ci vollero altri 1900 anni prima che qualcuno potesse riproporre l’idea di uno Stato di Israele. E quando quell’idea venne finalmente realizzata, di nuovo scoppiarono infinite polemiche per questioni etniche e religiose.

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6.2) Lo scopo dei vangeli

Che i vangeli presuppongano la fede è assodato da un pezzo. Non sono stati scritti per convincere il lettore ad acquisire qualcosa che non ha, ma per confermargli ciò che già possiede. Cioè è come se invitassero a credere che se p.es. Gesù, nel racconto della tempesta sedata, placa le acque del lago di Tiberiade, o se in un altro racconto ci cammina sopra, dopo aver moltiplicato pani e pesci, allora vuol dire che alla fine della sua vita, chiuso nel sepolcro, poteva anche risorgere.

Praticamente gli autori dei vangeli invitano a leggerli come se esistesse una sequenza cronologica di eventi miracolosi sempre più straordinari. I protagonisti coevi a Gesù dovevano solo abituarsi a credere che quando si ha fede, nulla è impossibile. E questo messaggio deve valere anche per i fedeli che sono venuti dopo, tanto più che loro già sanno che lui è “risorto”.

In realtà i vangeli non sono stati scritti sulla base di eventi prodigiosi realmente accaduti, ma sulla base di eventi che si vuol far passare come plausibili, anzi, naturali, una volta accettato quello più straordinario di tutti, assolutamente impossibile per l’essere umano: risorgere col corpo dopo essere chiaramente morto.

Gli evangelisti sono partiti dalla constatazione della tomba vuota e ci hanno costruito sopra tutti i racconti fantastici che sappiamo. E il lettore non si meraviglia di ciò, appunto perché fa lo stesso ragionamento: uno che risorge potrebbe essere in grado di compiere, da vivo, qualunque prodigio.

Ora, qual è il problema principale di questa impostazione immaginifica delle cose? È quello di suscitare degli atteggiamenti antisemitici. Cioè alla fine della lettura dei vangeli uno inevitabilmente si chiede come abbiano potuto gli ebrei non credere a un uomo che, per quello che faceva, andava considerato sovrumano. È evidente quindi che gli ebrei sono un popolo “maledetto”: questa la conclusione che il lettore trae. E il fatto che abbiano crocifisso il Figlio di Dio lo dimostra. Era inevitabile che gli ebrei lo facessero, proprio perché si rifiutavano di ammettere l’evidenza.

Il secondo effetto negativo è correlato a questo. I vangeli abituano i credenti a pensare che con un intervento divino ogni problema possa essere risolto. Di conseguenza quando i gravi problemi non vengono risolti, è facile che venga fuori qualcuno pronto a dire che gli uomini sono troppo peccatori, non hanno abbastanza fede, non vogliono pentirsi sinceramente di tutto il male compiuto. Cioè nel mentre si alimenta la fiducia negli atti spettacolari del Cristo, si chiede anche al credente di attendere con pazienza che qualcuno, dall’alto, gli risolva tutti i problemi nei cui confronti egli si sente impotente.

Alla fine si resta intrappolati in una dimensione favolistica in cui l’autoreferenzialità (anche linguistica) è la regola. E questo è un meccanismo che si ritrova anche in chi dice di non avere una fede religiosa, ma si limita a credere in un’entità esterna alla sua sfera d’influenza, come può essere p.es. uno Stato, un partito, un leader politico o un dittatore militare.

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6.2.1) Vangelo e presupposto della fede

I vangeli non raccontano la verità dei fatti ma fanno sognare a occhi aperti. Si rivolgono a lettori che hanno già la fede e che sono disposti ad accettare qualunque prodigio, qualunque scelta di vita da parte di una persona che ritengono di origine divina, quindi necessariamente buona. Sono stati scritti per un pubblico che non viveva più nella Palestina e che quindi era a contatto con ambienti pagani o che addirittura proveniva da questi stessi ambienti, dove i miti e le leggende facevano parte delle tradizioni popolari. Il che però non vuole affatto dire che non vi sia un sostrato di verità storica, artificialmente manipolato da redattori preoccupati di trasformare il Cristo politico in un Cristo teologico. Se si sostiene che nei vangeli è tutto inventato, non se ne capisce per niente il lato mistificatorio.

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6.2.2) Il revisionismo politico dei vangeli

I vangeli sono stati scritti quando era venuta meno la speranza di liberare la Palestina dai Romani. Quindi sono testi politicamente revisionisti, finalizzati a un compromesso con la potenza romana, anche se appaiono eversivi, in quanto rifiutano qualunque culto pagano e soprattutto il riconoscimento del carattere divino agli imperatori (il che non vuol dire che il cristianesimo primitivo non sia infarcito di paganesimo). I vangeli predicano la separazione di Chiesa e Stato, cosa inconcepibile per i Romani, che consideravano la religione uno strumento del potere politico. La rinuncia a tale separazione, da parte della Chiesa, avverrà soltanto quando lo stesso cristianesimo diverrà religione di stato.

Qualunque discorso storicistico sull’esistenza o inesistenza di Cristo è stucchevole, in quanto il N.T. va interpretato in chiave esclusivamente etico-politica. Ed è in questa chiave che il cristianesimo va superato.

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6.2.3) Gli unici due vangeli che contano qualcosa

Quali sono gli unici due vangeli che contano qualcosa? Marco e Giovanni.7 La versione originaria del IV vangelo era stata scritta contro il protovangelo. Poi, per inserirla nel canone o nella teologia paolina, han dovuto manometterla profondamente. Tutti gli altri vangeli, canonici e apocrifi, non valgono nulla o quasi.

Ora per parlare del Cristo politico quale vangelo fino ad oggi si è utilizzato? Il primo, perché il IV appariva troppo teologico. Ma dal primo cosa si capisce? Che Gesù era sì un politico, ma solo contro i sadducei, i sommi sacerdoti, il Tempio.

Reinterpretando Marco si è arrivati a dire che in realtà Gesù doveva essere anche contro i Romani, poiché quel vangelo è stato scritto per cercare un compromesso politico tra cristianesimo e politica imperiale.

Qui finisce la migliore esegesi critica del ’900. Infatti quando si è voluto smontare il valore teologico del IV vangelo cosa si è detto? Ch’era un testo gnostico. Questa la tesi di Bultmann. Invece quello è un testo politico. Lo gnosticismo semmai è stato usato per mistificarlo. Ed è un testo che molto meglio di Marco fa capire che Gesù era anzitutto un antiromano e che, per compiere l’insurrezione nazionale, cercava ampi consensi tra varie popolazioni ebraiche: anzitutto galilaiche, giudaiche e samaritane (ma, stando ai Sinottici, aveva frequentato anche la Decapoli e la Fenicia). Nel IV vangelo si parla anche di persone di origine greca che vogliono parlare con lui dopo l’ingresso messianico (forse provenivano dall’Egitto).8

Da che cosa si capisce che questo vangelo, almeno nella sua versione originaria, doveva essere antiromano, oltre che contrario ai sadducei collaborazionisti? Da vari aspetti: ingresso armato a Gerusalemme; accoglienza di Gesù come messia liberatore dal nemico invasore della Palestina; presenza della coorte romana nel Getsemani; trattamento disumano riservato a Gesù dai soldati romani, che avevano temuto l’occupazione della fortezza Antonia; processo-farsa durato un’intera mattinata in quanto Pilato temeva una sommossa popolare; iscrizione politica del titolo della croce; modalità dell’esecuzione capitale, specifica per i sediziosi; l’immagine della Sindone con tutte quelle torture conferma l’alta pericolosità politica del messia e l’intenzione di Pilato di volerlo morto a tutti i costi.

*

Tutti gli esegeti (p.es. Christian Hermann Weisse, Christian Gottlob Wilke, Heinrich Julius Holtzmann, Johannes Weiss) che han dato rilevanza al vangelo di Marco, considerandolo il più antico, o comunque una fonte imprescindibile di Matteo e Luca, e che hanno definito il IV vangelo come troppo teologico, squalificandone del tutto la storicità, non si sono resi conto che Marco costituisce la principale mistificazione di tutti i vangeli (canonici e apocrifi), escluso proprio il IV vangelo. Quest’ultimo infatti è stato sì manipolato (in un ambiente monastico9) conformemente alla teologia paolina divenuta dominante, ma ha conservato alcuni elementi che lo pongono in alternativa al protovangelo, al punto che è proprio grazie a Giovanni che si può dedurre un’effettiva politicità antiromana e antigiudaica del Cristo; anzi, è solo in virtù del IV vangelo che si può porre una stretta identificazione del Cristo storico con quello sindonico. In tal senso non è dalla teologia liberale (fondamentalmente borghese e sostanzialmente su posizioni più arretrate di quelle di Reimarus) che possiamo ricavare una rappresentazione politica del Cristo, quanto semmai è dalla teologia sudamericana della liberazione, che però, per essere davvero convincente, deve liberarsi dei suoi presupposti religiosi.

In ogni caso quanto dissero Christian Hermann Weisse (1801-66) e Christian Gottlob Wilke (1786-1854), secondo cui i vangeli contenevano espressioni di verità, poiché avevano come base di partenza testi molto antichi, come il vangelo marciano e i loghia (“detti di Gesù” o fonte Q), che sarebbero serviti da riferimento per i vangeli, era una tesi molto ingenua. Certo, alla Chiesa fa comodo datare le sue fonti il più vicino possibile alla morte di Gesù. Ma questo non significa affatto che la mistificazione teologica sia iniziata molto tempo dopo. Al tempo del IV vangelo essa si era semplicemente raffinata, ma le sue basi era già state poste al momento in cui Pietro interpretò come “resurrezione” la tomba vuota.

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6.3) L'antisemitismo come ideologia evangelica

Supponiamo che io sia un giudeo e che abbia una natura divina in via esclusiva, che voi non avete, e che mi permette di compiere qualunque prodigio e guarigione.

Il mio compito però non è quello di fare miracoli, ma quello di dirvi che nei cieli esiste un Dio che vi ama e che, nonostante tutti i vostri peccati, non ha intenzione di abbandonarvi. Se faccio qualche miracolo è solo per dimostrarvi, a titolo esemplificativo, che sto dicendo la verità. In realtà la prova più convincente ve la darò quando sarò morto, perché mi vedrete risorgere. Cosa che nessuno ha mai potuto fare.

Voi però, pur vedendo tutti i miei prodigi, non credete alle mie buone intenzioni e pensate che io sia un impostore. Dite che non compio guarigioni in nome di Dio ma in nome del demonio.

Allora io vi rispondo che se non credete nella mia natura divina, cercate almeno di credere nel valore umano delle opere che compio. Le opere principali sono quelle che riguardano l’amore reciproco e l’uguaglianza sociale e di genere, l’assistenza ai malati e ai bisognosi. Naturalmente non posso esimermi dal criticare l’idea di sentirsi virtuosi limitandosi a rispettare il precetto del sabato, i digiuni, le abluzioni, le offerte al Tempio. Anzi vi dico subito che non faccio differenza tra cibi moralmente puri e impuri, perché le cose davvero impure escono dal cuore, non entrano in bocca. Quanto al Tempio, non credo che il culto a Dio debba essere legato a un luogo particolare. E in genere mi sembra da superare la pretesa di sentirsi a posto con la coscienza solo per aver rispettato tutti i princìpi della legge, ma anche l’idea di sentirsi, solo perché ebrei, migliori di tutti gli altri popoli. E poi non mi sento di considerare i legami parentali più importanti di quelli comunitari tra persone che credono in determinati stili di vita o ideali morali.

Voi mi rispondete che tutto questo in teoria potrebbe anche andar bene, ma non potete rinunciare alle vostre tradizioni, perché sono queste che vi rendono forti e diversi da tutti gli altri popoli. Sicché alla fine decidete lo stesso di condannarmi a morte e, siccome non riuscite a eseguire la sentenza a causa della mia grande popolarità, mi consegnate all’occupante straniero della nostra nazione.

Ora perché se qualcuno leggesse una tale ricostruzione dei fatti, potrebbe arrivare a dire che, oltre che fantasiosa, gli parrebbe anche antisemitica?

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6.3.1) L'antisemitismo negli apocrifi

Che i vangeli siano antisemitici è dimostrato anche da quello di Pietro, teologicamente docetista, ritrovato nella tomba di un monaco nel 1884, presso la città di Akhmim nell’Alto Egitto. Il documento, risalente al VII-VIII sec., conteneva, oltre al suddetto vangelo, un frammento dell’Apocalisse di Pietro, due passi del Primo libro di Enoch, e un testo frammentario degli Atti di San Giuliano. Tutti testi apocrifi.

In questo vangelo non sono i Romani responsabili della morte di Gesù, ma gli ebrei. La cosa strana è che anche nei canonici è così. Dunque dove sta la differenza? Sta nel fatto che mentre nei canonici l’antisemitismo è implicito, in questo vangelo, che è del II sec., diventa esplicito.

Anche gli Atti di Pilato sottolineano la colpevolezza degli ebrei nella morte di Gesù. D’altra parte più viene scusato Pilato e più sono accusati gli ebrei. Lo stesso Tertulliano nell’Apologetico riporta una leggenda secondo cui Pilato avrebbe inviato una lettera a Tiberio imperatore dopo la morte di Gesù, convincendolo che Gesù era un dio e proponendo una statua da collocare nel Pantheon romano (proposta che fu accolta dall’imperatore ma non dal senato).

Vi è poi una leggenda medievale chiamata Resa di Pilato, in cui l’imperatore chiamò Pilato a Roma e lo fece processare e condannare a morte. Questo perché era divenuto un cristiano fervente e accusava gli ebrei della morte del Cristo. Prima di mettere la testa sul ceppo, Pilato, che prega Cristo di non ritenerlo responsabile della congiura degli ebrei ai suoi danni, sente una voce dal cielo che gli dice: “Tutte le generazioni e le famiglie dei gentili ti chiameranno benedetto (…) e tu stesso apparirai come mio testimone alla mia seconda venuta”.10

Nella Chiesa copta egiziana la morte di Pilato fu ricordata come quella di un martire cristiano e alla fine Pilato fu venerato come santo.

A queste assurdità si arriva in nome dell’antisemitismo.

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6.3.2) L'antisemitismo nella teologia petro-paolina

C’è sempre qualcuno che se la prende quando dico che i vangeli sono testi antisemitici. I cristiani ci tengono a far vedere che il Nuovo Testamento si pone in continuità con l’Antico. In realtà sognano, poiché nessun esegeta ebraico direbbe mai una cosa del genere.

Mi fanno la predica dicendomi che non esiste una storia “sionista” o “antisemita”, in quanto i documenti storici non sono mai univoci o oggettivi, ma sempre soggetti a interpretazioni. E che vanno comparati con varie fonti.

In realtà io non metto affatto in dubbio queste cose. Dico soltanto che l’impostazione generale dei vangeli (a prescindere dai singoli episodi) è nettamente antiebraica, anche perché tende a scagionare Pilato dalla decisione di voler la morte del Cristo.

La loro ricostruzione dei fatti non rispecchia affatto ciò che effettivamente accadde all’epoca. Vuole invece rispecchiare che proprio in questa ricostruzione (che dovremmo considerare ipotetica) vi è presente un elemento di antisemitismo non ammesso dai teologi.

E secondo me non sono antisemitici solo i testi di provenienza paolina, ma anche quelli provenienti dalla teologia petrina e quelli che hanno determinato la pesante manipolazione spiritualistica del IV vangelo. Per es. nella teologia petrina, che è antecedente a quella paolina, è molto forte l’antisemitismo nella pericope in cui si parla della riunione (mai fatta) del Sinedrio (Mc 14,53ss.), in cui l’unico testimone, tra gli apostoli, è Pietro (non a caso), il quale addebita all’intero parlamento la causa della morte di Gesù, scagionando in ultima istanza i Romani.11 Inoltre nella pericope marciana della resurrezione viene detto che Gesù li avrebbe aspettati in Galilea non in Giudea (14,28).

Di Pietro ritengo sufficientemente attendibile l’influenza che ha avuto su Marco nella stesura delle parti essenziali del protovangelo; poi i discorsi inaugurali degli Atti e la prima sua lettera.

L’idea d’interpretare la tomba vuota come resurrezione è sua. E sua è l’idea assurda di morte necessaria del Cristo, voluta dalla prescienza divina per mostrare l’impotenza umana a liberarsi da sola dei propri conflitti sociali. Sua è anche l’idea di imminente parusia trionfale del Cristo.

Paolo si è adeguato fino al punto in cui, vedendo la mancata parusia, l’ha spostata alla fine dei tempi, previa la divinizzazione del Cristo (unigenito figlio di Dio) e la rinuncia a liberare la Palestina dai Romani. Di qui la rottura con Pietro ad Antiochia, salvo riconciliarsi con lui a Roma. Ma sarà Pietro ad adeguarsi in toto alla teologia paolina, come mostra la prima lettera.

Certo è che quando han redatto il N.T. la teologia paolina risultava prevalente, per cui sembra che non vi sia molta differenza tra Pietro e Paolo.

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6.4) Miracoli presunti, anzi inventati

Quale credente sarebbe disposto ad accettare che nell’arco della sua vita Gesù non ha mai fatto vedere che poteva avere una natura sovrumana? Cioè che se si fosse comportato come un essere superiore avrebbe immediatamente violato la libertà di coscienza dei suoi interlocutori (discepoli o avversari che fossero), obbligandoli a credere nell’evidenza e sentendosi in diritto di condannarli se non l’avessero fatto? Per tutti i credenti Gesù si comportava come un “superman” perché di fatto lo era, e quindi era legittimato a comportarsi così. Era dovere dell’interlocutore credergli.

Gli evangelisti non ebbero soltanto la presunzione di dire che, siccome Gesù aveva compiuto qualcosa di straordinario da morto, allora bisognava credere che avesse fatto e detto cose non meno straordinarie anche da vivo; non ebbero solo la preoccupazione di dimostrare alle autorità romane che i cristiani non andavano considerati politicamente pericolosi come gli ebrei nella guerra giudaica del 70, ma ebbero anche la pretesa di celare agli stessi cristiani la pusillanimità che avevano dimostrato nel non voler proseguire il messaggio di liberazione politico-nazionale del Cristo. Stando a quel che raccontano i vangeli, è impossibile non pensare che i redattori non abbiano abusato della credulità popolare. Ma, quel che è più grave, è che nel cristianesimo primitivo è mancata una qualunque forma di autocritica. Al massimo si è propagandata l’idea che ci si deve sentire dei poveri peccatori, bisognosi di continua assistenza divina, cioè si è trasformato lo stoicismo laico dei Romani in uno stoicismo religioso, sostituendo la parola “destino” con la parola “Dio”.

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Lo stratagemma redazionale dei miracoli è stato usato per mistificare eventi dal chiaro contenuto politico eversivo, oppure sono serviti per mistificare un semplice contenuto umano, privo di religiosità. Offrire guarigioni straordinarie a titolo gratuito, sfamare con pani e pesci ben 5.000 persone, o addirittura riportare in vita una persona importante come Lazzaro, già morta e sepolta, doveva essere considerato da parte degli evangelisti come una prova sufficiente per credere nella divinità del Cristo, e quindi nella sua rappresentazione edulcorata, ligia ai poteri costituiti, salvo il diritto di esigere un regime di separazione tra Stato e Chiesa.

Oggi avremmo classificato queste pericopi come delle fake news avente valore propagandistico. Quella volta, non avendo ancora sperimentato gli effetti di una rivoluzione tecno-scientifica, che inevitabilmente rende più disincantati sul piano religioso, gli intellettuali potevano manipolare l’utenza con espedienti che noi oggi consideriamo ridicoli. Il che non vuol dire che oggi, usando mezzi diversi, non si possa fare la stessa cosa.

Naturalmente si può supporre, con un buon margine di sicurezza, che quanto più i prodigi appaiono spettacolari, tanto più importanti dovevano essere gli eventi politici o semplicemente umani da falsificare. Si è trasformato il Cristo umano e politico in un Cristo taumaturgico e onnipotente, in grado di obbligare persino la natura a obbedire alla sua volontà, come nella pericope della tempesta sedata.

Se il Cristo non avesse avuto pretese politiche di grado elevato, cioè se fosse stato soltanto un rabbino o un profeta itinerante, i redattori non avrebbero avuto bisogno d’inventarsi cose così inverosimili (il che fa pensare che la decisione sia stata presa in forma collegiale). Il Battista, p.es., non viene presentato come operatore di prodigi, benché venisse considerato come l’ultimo grande profeta.

Probabilmente le grandi aspettative riposte nella missione politica del Cristo, rivelatasi del tutto fallimentare, li aveva destabilizzati, li aveva indotti a superare le proprie frustrazioni ricorrendo a racconti leggendari, simili a quelli dei miti pagani, in cui la magia la faceva da padrona. È possibile che i redattori si siano chiesti il motivo per cui, visto che i pagani credevano in queste favole, non lo potessero fare anche i cristiani. Ecco, in tal senso si può dire che gli evangelisti (dietro i quali si cela sempre un collettivo) risentivano pesantemente dell’influenza della cultura ellenistica.

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6.4.1) Un segno dal cielo

La questione del “segno dal cielo” (Mc 8,11-13) richiesto dai farisei a Gesù come condizione per credere nel suo messaggio di liberazione, fa venire in mente quanti, nei forum dedicati al cristianesimo primitivo, chiedono a qualcuno che scrive un post controverso, non in linea con le tesi ufficiali, di esibire le sue credenziali, i titoli di studio, le fonti utilizzate ecc.

L’idea di politica che avevano i farisei, di ieri e di oggi, è sempre la stessa: solo pochi sono veramente in grado di esercitarla, oppure, se preferite, solo pochi sono autorizzati a dire cose sensate sui vangeli.

Anche durante la cacciata dei mercanti dal Tempio avevano chiesto a Gesù a che titolo, con quale permesso facesse quelle cose (Mc 11,27 ss.). E lui aveva risposto che per compierle non c’era bisogno di alcuna particolare autorizzazione: era l’evidenza (della corruzione) che lo esigeva. Ed era una corruzione che riguardava più i sadducei che i mercanti, perché le licenze commerciali le concedevano i gestori del Tempio.

Analoghe domande i farisei ponevano a Gesù quando trasgrediva il sabato in nome di una grave esigenza da soddisfare: assistere i malati. Chiedevano un “segno” proprio mentre negavano l’“evidenza”.

Per tutta risposta Gesù rifiuta sempre di dimostrare con un “segno” straordinario d’essere autorizzato ad aspirare alla leadership d’Israele contro Roma. Non vuole far valere alcun carisma particolare, non vuol imporsi in modo autoritario, non vuol dimostrare militarmente d’essere più forte di qualsivoglia legione romana. Chi chiede un “segno” di tipo “miracoloso”, eccezionale, inevitabilmente finisce col promuovere il culto della personalità.

Egli si rifiutava di concedere “segni inequivocabili” di alcun genere (che in pratica non possono essere offerti da nessuno), anche perché, in caso contrario, avrebbe immediatamente violato la libertà di scelta dell’uomo.

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6.5) Perché un Cristo ideologicamente ateo?

Anzitutto vediamo come veniva inteso l’ateismo dalla teologia ebraica.

L’equiparazione di Gesù con Dio, presente nei vangeli, viene considerata dai Giudei una forma di ateismo. Invece i cristiani la considerano come la sua forma più alta di teismo. Dove sta la mistificazione in quelle fonti? Sta nel fatto che i redattori, presentando un Cristo dai poteri sovrannaturali, condannano senza riserve l’incredulità dei Giudei, quando in realtà un Cristo del genere avrebbe violato la libertà di coscienza dei propri interlocutori, per cui la decisione di condannarlo sarebbe stata giustificata.

Inoltre i redattori sostengono che Cristo affermava il proprio teismo in via esclusiva, quando invece nella realtà egli sosteneva la divinità di ogni uomo, conformemente alla sua visione ateistica delle cose. Condannare senza mezzi termini i Giudei solo perché non credevano nella divinità del Cristo è stata un’operazione indegna dei redattori dei vangeli (condizionati dal loro antisemitismo), i quali avrebbero dovuto invece fare autocritica per non aver saputo realizzare il suo progetto insurrezionale.

L’impero romano ha vinto la Giudea perché l’idea di costruire una società libera e giusta basandosi su una certa idea di Dio non funziona. Intorno a questa idea ci si scanna tra opposte fazioni. Non si doveva perdere tempo sulle questioni religiose quando il vero problema era che chi le monopolizzava (l’aristocrazia sacerdotale del Tempio) costituiva il principale puntello per l’invasore straniero. I sadducei andavano preliminarmente estromessi dal Tempio e privati di qualunque potere politico.

I Romani si limitavano a usare la religione come strumento di potere, ma si basavano su altre cose per stare uniti: forza militare con cui estorcere i tributi ai popoli sottomessi (oppure imporsi in una guerra civile interna quando la politica lo esigeva, come p.es. nel caso di Mario e Silla o di Cesare e Pompeo); poi diplomazia e diritto nei momenti di pace, oltre naturalmente alle tante opere architettoniche che dovevano magnificare il loro splendore. Avevano fondato una civiltà schiavistica che avrebbe potuto essere vinta soltanto grazie a una democrazia fondamentalmente laica e politicamente filosocialista.12

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Spendiamo due parole sui sadducei, visto che sono stati citati.

Questo partito politico-religioso, di estrazione sociale aristocratica, nasce verso il 130 a.C. grazie a Giovanni Ircano I, sacerdote ebreo della famiglia degli Asmonei, etnarca dei Giudei e sommo sacerdote dal 134 a.C. alla sua morte. Da questo gruppo di potere, poco numeroso, veniva sempre scelto il sommo sacerdote.

Si richiamavano al sacerdote Sadoc o Zadoc (fedele a Davide e a Salomone), ma di lui non avevano niente, poiché cercavano sempre un compromesso coi poteri costituiti, anche non strettamente ebraici, come p.es. quello erodiano o quello romano. Sadoc invece detestava il paganesimo. I suoi successori o eredi spirituali erano in realtà gli esseni. Quindi, ai tempi di Gesù, il più titolato a diventare sommo sacerdote era in realtà Giovanni Battista.

Odiati da tutti (esseni, farisei, zeloti, sicarii, Idumei, Galilei, Samaritani, e naturalmente anche dai nazareni e dai cristiani), i sadducei furono sterminati nella prima guerra giudaica (66-70). I sopravvissuti si lasciarono assimilare nella società romano-ellenica oppure si convertirono al cristianesimo. Non parteciparono alla ricostruzione dell’ebraismo voluta dai farisei ortodossi.

Sostanzialmente erano atei, poiché non credevano nella resurrezione dei morti, nell’immortalità dell’anima, nell’esistenza degli angeli e degli spiriti, e neppure in alcuna retribuzione di premi o punizioni nel regno dei morti (sheol). Consideravano valide solo le norme della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), per cui rifiutavano la tradizione orale dei farisei e gli scritti profetici. E ovviamente non accettavano l’esigenza di un messia liberatore. Secondo Giuseppe Flavio negavano anche l’esistenza del destino e la prescienza divina, limitandosi a credere nel libero arbitrio.

Sul piano pratico, oltre a espletare tutti i riti connessi al Tempio di Gerusalemme, avevano anche alcuni ruoli politici e sovrintendevano a numerosi affari di stato: per es. gestivano l’esercito, il loro sommo sacerdote aveva l’ultima parola nel Sinedrio e rappresentavano lo Stato nelle questioni internazionali. Erano incaricati della riscossione delle tasse e mediavano nelle controversie familiari. Nell’esercizio della giustizia e nella prassi del culto, negli ultimi tempi dello Stato giudaico, dovettero sempre più uniformarsi all’insegnamento delle scuole farisaiche, altrimenti non sarebbero stati tollerati dal popolo.

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6.5.1) Divinoumanità in via esclusiva?

Vediamo ora cosa significa identificarsi con la divinità in via esclusiva.

“Chi vede me vede il Padre” (Gv 12,45), è un’affermazione ateistica o religiosa?

I credenti, ovviamente, l’hanno interpretata in chiave religiosa, in un senso favorevole alla figliolanza divina in via esclusiva di Gesù. Solo lui era autorizzato (in virtù della resurrezione) a fare un’affermazione del genere. Pertanto bisogna credergli sulla parola.

Cioè il credente ha fede in un’affermazione teologica perché ha già fede in un’interpretazione mistica della tomba vuota, quella petrina, la quale non si è limitata a costatare la scomparsa di un cadavere, ma ha preteso di dire, senza averlo rivisto vivo, che il corpo era risorto. A questa interpretazione Paolo aggiungerà una spiegazione ulteriore del fatto: Gesù è risorto perché Figlio di Dio in via esclusiva, come solo lui poteva esserlo, in quanto ha potuto vincere la morte.

Ma immaginiamo se davvero Gesù possa aver detto quella frase del IV vangelo mentre era ancora in vita. Come l’avrebbero interpretata i discepoli? Se erano credenti in Jahvè, avrebbero pensato che Gesù stesse bestemmiando, in quanto nessuno nel mondo ebraico si sarebbe mai potuto permettere di identificarsi in maniera così stretta e unilaterale con la divinità.

Sarebbe apparso, oltre che empio, un esaltato, un folle, sicuramente uno da emarginare, da espellere da qualunque luogo di culto, anzi meritevole di morte, senza neanche imbastire un processo. Un qualunque ebreo l’avrebbe considerato un ateo presuntuoso.

Supponiamo invece che quella frase l’avesse detta davanti a un pubblico di atei. Cosa avrebbero pensato? Se Gesù si fosse equiparato a Dio in via esclusiva, negando ai discepoli di poter fare altrettanto, l’avrebbero molto probabilmente giudicato un imbonitore, uno di quei santoni che vuole ingannare la gente semplice. Chi gli avesse creduto sulla parola, sarebbe stato abbacinato da un culto della personalità. Dio non esiste, ma un uomo particolare, speciale agli occhi del popolo, può sostituirlo in tutto e per tutto. I grandi dittatori della storia, ma anche i papi (infallibili, vicari di Cristo ecc.) rientrano in questa categoria di esaltati (atei o credenti che siano non fa molta differenza).

Supponiamo invece che Gesù volesse dire che non esiste alcun dio ma solo l’uomo, e che ogni uomo, volendo, è una sorta di dio di se stesso. In tal caso avrebbe fatto un’affermazione ateistica sensata, umanamente accettabile, razionalmente condivisibile, o sarebbe comunque apparso un presuntuoso, un arrogante insopportabile? La risposta per un ateo è facile.

Ecco quindi perché i vangeli sono una mistificazione: un’affermazione verosimile è stata inserita in un contesto fuorviante, che l’ha resa del tutto falsa. I vangeli sono un esempio eclatante di come si costruiscono fake news.

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6.5.2) Reinterpretare il Prologo

E ora vediamo, alla luce di quanto detto, come reinterpretare il Prologo del IV vangelo.

Quando nel Prologo si dice che in principio è il Logos, dov’è Dio? Se ogni cosa è stata fatta dal Logos o per suo mezzo, quando nel Genesi si dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine”, l’autore era lo stesso Logos? Ma allora dov’è Dio? Gesù era ateo?

Proviamo a togliere Dio, e a considerare l’avverbio “presso” non riferito a una vicinanza fisica ma a una caratteristica naturale. Gesù è dio e uomo nello stesso tempo, il lato maschile di un’entità divisa per genere, poiché in principio non può esserci l’uno bensì il due. Che ci cambia se abbiamo la possibilità di sentirci divino-umani come lui? Lui lo è di natura, noi per partecipazione (direbbero i tomisti), ma come essenza umana universale siamo entrambi eterni e nessuno può violare la nostra libertà di coscienza o indurci a fare cose che non vorremmo.

Lui era la Parola, la Vita, la Luce, la Verità, la Grazia? Ma lo siamo anche noi! Altrimenti se solo lui è tutto questo, noi chi siamo? Poveri peccatori incapaci di fare alcunché? È questa la dignità dell’essere umano che voleva insegnarci? Dobbiamo stare sottomessi perché il peccato originale si è trasmesso per via ereditaria, genetica, e c’impedisce di compiere qualunque vero bene?

C’è un passo nel IV vangelo, dove Filippo chiede a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta” (14,8). E lui gli risponde: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (v. 9). Ci rendiamo conto che se tutti noi non avessimo la possibilità di sentirci delle divinità, potremmo anche pensare che Cristo era una specie di mitomane? Anche David Koresh, con la sua setta di fanatici, si riteneva “inviato da Dio”.

Gli autori del Prologo (è accertato che sono più di uno) non si rendono conto che se le loro parole vengono portate alle conseguenze più logiche, si arriva a pensare che tra Dio e Gesù non vi sia alcuna differenza, nel senso che potrebbe anche non esistere alcun Dio diverso da Gesù, che però era un uomo. Infatti se tutto è stato fatto da lui o per mezzo di lui, al genere umano dovrebbe interessare poco sapere se esiste o no un’altra divinità ancora.

Il Prologo, in fondo, potrebbe essere considerato un inno a Cristo, non a Dio. Non esordisce dicendo: “In principio era Dio, e presso Dio era il Logos, e il Logos era Dio”. Partendo direttamente dal Logos, pone Dio in subordine o addirittura lo nega. Il fatto che nessuna cosa sia stata fatta senza la volontà del Logos, indica che la presenza di un’entità diversa dal Logos, il cosiddetto “Dio-padre”, è del tutto irrilevante, o comunque lo è la credenza nella sua esistenza.

Si potrebbe cioè pensare che ciò che gli ebrei ritenevano Dio onnipotente e onnisciente, in realtà non sia che un uomo-dio, che ha partorito, insieme a un’entità femminile, l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. Quindi non esiste alcun Dio diverso da Gesù Cristo, e le sue creature sono divine come lui. “Presso Dio” non vuol dire “vicino a un’entità diversa da sé” (come il catechismo insegna), ma vuol dire che la propria natura è “divina”, è prossima alla divinità, quindi eterna, infinita, esattamente come la materia, esattamente come noi.

Ecco spiegato il senso del dialogo nel IV vangelo, quando i Giudei dicono a Gesù: “Non ti lapidiamo per le tue opere buone ma perché ti fai come Dio”. E lui risponde in Gv 10,35: “Perché mi lapidate quando vi dico che siete tutti dèi?”. Stava appunto facendo professione di ateismo! Stava dicendo che non si sentiva una divinità in senso esclusivo. Tutti gli uomini hanno una natura divina. La differenza può stare nel fatto che lui per noi è un archè, mentre noi siamo un prodotto derivato. Ma resta il fatto che abbiamo una coscienza inviolabile e che nessuno può leggerci i pensieri o condizionare la nostra volontà. Altrimenti saremmo solo dei burattini. Ma questo ateismo per gli ebrei ortodossi era insopportabile: neanche i cristiani l’accettarono.

In fondo se nessuno può vedere Dio e vivere, allora che esista o no, non fa molta differenza. Nel racconto del Genesi viene però detto che Dio passeggiava nell’Eden insieme ad Adamo ed Eva, quindi potevano vederlo. Quindi era umano. Niente di speciale.

Quando il Prologo dice che nessuno ha mai visto Dio è come se dicesse che tutto quello che è stato detto di Dio è falso. Con una semplice affermazione l’autore ha mandato a rotoli tutte le epifanie e teofanie di Jahvè nell’A.T. Mosè che si copre il volto perché ha visto Dio diventa ridicolo. Può essere giusto accettato in forma allegorica. Alla fine siamo costretti a dire che di ciò di cui non si può parlare, sarebbe meglio tacere – parafrasando Wittgenstein. Se a interfacciarsi coi nostri progenitori c’era solo Gesù Cristo (ma doveva esserci anche un’entità femminile, se no saremmo misogini), allora si potrebbe dire che il cristianesimo, seppur nell’ambito limitato del proprio misticismo, ha capito che Dio in realtà è irrilevante per l’uomo, essendo Gesù l’unico cui ha senso rivolgersi, anche perché tutto il creato è opera sua, e se esiste un Dio onnipotente e onnisciente è affar suo non nostro.

Peraltro, se Dio nessuno l’ha mai visto, come mai l’autore del Prologo ha avuto il bisogno di precisarlo? La frase è evidentemente antigiudaica (oltre che antipagana), benché il giudaismo, agli occhi dei pagani, fosse già una forma di ateismo, dovuto alla irrappresentabilità di Dio. Nell’A.T. sono tanti i racconti in cui Dio sembra essere un’entità che parla a tu per tu coi vari protagonisti: Abramo, Sara, Mosè, Giobbe, Giona… Dire, al di là di ogni dubbio, che nessuno l’ha mai visto, è come dire che tutto quanto è stato detto di Dio va rivisto, poiché l’unico che poteva parlarne è Gesù Cristo.

Ora però dovremmo fare un passo avanti e dire che tutto quanto ha detto lo stesso cristianesimo va ripensato, poiché qualunque essere umano è una divinità, non soltanto uno in particolare.

Praticamente nel cristianesimo uno solo diventa titolato a parlare di Dio, uno che però ha creato il genere umano, che quindi per forza di cose partecipa in qualche maniera a questa natura divina. Vogliamo considerare Gesù l’unico vero Dio presente nell’universo? Egli però aveva tutte le caratteristiche dell’essere umano: dunque anche noi siamo dèi. C’è differenza tra la sua divinità e la nostra? Se c’è non c’interessa, poiché se siamo divini siamo eterni, e se siamo eterni non siamo mai nati. Noi, come essenza umana universale, esistiamo da sempre.

Le tenebre non l’hanno accolto? Siamo liberi di scegliere, proprio perché umani. Gli animali non scelgono. Abbiamo fatto una scelta sbagliata? Ne abbiamo pagato le conseguenze, e continueremo a pagarle se non faremo la scelta giusta. Ma la scelta giusta non sarà quella di credere in lui come “Figlio di Dio”; sarà piuttosto quella di credere in lui come “figlio dell’uomo” (il titolo che lui si è scelto), che sarà come credere in noi stessi, in quello che dovremmo essere. Quindi lui in realtà ci ha fatto soltanto conoscere come l’uomo dovrebbe essere.

Nell’universo vi è un’essenza umana di cui l’essere umano del nostro pianeta è solo un tipo di configurazione. D’altra parte anche il feto nel ventre della madre non coincide esattamente con ciò ch’esso diventerà una volta uscito. L’essenza umana è superiore all’essere umano, poiché in essa possiamo riconoscerci a prescindere dalle forme che assume.

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6.6) La questione del tributo

La questione del tributo non è secondaria nella storia della Palestina di 2000 anni fa. Una cosa era pagarlo alla classe sacerdotale che gestiva il Tempio di Gerusalemme, che, per quanto corrotta, rappresentava per gli ebrei di tutto il mondo un punto di riferimento imprescindibile.13 Chi mai, tra gli ebrei, avrebbe avuto il coraggio di occupare il Tempio e di cacciarne i sadducei? Semmai il Tempio veniva depredato da forze straniere dopo che queste avevano occupato la città.

Se gli stessi ebrei avessero “epurato” con la forza il Tempio, chiunque avrebbe potuto pensare che facevano il gioco di qualche nemico, fosse di origine pagana o soltanto “eretica”, come p.es. i Samaritani, che odiavano a morte i Giudei. Neanche il Battista, che pur tuonava contro i sadducei, ebbe mai il coraggio di occupare il Tempio; e infatti rifiutò la proposta che gli fece Gesù, rinunciando per sempre a collaborare con lui.

Tutt’altra cosa invece era rifiutarsi di pagare il tributo ai Romani, che di tanto in tanto, per riscuoterlo in maniera razionale, organizzavano il censimento della popolazione. Un rifiuto del genere equivaleva a una dichiarazione di guerra.

Il primo a opporsi fu Giuda il Galileo (o di Gamala), figlio di quell’Ezechia di Gamala fatto uccidere da Erode il Grande, perché si era ribellato ai Romani e a Giovanni Ircano II, sommo sacerdote asmoneo e re di Giudea. Giuda viene considerato unanimemente il fondatore del partito zelota. Rivendicava una discendenza dalla dinastia asmonea, spodestata da quella erodiana, e chiedeva al popolo di ribellarsi ai Romani e ai loro lacchè in patria, come appunto Erode Antipa e l’aristocrazia laica e religiosa. In questo era sostenuto da una parte del partito farisaico capeggiata da Sadok. In fondo lo zelotismo non era che un fariseismo radicalizzato, che nella variante sicaria assumeva i panni di un movimento terroristico.

L’ala progressista dei farisei, insieme agli zeloti, detestava l’establishment sacerdotale, che cercava di convincere i Giudei a non opporsi al tributo romano. Zeloti e farisei fecero due rivolte negli anni 6-7 d.C. Sappiamo come andò a finire: 2.000 rivoltosi furono crocifissi dalle legioni di Publio Quintilio Varo, che governava in Siria.14 Giuda fu ucciso da Publio Sulpicio Quirinio nella seconda rivolta contro il censimento. Anche due suoi figli verranno crocifissi nel 46.

Giuda aveva ragione ma usava metodi sbagliati, il primo dei quali era la pretesa di diventare il sovrano di un regno teocratico; il secondo quello di non cercare consensi tra Giudei e Samaritani, cioè di non essere capace di mediazione. La sua fu una lezione che Gesù non volle ripetere, tant’è che sul Tabor rifiutò la proposta che gli fecero 5.000 Galilei di diventare re e di marciare su Gerusalemme con l’intento di occuparla militarmente. Col solo appoggio dei Galilei (o degli zeloti) non avrebbe fatto nulla, proprio perché temeva la ritorsione delle legioni stanziate in Siria.

Ma la domanda cruciale è un’altra: nella pericope dedicata al tributo (Mc 12,17), Gesù appare intenzionato a pagarlo oppure no? Una delle motivazioni con cui i sacerdoti consegnano Gesù a Pilato è proprio quella che diceva di non pagarlo (come se Pilato non avesse, in merito, informazioni precise per conto suo!).15

Davvero in quella famosa frase che gli si attribuisce: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, c’era un invito a non pagare il tributo? Io non credo. Per come è stata formulata, quella è un’affermazione che appartiene di più alla teologia paolina che non alla politica gesuana.

In quella frase c’è infatti l’idea di un compromesso: “Noi vi paghiamo il tributo se voi non violate le nostre tradizioni religiose”. In Paolo la religione era più importante della politica, anche se la sua fede non coincideva più con quella tradizionale degli ebrei.

In un certo senso Paolo appariva un rivoluzionario, in quanto chiedeva la separazione tra Chiesa cristiana e Stato romano e pagano: cosa che gli imperatori potevano accettare solo fino a un certo punto. È vero che agli ebrei lasciavano un certo margine di autonomia, ma in genere pretendevano che i cittadini romani fossero di religione pagana, poiché il paganesimo non era una religione politicizzata, restava fedele alle istituzioni (ottenendo in cambio piena autonomia per le proprie divinità locali a livello di città-stato) e non aveva difficoltà a prestare un culto divino (formale) agli imperatori.

Gli ebrei venivano sì tollerati, ma non si concedeva loro la cittadinanza, e potevano essere facilmente additati come i responsabili ultimi di qualunque situazione critica patita dai Romani, tant’è che venivano spesso espulsi dalle città o subivano pogrom antisemitici. E inizialmente i Romani non facevano molta distinzione tra ebrei e cristiani.16

Ci vorranno tre secoli prima che gli imperatori capiscano che quel regime di separazione teorizzato da Paolo (o comunque da una teologia derivata dalle sue idee) non costituiva alcuna minaccia politica per l’impero. L’imperatore doveva solo rinunciare alla carica di pontefice massimo; doveva smettere di perseguitare i cristiani solo perché rifiutavano il politeismo pagano; doveva accettare l’idea che la Chiesa cristiana era in diritto di ricevere qualunque lascito o donazione; e soprattutto doveva smettere di attribuirsi delle qualifiche che lo identificassero come un soggetto di natura divina. Per i cristiani l’unico soggetto umano avente natura divina era Gesù Cristo, delle cui direttive missionarie o apostoliche era responsabile la gerarchia ecclesiastica. Col cristianesimo paolino s’impone una concezione di “chiesa” sconosciuta ai Romani, abituati a considerare la religione uno strumento del potere politico-istituzionale.

Purtroppo però, se con Costantino si poteva ancora pensare a un regime di separazione tra fede e politica e quindi a una sorta di “Stato laico”, al di sopra di tutte le religioni; già con Teodosio invece si tornava ai tradizionali metodi romani: il cristianesimo diventava la nuova religione da strumentalizzare, facendola diventare “statale”. Il confessionalismo del nuovo Stato cristiano segnava la fine non solo del paganesimo politeista, ma anche di tutte le eresie cristiane giudicate tali dalla Chiesa di stato.

Quindi se davvero qualcuno volle porre al Cristo la domanda sulla liceità del pagamento del tributo a Cesare, la risposta non poteva essere identica a quella di Paolo. Gesù avrebbe risposto come qualunque leader rivoluzionario di buon senso: “Vi pagheremo il tributo finché non avremo forze sufficienti per non pagarvelo più. Scordatevi comunque che noi ci si possa accontentare di un’autonomia sul piano soltanto religioso, poiché pretenderemo un’indipendenza vera e propria anche sul piano politico”.

Se queste erano le sue intenzioni, quella domanda era retorica, essendo scontata la risposta. Forse meno scontato sarebbe stato il fatto che Gesù non aveva intenzione di concedere nulla neppure a Dio, in quanto non nutriva alcuna idea religiosa.

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6.7) Porgere l'altra guancia

Che significa “porgere l’altra guancia”? Lo spiega, con tutti i suoi limiti, Mt 5,38s., che pone l’espressione soltanto in antitesi alla legge veterotestamentaria del “taglione”.

La morale della sua pericope semplicemente afferma che di fronte a un torto non va cercata immediatamente la vendetta personale o la giustizia sommaria, ma va piuttosto cercata la possibilità del perdono, affinché il torto subìto non diventi più grande di quello che in effetti è stato.

Il che non esclude la necessità della giustizia: Paolo non si appellava forse ai tribunali romani per avere giustizia contro gli ebrei che lo perseguitavano per le sue opinioni politico-religiose? Chi offende non deve credere nella possibilità di poter reiterare il torto impunemente.

Il limite di Matteo sta però nel fatto che non intende riferirsi minimamente ai rapporti che si devono tenere con l’oppressore (nazionale o straniero). Cioè non arriva a capire che l’espressione “porgi l’altra guancia” significa “resistere al nemico sino alla morte”, se questo serve per salvaguardare le proprie idee o determinati princìpi condivisi da una collettività.

Quando il nemico è più forte, bisogna assecondarlo, poiché sarebbe un suicidio non tener conto dei rapporti di forza, ma assecondarlo nelle “forme” non significa dover per forza condividere le sue idee, i suoi criteri di vita ecc. “Porgere l’altra guancia” non significa “porgere la mente”.

Quindi l’atteggiamento apparentemente remissivo va vissuto solo in attesa di tempi migliori, quando, a forza di predicare l’alternativa, i rapporti di forza saranno radicalmente mutati. E sarà allora che si insorgerà.

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6.8) Il ruolo dei farisei

Nei vangeli si parla molto male dei farisei, tanto che nell’immaginario collettivo degli ultimi due millenni la parola “fariseo” è diventata un sinonimo di “ipocrisia”, cioè quel tipo di falsità che caratterizza chi dice una cosa e ne fa un’altra o chi pensa di essere eticamente migliore di altri solo perché ha rispettato alla lettera alcune regole formali di comportamento previste da qualche normativa ufficiale.

Eppure se c’è nei vangeli un partito giudaico che poteva allearsi col movimento nazareno era proprio il loro. Infatti i farisei erano laici, non clericali, detestavano i sadducei, non apprezzavano neppure i Maccabei, nonostante che questi avessero avuto la meglio contro l’ellenizzazione forzata dei Seleucidi. Sostanzialmente non sopportavano l’unione di trono e altare, anche perché per tradizione la carica di sommo sacerdote era appannaggio dei sadociti (una tradizione interrotta dall’egemonia ellenistica dei Seleucidi e che gli Asmonei non avevano voluto ripristinare). I farisei erano contrari persino all’idea di monarchia, sostenuta invece dai sadducei. Ben 800 di loro furono crocifissi, nell’88 a.C., da Alessandro Janneo, della dinastia asmonea, quella che aveva vinto Antioco IV Epifane.

Non è da escludere che almeno una parte di loro fosse alleata con Gesù nella decisione, presa a Betania, di occupare la fortezza Antonia, in cui stazionava una coorte romana in permanenza, e nel cacciare i sadducei dal Tempio, sommamente corrotti e collusi col nemico in patria. Probabilmente dietro la parola generica “Giudei”, con cui Gesù faceva ampie discussioni, vanno intesi soprattutto i farisei, i quali rappresentavano, in un certo senso, gli “intellettuali” del tempo, un po’ boriosi e cattedratici, sprezzanti di chi non aveva “studiato”, di chi non aveva cultura sufficiente per discutere con loro (in Gv 7,52 se la prendono persino con Nicodemo, un loro capo, solo perché aveva ipotizzato che Gesù, pur provenendo dalla Galilea, poteva essere il messia). Secondo Giuseppe Flavio erano circa 6.000 persone e godevano di un certo prestigio tra le masse, anche perché avevano fatto costruire molte sinagoghe, riducendo così l’importanza del Tempio.

Difficile pensare che i farisei potessero condividere l’ateismo del Cristo, cioè l’interpretazione elastica ch’egli dava al rispetto del sabato, alla differenza tra cibi puri e impuri, alle abluzioni rituali, alla pratica autogiustificatoria del digiuno, ecc. Inoltre Gesù era contrario al divorzio unilaterale maschile17, alla pena di morte, al nesso tra malattia fisica e colpa morale, al primato del Tempio come luogo di culto (rispetto p.es. al monte Garizim dei Samaritani) e, più in generale, alla superiorità precostituita della Giudea nei confronti della Galilea e della Samaria.

La differenza tra partito farisaico e movimento nazareno era più ideologica che politica. I farisei non si sarebbero sottratti a un’insurrezione contro i Romani e contro i sadducei (ne avevano già fatta una, disastrosa, insieme agli zeloti contro il censimento di Quirinio del 6 d.C.), ma la condizione che avrebbero posto si può facilmente intuire: dovevano essere loro a stabilire come rendere il giudaismo più coerente, più ortodosso, più conforme alla loro interpretazione orale della Torah. Cioè avrebbero voluto esserne loro i protagonisti.

Purtroppo dai vangeli si capisce ben poco quanto i farisei potessero essere vicini ai nazareni. Possiamo soltanto dire con certezza, stando a Giuseppe Flavio, che i Romani iniziarono a occupare la Giudea approfittando subito (già con Pompeo nel 63 a.C.) delle rivalità esistenti tra farisei e sadducei. Nel migliore dei casi vengono valorizzati dagli evangelisti singoli esponenti farisaici come “discepoli occulti” (Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea, Gamaliele, Giairo...).

I farisei si avvicinano al movimento nazareno quando questo, con la svolta petrina relativa all’interpretazione della tomba vuota come “resurrezione”, aveva già posto le proprie basi mistiche per trasformarsi in una “chiesa o comunità cristiana”, cioè a partire dal momento in cui il fariseo Paolo fa diventare con decisione il Cristo politico un Cristo teologico.

I farisei neoconvertiti al cristianesimo rimasero sì anticlericali, ma nell’ambito del teismo giudaico (cfr At 15,5), avendo già elaborato, prima ancora della svolta petrina, una loro teoria della resurrezione e della retribuzione di premi e punizioni per le anime nell’aldilà. In un certo senso potremmo dire che il cristianesimo definitivo non è che un fariseismo completamente degiudaizzato. Con la teologia paolina il fariseismo si rifà la “verginità” nei confronti del movimento nazareno: non l’aveva supportato con la dovuta energia e convinzione sul piano politico, ma inizierà a farlo su quello teologico (o teopolitico).

Paradossalmente erano più atei i sadducei, che rifiutavano di credere in un aldilà e nell’idea di resurrezione. Non accettando l’interpretazione scribo-farisaica della Torah, si comportavano come gli esseni. Solo che i sadducei erano profondamente conservatori e sostanzialmente cinici, e soprattutto non volevano la diarchia dei poteri, politico e religioso. Si sentivano protetti dai Romani.18 Che fine abbiano fatto dopo la catastrofe del 70 è difficile saperlo: o accettarono il neo-giudaismo farisaico o il cristianesimo, ma non è da escludere che si siano spogliati dei loro abiti clericali e abbiano accettato in toto la cultura ellenistica e latina.

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6.9) L'uguaglianza dei sessi

Ci sono ancora dei cattolici che pensano che la dottrina vaticana dell’indissolubilità del matrimonio provenga addirittura da fonti evangeliche, in particolare da Mc 10,2-12.

Ovviamente nessuno mette in dubbio che in Cristo vi fossero già elementi a favore dell’uguaglianza dei sessi e della loro piena comunione sul piano spirituale e materiale, contro la facoltà che i maschi ebrei si erano presi di ripudiare le mogli senza tante spiegazioni.

Tuttavia la frase “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei”, non voleva dire che il divorzio non poteva mai essere ammesso, ma soltanto che l’uomo che divorzia con superficialità, solo perché si ritiene superiore alla donna, è come se commettesse adulterio. Piuttosto che comportarsi così, è meglio non sposarsi affatto.

Mt 19,9 infatti ci tiene a precisare, a scanso di equivoci, che quando c’è concubinato, cioè adulterio, il divorzio diventa legittimo. Una precisazione però inutile, poiché un amore giunto al suo fallimento rende possibile il divorzio: non c’è bisogno di appellarsi al concubinato per aumentarne la legittimità.

In ogni caso la Chiesa romana ha creduto di poter dedurre da Marco l’indissolubilità del matrimonio, come se l’amore potesse essere imposto ope legis.

In realtà il testo di Marco non insegna altro che l’esigenza di approfondire con l’amore il rapporto di coppia: solo quando, nonostante l’impegno, la buona fede e la serietà dimostrati, la comunione si spezza, al punto che si ritiene impossibile ricomporla (poiché senza reciprocità l’amore non esiste), solo allora il divorzio trova la sua ragion d’essere e, con esso, il problema di realizzare una vera comunione di vita col nuovo partner.

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6.10) Il ruolo dell'essenismo

Prima di affrontare il ruolo del movimento essenico è meglio spendere qualche parola sulla funzione sacerdotale ebraica.

Il sacerdozio ebraico, fin dai tempi della sua istituzione, era ereditario (Es 28,1-4) e le sue attribuzioni, oltre al culto, riguardavano l’insegnamento della Legge. Infatti alla classe sacerdotale risalgono la legislazione scritta d’Israele, la trasmissione delle antiche tradizioni sulle origini e parte della loro epopea, della poesia cultuale.

Al tempo del re David era sommo sacerdote Sadoc, discendente di Eleazaro, figlio di Aronne. Si alternava nella sua funzione con Abiatar, figlio di Achimelech, unico superstite dei sacerdoti fatti trucidare da Saul per vendetta contro Achimelech, che gli aveva impedito di uccidere David.

Sadoc aiutò il re David durante la rivolta del figlio Assalonne e fu quindi determinante nel portare al trono il re Salomone.

Abiatar invece finì esiliato dopo aver appoggiato la candidatura di Adonia alla successione al soglio davidico.

Dopo che Salomone ebbe eretto il Tempio di Gerusalemme, Sadoc ne fu il primo sommo sacerdote, capostipite delle famiglie sacerdotali di Gerusalemme (sadochiti) nel periodo postesilico. Il profeta Ezechiele loda i figli di Sadoc come strenui oppositori del paganesimo durante il periodo del culto verso gli dèi stranieri, e indica i loro diritti ereditari come unici nel futuro Tempio.

La riforma di Giosia (640-609 a.C.) confermò l’esercizio delle funzioni sacerdotali massime solo a quelli della famiglia di Sadoc nella linea di discendenza da Aronne. Sotto questa famiglia vi erano, nella gerarchia ecclesiastica, non solo i sacerdoti veri e propri (figli di Aronne), ma anche i leviti, una sorta di clero inferiore, raggruppati in tre famiglie, alle quali vengono aggregati i cantori e i portieri.

Nel 172 a.C. l’ultimo sommo sacerdote discendente da Sadoc, Onia III, fu assassinato perché si opponeva strenuamente alle infiltrazioni culturali e religiose dell’ellenismo di Antioco IV Epifane (seleucide).

I Maccabei ne approfittarono per insediare alla carica di sommo sacerdote persone della propria famiglia asmonea, non sadochita. Esseni, spiritualisti, nazionalisti abbandonarono Gerusalemme per protesta contro la nuova gerarchia ecclesiastica. Si rifugiarono in piccoli centri, e alcune comunità si stabilirono anche nel deserto, a Qumran, in attesa di un messia liberatore (favorirono gli zeloti nella guerra del 66-70).

Nel II secolo a.C. un partito politico, quello dei sadducei, s’ispirò al nome di Sadoc, ma in maniera truffaldina. Di fatto con Erode il Grande (37 a.C.) i sommi sacerdoti erano designati dall’autorità politica, che li sceglieva tra le grandi famiglie sacerdotali. Dopo Erode lo faranno i Romani.

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Posta tale premessa storica, devo dire che se anche Gesù frequentò gli esseni, non credo che la sua ideologia politica provenga da questo gruppo, salvo l’idea di vivere una sorta di comunismo primitivo in cui sia abolita la proprietà dei mezzi produttivi. In fondo il sacramento dell’eucaristia non è che la simbologia mistica di un rito antropofagico avente come significato la comunione totale delle persone e quindi dei loro beni.

Il cristianesimo è una dottrina della distribuzione egualitaria dei beni comuni, ma non è una dottrina della produzione di beni comuni sulla base della proprietà condivisa dei principali mezzi produttivi. Non essendo anche questo, la distribuzione dei beni diventa inevitabilmente la distribuzione del superfluo. Soltanto nelle realtà monastiche il cristianesimo prevede la proprietà comune dei mezzi produttivi. Spesso però queste realtà diventavano nel Medioevo grandi proprietà terriere che sfruttavano i contadini come servi della gleba. Il comunismo della proprietà era presente sicuramente a Qumran, al tempo degli esseni.

Per il resto è abbastanza stupefacente il razzismo previsto dagli esseni nei confronti delle categorie sociali più problematiche. Nella “Regola dell’Assemblea” (II,38), tanto per fare un esempio, si dice a chiare lettere che nella loro comunità non potevano entrare sordi, ciechi, muti, storpi, vecchi, minorenni e minorati. Lo stesso dice il “Documento di Damasco” (XV,17). Questo perché si sentivano fedeli alla tradizione di Sadoc e di Mosè. Non che gli altri partiti la pensassero diversamente, ma forse è proprio per questa ragione che Gesù aveva accettato di frequentare varie tipologie di emarginati.

Naturalmente per evitare qualunque riferimento alla sua politicità, gli evangelisti preferirono dipingerlo come un terapeuta o un buonista a oltranza, che tende a dare più peso alla morale personale che non al ruolo professionale o alla condizione sociologica delle persone incontrate. In ogni caso è assurdo pensare che Gesù avesse deciso di avvicinare queste persone perché lui stesso si sentiva un reietto a causa della sua nascita ambigua, considerata vergognosa. Se fosse stato così, sarebbe stato un moralista o un pietista, certamente non un politico eversivo.

Per me il Battista rappresenta un’evoluzione dell’essenismo qumranico, in quanto in lui vi è il rifiuto dell’autoisolamento comunitario (desertico), scelto per protesta contro i gestori del Tempio. Il Battista è una via di mezzo tra Qumran e Cristo. La purità di Giovanni è di una radicalità eversiva rispetto alle soluzioni esseniche. Infatti il battesimo è un atto unico compiuto in un determinato luogo in vista dell’imminente futuro escatologico, politicamente eversivo. Il gesto fa conseguire il perdono dei peccati totalmente al di fuori del sistema cultuale del Tempio, al quale invece gli esseni si richiamano, auspicandone anzi la rifondazione secondo un’assoluta purità rituale. In sostanza il Battista è un predicatore apocalittico indipendente, che si ferma però al livello pre-politico. D’altra parte Giuseppe Flavio non l’avrebbe elogiato se avesse avuto il minimo sentore del carattere ribellista della sua predicazione.

Da lui Gesù prese il voto di nazireato, che gli permise di non sposarsi finché non l’avesse adempiuto.19 Può anche darsi che sia Giovanni che Gesù abbiano frequentato la comunità essenica, e può anche darsi che ne siano usciti insieme, e persino che Gesù abbia accettato di farsi battezzare da Giovanni20, ma se Gesù appare come un seguace di Giovanni, non è mai vero il contrario.

Resta infatti indubbio che Gesù ruppe i rapporti con Giovanni quando decise di occupare il Tempio, all’inizio della sua carriera politica, come risulta nel IV vangelo. Il Battista si limitava a una critica etico-sociale-giuridica (prepolitica), ma non arrivò mai a costituire un movimento politico-nazionale con finalità eversiva contro i Romani e i collaborazionisti ebrei. Non divenne mai un seguace del Cristo, anche se molti suoi discepoli lo divennero.

Francesco Esposito (in Il Cristo illegittimo) presenta un Battista radicale e un Cristo moderato (divenuto tale dopo la carcerazione del suo maestro). In realtà sul piano politico fu proprio il contrario. Il fatto che Gesù frequentasse anche i ceti superiori (scribi e farisei) non stava a indicare che la sua strategia eversiva si era ammorbidita, ma semplicemente che si era scaltrita.

Gesù era diventato consapevole che con l’estremismo politico degli zeloti o col radicalismo meramente etico del Battista, non si sarebbe riusciti a compiere alcuna rivoluzione. Aveva capito che se sul piano etico si poteva essere più transigenti, sul piano politico si potevano acquisire maggiori consensi, la cui finalità era una sola: liberarsi dei Romani e dei sadducei, l’aristocrazia sacerdotale collusa con l’occupante straniero.

Quando il Battista manda i propri discepoli a chiedere a Gesù se è davvero lui il messia politico che devono attendere (Mt 11,3; Lc 7,18ss.), non si rende conto che Gesù aveva bisogno di avere come seguaci delle persone più duttili, più flessibili, più popolari e meno intellettuali.

La teologia petro-paolina, quando trasformò il Cristo postpasquale da politico a teologico, recuperò in parte i rapporti coi seguaci del Battista, sulla base di un compromesso (che non tutti di loro condivisero): “Voi accettate che Cristo sia figlio di Dio in via esclusiva, e noi accettiamo ch’egli fu battezzato da Giovanni, che così risulterà essere l’ultimo dei profeti prima di lui”. Poi i cristiani presero dagli esseni tutti i riti religiosi, inclusa l’eucaristia.

Dico questo perché per me Gesù non fu solo un leader politicamente sovversivo (antiromano in primis), ma anche un soggetto fondamentalmente ateo, indifferente alla religione, tant’è che escludo si fosse lasciato battezzare dal Battista, a meno che non si voglia dare a questo rito un contenuto politico che col tempo è andato perduto (per colpa dei cristiani). Nel IV vangelo viene detto chiaramente che Gesù non battezzò mai nessuno, anche se questo rito lo lasciava fare ai seguaci del Battista che si era staccati da quest’ultimo. Il rito del battesimo appare troppo moralistico per essere politicamente efficace. È soltanto l’espressione di un’intenzione, non la decisione di un coinvolgimento fattivo (come invece implicava l’espressione “Vieni e seguimi”).

L’idea qumranica, secondo cui avrebbero dovuto esserci due messia, uno religioso e l’altro politico, Gesù la condivise sino al momento in cui propose di occupare il Tempio. Quando vide che il Battista rifiutò di parteciparvi, lui rinunciò anche all’idea dei due messia, nel senso che anche nel caso in cui il Tempio fosse stato un giorno occupato, non avrebbe permesso che il sommo sacerdote avrebbe dovuto svolgere un ruolo messianico equivalente a quello politico. E non perché avrebbe voluto riservare solo a se stesso il ruolo di messia politico, ma proprio perché era contrario a qualunque monarchia teocratica e a qualunque monarchia politica.

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6.10.1) Identità e ruolo degli esseni

Gli esseni (il cui nome forse vuol dire “santo” o “puro”) non sono nati a Qumran, poiché in precedenza vivevano in varie località della Palestina, urbane e rurali (pare avessero un loro quartiere anche a Gerusalemme). Considerando che anche l’apostolo Andrea li frequentava, è possibile che fossero presenti anche in Galilea. Qumran fu distrutta completamente dai Romani perché coinvolta nel 68 con gli zeloti. I sopravvissuti si unirono agli zeloti e sicarii di Masada, dove si suicidarono in massa.21 I loro manoscritti furono ritrovati solo nel 1947.

Nel deserto, sulle rive del Mar Morto, circa 150 persone si trasferirono in segno di protesta, contro la pace del 157 a.C. stipulata tra i Seleucidi e il comandante maccabeo Gionata, il quale, per l’occasione, ottenne la carica di sommo sacerdote e l’intero potere sulla Città Santa, destituendo il pontefice in carica, fondatore della comunità essenica, riconosciuto da molti studiosi come il cosiddetto “Maestro di Giustizia”.

Gli esseni non sopportavano la cultura ellenistica. Per loro era importante un certo rituale di purificazione, diverso da quello del Tempio, in quanto non facevano sacrifici di animali, essendo vegetariani. Il concetto di purezza lo legavano alle tradizioni più antiche, soprattutto a quelle della stirpe sacerdotale di Sadoc e di Aronne. Credevano nella Torah e assai poco alla tradizione orale dei farisei (però credevano nell’immortalità dell’anima, nell’idea di resurrezione, nel giudizio finale di buoni e malvagi, ovvero nella fine del mondo). Filone e Giuseppe dicevano che quelli di Qumran praticavano il celibato (non quelli però urbanizzati). Portavano armi ma rifiutavano la schiavitù e i commerci, ed erano dediti esclusivamente ad agricoltura e artigianato, con tanto di autoconsumo e baratto (una sorta di comunismo primitivo, essendo del tutto mancante la proprietà privata dei mezzi produttivi). Non prestavano mai alcun giuramento. Erano strutturati in maniera gerarchica: postulante, novizio e iniziato. Una loro corrente fu quella dei Terapeuti egizi. Erano anche conosciuti col nome di “ebionim”, cioè “poveri”, in quanto conducevano un tipo di vita semplice, frugale, aiutandosi molto l’un l’altro.

Nella loro vasta letteratura (normativa e apocalittica) tutte le aspettative di riscatto contro i Romani e i sadducei erano rivolte su due figure messianiche: una politica (il Messia d’Israele) e l’altra religiosa (il Messia d’Aronne). La letteratura (basata su un’esegesi allegorica) era influenzata da tradizioni iraniche, parsiche, buddistiche, pitagoriche...: lo si vede non solo nella pratica del celibato e del cenobitismo, ma anche in un certo culto del Sole, degli angeli, dei bagni rituali, ecc. Tutta la parte liturgico-sacramentale del cristianesimo è di origine essenica, inclusa l’eucaristia (con tanto di pane e vino), anche se ovviamente riveduta e corretta secondo la teologia paolina.

Nel 6 d.C. erano circa in 4.000, il movimento più numeroso dopo quello farisaico, ch’era di circa 6.000 membri, mentre sadducei e zeloti ne potevano contare qualche centinaio.

Stranamente non vengono mai citati nel N.T., benché non risulti da nessuna parte che fossero ostili al movimento nazareno.22 A meno che non si parli di loro riferendosi ai seguaci del Battista. È comunque giusto considerare il movimento del Battista una significativa evoluzione della comunità essenica, in quanto con esso si decide di uscire dal deserto e di frequentare principalmente il Giordano per praticare un battesimo avente lo scopo di costituire uno spartiacque tra quanti volevano un’insurrezione antiromana e chi no. Ma non è da escludere che i redattori cristiani abbiano evitato un collegamento con l’essenismo proprio per celare l’origine delle loro pratiche sacramentali e liturgiche.

Sicuramente è stato frequentando il movimento del Battista che Gesù ha fatto il voto di nazireato23; ed è stato contando su questo movimento che tentò di occupare il Tempio all’inizio della sua carriera politica. La pericope (inventata) sulle tentazioni nel deserto, vissute da Gesù per 40 giorni, risente ovviamente di influssi essenici, ma anche il battesimo nelle acque del Giordano e l’idea di Spirito santo. Tuttavia quando Gesù inizia la sua attività politica eversiva, aveva smesso di attribuire importanza ai sacrifici rituali, ai digiuni, alla pratica del battesimo: persino il rispetto del sabato l’aveva molto relativizzato.

Gli evangelisti attribuiscono a Gesù il termine “regno di Dio”. In realtà anch’esso è di origine essenica, e non è affatto detto che Gesù l’abbia mai usato, poiché non aveva alcuna intenzione di costruire una monarchia teocratica. Se non si capiscono i motivi per cui Gesù ha rotto politicamente con l’essenismo e col battismo, è impossibile capire perché avesse scelto l’ateismo e fosse diventato un rivoluzionario attivo contro i Romani.

Il limite fondamentale del battesimo di penitenza era che da un lato si predicava una cosa politicamente impegnativa, mentre dall’altro si fornivano mezzi e metodi di natura sostanzialmente etica o giuridica (vedi la contestazione a Erode Antipa di lasciare la sua seconda moglie, o le filippiche morali contro i partiti farisaico e sadduceo). Giovanni si limitava a criticare, predicare, impartire il battesimo, ma non sapeva organizzare un movimento davvero eversivo. Non aveva l’intelligenza di una strategia politica rivoluzionaria, che andasse ben oltre le questioni meramente religiose o di comportamento sociale egualitario.

Giovanni aveva capito il limite fondamentale dell’essenismo di Qumran: l’autoisolamento, l’estraneazione sociale, l’autoreferenzialità. Ma non ha saputo trasformare questa convinzione in qualcosa di politicamente radicale, che potesse comportare l’occupazione del Tempio e la cacciata non solo dei mercanti e cambiavalute, ma anche dei sacerdoti, fino all’insurrezione nazionale contro i Romani.

*

La cosa singolare, che meriterebbe d’essere affrontata, è relativa al fatto che mentre gli esseni sostengono l’idea (democratica) dei due leader messianici (uno religioso e l’altro politico), in quanto questo era il loro modo di opporsi ai sadducei (che univano le due cariche in una sola col placet dei Romani), il Battista invece rifiuta entrambi i ruoli messianici. Cioè nel momento in cui Gesù mostrava di sentirsi pronto come leader politico, e propone al Battista, che aveva tutte le carte in regola per diventare sommo sacerdote, di occupare insieme a lui il Tempio, il Battista declina l’offerta, e non tanto perché fosse contrario all’idea di assumere la più alta carica religiosa, quanto perché non voleva assumerla occupando il Tempio.

Che senso ha questa posizione? Sembra ch’egli fosse disposto a diventare pontefice solo dopo che il Cristo politico avesse cacciato i Romani. Cioè, mentre Gesù poneva l’occupazione del Tempio come premessa per l’insurrezione nazionale, per il Battista invece l’occupazione doveva apparire soltanto come una sua conseguenza (che poi alla fine non sarebbe stata neppure una “occupazione”, ma, se vogliamo, una naturale “transizione”, una sorta di inevitabile avvicendamento, dovuto al fatto che i sadducei non avrebbero più avuto i Romani a sostenerli).

Nell’ottica del Battista il leader politico doveva svolgere il ruolo del liberatore nazionale armato, che avrebbe consegnato su un piatto d’argento al leader religioso la gestione del Tempio. Invece su un piatto ci finirà la sua testa.

Mi chiedo come potesse pensare che Gesù avrebbe accettato un’impostazione politica del genere, dal sapore vagamente clericale. È stato forse un caso che, dopo la fallita occupazione del Tempio, Gesù abbia detto alla samaritana: “Pregare Dio al Tempio o sul vostro monte non servirà a nulla ai fini della liberazione nazionale”? Il primato storico-religioso del Tempio gli appariva definitivamente morto e, con esso, il rapporto col cugino Giovanni, almeno finché questi non avesse mutato atteggiamento.

Probabilmente al Battista sembrava inutile, anzi insensato, diventare sommo sacerdote in una società controllata dai Romani. Forse per questo sperava che Gesù dimostrasse preventivamente ch’era in grado di liberare la nazione. Tuttavia la sua era una posizione astratta, idealistica, poco flessibile. Non era necessario fare prima la cosa più grande, per poi ottenere quella di minore portata. Si poteva partire anche da quest’ultima. L’importante era dare un segnale convincente alla popolazione ch’era giunto il momento di alzare la testa. Gesù chiedeva una concretezza fattiva nell’impegno politico, e il fatto di non averla ottenuta dal Battista, lascia pensare che il loro rapporto non dovette durare a lungo.

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6.10.2) Cristo proveniva dai Terapeuti egizi?

Chi associa Cristo ai Terapeuti egizi dà sempre per scontato che facesse guarigioni. Il che non avrebbe avuto senso per uno che aveva in mente di cacciare i Romani. Io ritengo inventate tutte le guarigioni miracolose, escluse quelle di natura psicosomatica, e comunque non escludo che anche queste siano state messe proprio dietro l’influenza degli ebrei residenti in Egitto o in qualche nazione ellenistica. Dato che Cristo era sostanzialmente un leader politico che cercava di liberare il suo Paese dall’oppressione romana (condivisa dai collaborazionisti interni), servirsi delle guarigioni non avrebbe avuto alcun senso (al limite neppure l’assistenza ai bisognosi).

Inoltre chi collega Cristo ai Terapeuti tende a dare molta importanza ai testi gnostici cristiani elaborati in Egitto, e quindi a negare al Cristo una vera politicità eversiva. Ma io quei testi li ho sempre considerati ideologicamente inferiori rispetto ai quattro canonici, di cui apprezzo in particolare Giovanni e in secondo luogo Marco. Matteo per me non vale niente. E Luca va preso con le pinze, in quanto rispecchia più di tutti le teologia paolina. Se proprio uno dovesse dare molta importanza alla gnosi, non ha bisogno di rifarsi ai codici di Nag Hammadi: gli è sufficiente rifarsi alle manipolazioni mistiche e spiritualistiche operate sul IV vangelo.

Infine tendo a considerare inventato il racconto natalizio chiamato “fuga in Egitto”.

Insomma ritengo tutta la pubblicistica apocrifa di scarsissimo valore per capire la politicità del Cristo.24 Probabilmente già verso la prima metà del I sec. circolavano dei testi sull’operato o sui detti di Gesù. Questi testi erano per lo più delle falsificazioni provenienti dal movimento nazareno, divenuto cristiano in seguito alla teologia petro-paolina. Avevano lo scopo di ridurre al minimo il lato politicamente eversivo della predicazione di Gesù. La letteratura apocrifa, nata soprattutto in Egitto, non fece altro che aggiungere ulteriori falsificazioni (diciamo nella forma delle invenzioni vere e proprie), molte delle quali rifluirono nella redazione finale degli stessi vangeli canonici, che sicuramente fu molto lunga e complessa. Forse l’unico testo del N.T. in cui è presente ancora l’immagine di un Cristo rivoluzionario, che avrebbe voluto spazzare via la presenza romana dalla Palestina, è l’Apocalisse.

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Vi sono degli esegeti che, dopo la scoperta dei papiri di Nag Hammadi, hanno iniziato a fare questo strano ragionamento: siccome esistono testi gnostici antichissimi che si oppongono a quelli canonici (o comunque alla teologia paolina), ciò rende plausibile non solo un’origine gnostica del cristianesimo primitivo di origine ebraica, ma anche la natura gnostica del messaggio che queste comunità ebraiche ricevettero dallo stesso Gesù Cristo, il quale naturalmente avrebbe vissuto la prima parte della sua vita tra i Terapeuti egiziani, ecc. ecc.

Io invece penso che Gesù non avesse nulla a che fare con lo gnosticismo, proprio perché era un leader politico e non un semplice filosofo. Filone Alessandrino era uno gnostico. Gli autori che hanno manipolato il IV vangelo avevano conoscenze dello gnosticismo. La comunità essenica poteva avere qualche riferimento alle idee gnostiche. Ma non era certo con questa filosofia esoterica, per lo più astrusa, che si sarebbero potute convincere le masse contadine supersfruttate della Palestina a insorgere contro i Romani e i sadducei.

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6.10.3) Che senso ha l'Apocalisse nel N.T.?

L’Apocalisse del Nuovo Testamento non mi ha mai molto entusiasmato, perché è un testo troppo difficile da capire, pieno di simbolismi ebraici che non vogliono dir nulla a noi occidentali, figli di una cultura greco-romana.

Probabilmente quando è stata scritta, Giovanni Zebedeo era già morto, poiché nel testo, sin dal suo esordio, appare che la comunità (di origine chiaramente giudaica), che si rifà all’apostolo in maniera diretta, si sente in dovere di scrivere qualcosa senza la sua autorizzazione. Infatti usa un linguaggio figurato ed escatologico per dar voce a una tradizione politica, quella appunto giovannea, che non aveva avuto il successo sperato, sia perché non era stata accettata dalla tradizione petro-paolina, sia perché in forma autonoma non era riuscita a creare un movimento che potesse davvero impensierire i Romani. Questo quindi significa che mentre l’Apocalisse contiene ancora elementi di rivendicazione politica, il IV vangelo, invece, scritto molti anni dopo (almeno nella sua versione manipolata), ne è quasi totalmente privo, pur avendo potuto attingere sempre dalla tradizione giovannea, che nel vangelo sembra essere vissuta in forma monastica, lontana dalle chiese urbanizzate della trionfante linea paolina.

Gli autori dell’Apocalisse hanno avuto bisogno di far credere che l’autorevolezza della posizione politica giovannea non dipendeva più da se stessa (e dal fatto che l’apostolo fosse stato un testimone oculare degli eventi, che evidentemente in qualche testo, andato perduto, doveva aver raccontato), ma dipendeva direttamente da Gesù Cristo, sulla cui trionfale parusia non si potevano nutrire dubbi di sorta. Questo motivo mistico ha indotto a inserire il testo tra quelli canonici, ma non senza difficoltà.

Le difficoltà erano dovute al fatto che la figura di Cristo rende vana quella di Dio e la figura di Giovanni rende vana quella di tutti gli altri apostoli e di Paolo di Tarso. Non solo, ma Gesù, pur nella sua magnificenza, appare come un “figlio d’uomo”, cioè non ha nulla che possa qualificarlo come un soggetto dotato di natura divina. Ciò era incompatibile con la teologia paolina che vedeva nel Cristo l’unigenito figlio di Dio in via esclusiva.

Quando nel cap. 2 si rivolge alla Chiesa di Efeso, l’autore fa capire chiaramente che Giovanni va considerato come l’unico vero successore di Gesù: tutti gli altri sono “falsi apostoli”. Lo stesso fa con la Chiesa di Smirne. Vengono criticati coloro che (tra i cristiani) “si proclamano Giudei e non lo sono”. Paolo era uno di quelli, che si faceva giudeo coi giudei e pagano coi pagani. Giovanni viene considerato un autentico giudeo seguace di Gesù, titolato a criticare gli usi e i costumi del mondo pagano e del falso giudaismo.

Naturalmente anche questo testo è testo abbondantemente manipolato, per poterlo inserire nei canonici. P.es. nel cap. 4 si dà per scontata l’esistenza dei quattro vangeli, quindi si deve per forza credere che l’Apocalisse sia stata scritta successivamente. Nel cap. 5 si sostiene la tesi paolina secondo cui Gesù è “figlio di Dio”, che si è immolato per riscattare l’umanità dal peccato originale. Il cap. 11 segna la fine d’Israele, che, come noto, è avvenuta tra il 70 e il 135. E così via.

Molto suggestivo è il racconto riportato al cap. 10, quando l’autore vorrebbe mettere per iscritto la visione cui ha appena assistito, ma l’agnello-Cristo glielo impedisce, come se sapesse che il farlo non sarebbe servito a scongiurare gli effetti catastrofici del comportamento umano. Anzi l’autore deve mangiare un libro che non ha scritto, offertogli da un angelo: un libro dal sapore dolce, ma dalle conseguenze molto amare. Qui sembra delineata l’inutilità della scrittura ai fini della salvezza umana.

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6.11) L'identità del Cristo

“La gente chi dice che io sia?” (Mc 8,27), chiede Gesù agli apostoli. A questa domanda le risposte sono quattro, di cui tre evidentemente sbagliate. Per quello ch’egli dice, assomiglia – secondo la gente comune – al Battista o a Elia o a uno dei profeti.

Tuttavia Pietro vuol far vedere che gli apostoli lo seguono per motivi teopolitici, non semplicemente etici: ecco perché gli dice apertamente che per loro è il messia (davidico) che deve liberare la Palestina dai Romani e dalla corruzione del Tempio.

Ora, perché nell’economia salvifica del protovangelo anche questo è un errore di identificazione? Perché – stando alla mistificazione redazionale di questo testo, che risente dell’influenza paolina – Gesù non voleva apparire come un messia teologico-politico, ma solo teologico.

Infatti per quale motivo Gesù gli dice di non rivelare a nessuno la sua identità? Proprio perché nel vangelo marciano Gesù non ha intenzione di diventare né messia politico (in quanto sostanzialmente il suo vero regno è nei cieli), né messia teologico-politico (poiché egli rifiuta la tradizione giudaica, di tipo davidico o anche maccabaico).

Secondo Marco, Gesù ha un’intenzione opposta: quella di diventare “martire”, e questa scelta esistenziale è possibile soltanto in una visione meramente teologica. Se proprio si vuol attribuire a tale scelta esistenziale un valore politico, questo non può essere che indiretto, nel senso che il cristianesimo si pone in maniera scismatica nei confronti del giudaismo e nel senso che rivendica, nei confronti del potere romano, una separazione tra Chiesa e Stato.

Ma se il Gesù marciano ha intenzione di diventare “martire”, davvero la gente sbaglia a equipararlo al Battista, a Elia, a uno dei profeti? Non sono forse morti in maniera violenta i profeti veterotestamentari? Quindi chi ha più ragione: Pietro o la gente comune?

Nessuno in realtà ha ragione, poiché il redattore vuol far capire, mistificando le cose, che Gesù voleva sì essere come un profeta etico che si fa ammazzare, ma anche come uno che sarebbe apparso più grande di tutti i profeti, in quanto dalla tomba sarebbe risorto, essendo figlio di Dio.

Naturalmente Pietro, secondo il redattore, non poteva capire queste parole, sicché “prese Gesù da parte e cominciò a rimproverarlo” (Mc 8,32): il popolo vuole un messia liberatore, non semplicemente un redentore religioso che redime dal peccato originale. Senonché Gesù, in questo vangelo, nega la sua vocazione politica e, parlando di resurrezione, ne afferma una che è soltanto teologica.

Come saranno andate in realtà le cose? quelle che Marco non può dire perché troppo compromettenti nei rapporti tra impero romano e cristianesimo primitivo? La diatriba sarà avvenuta sul senso della parola “messianicità”. Secondo la tradizione ebraica il messia doveva avere una specificità religiosa, che Cristo però rifiutava; inoltre il messia veterotestamentario era a favore della monarchia, non della democrazia; s’imponeva più che altro con la forza delle armi, non disdegnando il colpo di stato, e sempre era aiutato da un esercito di professionisti o di popolani che non avevano paura di niente ed erano disposti a tutto.

Gesù invece voleva una rivoluzione popolare, democraticamente intesa, senza la quale sarebbe stato impossibile vincere le legioni romane. Quindi la controversia era tra avventurismo galilaico (quello del vero Pietro) e realismo intertribale: l’insurrezione armata non avrebbe mai potuto prescindere dal contributo decisivo, paritetico, di almeno tre realtà geopolitiche ben distinte: Giudea, Galilea e Samaria, cui altre si sarebbero potute unire (Idumea, Decapoli ecc.).

In ogni caso se davvero Gesù avesse parlato di martirio a tutti i costi, Pietro avrebbe fatto bene a “rimproverarlo”. Di chi erano seguaci? di un pazzo autolesionista?

Nel vangelo di Marco le cose vengono però rovesciate: il matto è Pietro, il quale non capisce che la missione di Gesù è di tipo etico-religioso, non politico. Quindi è giusto che sia piuttosto lui ad essere biasimato dal suo maestro: “Vattene da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini”.

E Pietro, in fondo, è ben contento di apparire come un discepolo che non capisce nulla: così può convincere meglio il lettore pagano che la teologia petro-paolina, sottesa a questo vangelo, meritava di vincere su tutte le altre ideologie.25

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6.11.1) L'origine giudaica del Cristo

Voglio spendere due parole a favore dell’origine giudaica del Cristo. Prendiamo Gv 4,43ss.: “Trascorsi due giorni, partì di là (dalla Samaria) per andare in Galilea. Gesù stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria. Quando però giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero con gioia, poiché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme durante la festa (pasquale)”.

La sua patria quindi era la Giudea, ch’era stato costretto a lasciare dopo la fallita epurazione del Tempio, per sottrarsi all’arresto da parte della polizia giudaica. In Galilea invece viene accolto in maniera trionfale, perché aveva avuto il coraggio di fare una cosa che tutto il popolo desiderava, soprattutto quello galilaico. Se fosse stato un galileo doc, anche di nascita, i Giudei non l’avrebbero neppure ascoltato. “Non sorge profeta dalla Galilea” (Gv 7,52), rimproverano i leader farisei a Nicodemo. Se dopo la sua nascita ha vissuto a Nazareth, è stato solo per evitare lo scandalo della partenogenesi di Maria, non perché fosse nativo della Galilea o perché avesse vissuto più qui che in Giudea. Così almeno dicono alcuni esegeti.

Se andò in Galilea prima di compiere l’epurazione, come appare in Gv 1,43, fu perché, dopo aver incontrato Pietro, ch’era uno zelota, aveva bisogno di un appoggio significativo per occupare il Tempio. Pietro lo conobbe attraverso il fratello Andrea, seguace del Battista.

Questo è sufficiente per escludere che sia nato a Nazareth, un villaggio di cui peraltro non si sa nulla. Ma allora non ha neppure senso che sia nato a Betlemme, ove i genitori si sarebbero recati per il censimento facendo un viaggio assurdo dalla Galilea alla Giudea, mentre Maria era in procinto di partorire. Betlemme è stata scelta simbolicamente, perché qui era nato il re Davide.

Gesù non è nato né a Nazareth né a Betlemme e neppure a Gamala (come alcuni esegeti sostengono per porre una relazione tra lui e il movimento zelota), ma molto probabilmente è nato a Gerusalemme.

Dunque perché non dirlo chiaramente? La risposta è semplice: la teologia petrina, essendo antigiudaica, voleva attribuirgli un’origine galilaica.26

La famiglia di Gesù era imparentata con quella del Battista, che viveva a Gerusalemme. Gesù stesso conosceva molto bene Lazzaro e le sue sorelle, che vivevano a Betania, a pochi chilometri da Gerusalemme.27

Quando compie l’epurazione del Tempio, era già molto noto a Gerusalemme. Nicodemo, incontrandolo privatamente, gli riconosce una notevole autorevolezza (Gv 3,2). Anche il Battista fa lo stesso e anzi lo indica come possibile messia d’Israele. Sulla base di cosa però non lo sappiamo. L’unico evangelista che avrebbe potuto raccontarci qualcosa era Giovanni Zebedeo, che però in quel momento era un seguace del Battista. Di sicuro se Gesù non fosse stato già importante, non avrebbe avuto la forza di dividere il movimento battista in due parti.

*

Nei vangeli e negli Atti Gesù è chiamato “nazoràios” tredici volte, mentre il termine “nazarenos” appare solo sei volte. In Gv 18,5 è scritto testualmente: “Chi cercate?” Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Naturalmente la Bibbia della CEI preferisce tradurre il termine Ναζωραίον con “Nazareno”. Fa lo stesso anche in Gv 19,19: “Pilato compose l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: Gesù il Nazareno (Ναζωραίος), il re dei Giudei”.28 Sembra che per gli esegeti cattolici esista la sola Vulgata, dove in effetti è scritto “Nazarenus”, quando invece nella versione dei Settanta è scritto Ναζαραῖος. Non si chiedono come poteva a Pilato interessare che Gesù fosse nato in uno sperduto e insignificante villaggio della Galilea. Perché citare questo minuscolo villaggio in ben tre lingue? Volendo, avrebbe potuto farlo se Gesù fosse da sempre appartenuto a una grande città (p.es. noi ricordiamo Paolo come nativo di Tarso). Il toponimo “Nazareth” non esiste neppure nell’ebraico biblico: la sua più antica testimonianza è soltanto quella data dalla traslitterazione greca nei vangeli. Persino negli Atti degli apostoli (intorno al 58 d.C.), al momento di accusare Paolo, lo si definisce come un capo della setta dei “Nazorei” (24,5), non dei “Nazaretani”.

È quindi evidente che Pilato doveva prendere del Cristo qualcosa che lo distinguesse nettamente dagli altri leader politici. Ora, siccome non era figlio di una grande autorità politica o giuridica o di altra natura, a cosa si poteva riferire Pilato se non al fatto che Gesù aveva compiuto il voto (sacro) di nazireato, che lo obbligava a non sposarsi, a non bere alcolici..., e anche (come conferma la Sindone) a non tagliarsi i capelli né a radersi la barba?29 Il che ovviamente non vuol dire che Gesù avesse scelto di fare quel voto per adempiere al significato messianico di qualche profezia anticotestamentaria (di Isaia, Geremia ecc.). Queste sono solo speculazioni mistiche.

Penso anche che là dove si dica esplicitamente che Gesù veniva da Nazaret (Ναζαρέτ in Mc 1,9), lo si faccia con intento antigiudaico. Cioè non è da escludere che ad un certo punto si sia preferito dire ch’era un galileo proprio per impedire che i giudei, o meglio i giudeo-cristiani (quelli che han prodotto il vangelo di Matteo, per intenderci), potessero rivendicare l’origine di lui, magari rifacendosi proprio al voto di nazireato, che indicava le loro più antiche tradizioni.30 Gv 1,45 si limita a dire che Giuseppe era di Nazaret, non necessariamente anche Gesù. Giuseppe poteva aver sposato Maria ed essersi trasferito in Giudea. Difficile credere che Maria, essendo di un casato importante di Gerusalemme (imparentato con quello di Elisabetta e Zaccaria), avrebbe accettato di trasferirsi in un villaggio insignificante della Galilea, a meno che appunto non fosse stata costretta da una gravidanza anomala. In ogni caso per gli ebrei era il sangue della madre a decidere la purezza (“razzistica”, dobbiamo dire) del sangue del figlio.

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6.11.2) Le diverse rappresentazioni del Cristo

È incredibile vedere come le rappresentazioni di Gesù Cristo riflettano quel che uno vive o vorrebbe vivere. Cioè cose completamente diverse tra loro. Questo a testimonianza che i vangeli sono un miscuglio di istanze e concezioni di vita tra loro molto contraddittorie. Chi lo vede come politico laico (il sottoscritto), chi come messia liberatore in senso teopolitico (filozelota), chi come filosofo o teologo gnostico, chi come figlio di Dio in via esclusiva (secondo la teologia paolina), chi come profeta morale itinerante, o difensore dei poveri, o riformatore socio-religioso, apocalittico o escatologico o enochico31, essenico, anticlericale, ebreo ortodosso, ebreo eretico, capo di una Chiesa, redentore dell’umanità, la seconda persona della Trinità, o soltanto un geniale artista della parola.

La cosa ancora più strana è però vedere ogni tanto qualcuno che dice: “Ma questo non è il vangelo!”, “Queste sono congetture personali”, “Dove sono le fonti per sostenere idee del genere?”. Eppure è tutto scritto lì, e ognuno lo interpreta come meglio crede. E non mi si venga a dire che l’esegesi dei cattolici è migliore di quella degli ortodossi o dei protestanti, che pur si definiscono “cristiani” come loro. Anche all’interno del cristianesimo non esiste un’interpretazione oggettiva dei vangeli, altrimenti non ci sarebbero state le solenni scissioni del 1054 e del 1517.

Ognuno dovrebbe limitarsi a esporre le proprie idee e a lasciare che sia il tempo a decidere quale sia la migliore.

*

Si può descrivere Gesù come si vuole, ma di una cosa almeno ci si deve convincere: essendo stato consegnato dai capi giudei a Pilato, ed essendo stato torturato e giustiziato dai Romani con una esecuzione riservata agli schiavi ribelli e sediziosi, in ciò che ha detto e soprattutto in ciò che ha fatto dovevano esserci degli elementi che davano profondamente fastidio sia ai sacerdoti ebraici che ai conquistatori romani.

Questi elementi non possono essere compresi a prescindere da un’analisi politica. Cioè anche nel caso in cui ci limitassimo a considerare il Cristo un soggetto culturalmente eversivo per i Giudei, in ultima istanza sono state le sue decisioni politiche che più hanno spaventato i suoi oppositori. E mentre al cospetto dei Romani le questioni culturali risultavano del tutto subordinate rispetto a quelle politiche e militari, non si può dire la stessa cosa dei sacerdoti giudaici, per i quali i due poteri, politico e religioso, erano concentrati nelle stesse mani, nella maniera più integralistica possibile.

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6.11.3) Ruolo e personalità del Cristo

Gesù non era un rabbino, non era iscritto a nessun “partito di Dio”, non ha mai cercato di far parte del Sinedrio. Non frequentava le sinagoghe, se non quella di Cafarnao, da cui però era stato subito espulso. Scribi e farisei l’avvertivano come un avversario pericoloso e minacciavano di scomunicare chiunque lo riconoscesse come “messia”. Anziani, sadducei e sommi sacerdoti lo volevano morto. Di “religioso”, in sostanza, non aveva nulla, tant’è che alla samaritana disse che pregare Dio nel Tempio o sul monte Garizim non sarebbe servito a niente per liberare la Palestina dai Romani.

A causa di questa indifferenza per le questioni religiose, che arrivava fino a considerare di natura divina tutti gli esseri umani, a volte ha rischiato d’essere linciato. Ritiene sostanzialmente superata la legge di Mosè. Rifiuta il maschilismo ebraico, anche se si è impegnato a non sposarsi finché non avesse adempiuto il proprio voto di nazireato, che fece insieme al Battista, di cui condivideva il comunismo essenico, anche se gli sembrava molto limitativo il rito del battesimo. Non lo si vede mai pregare nel Tempio o praticare i consueti rituali di purificazione o di digiuno. E non fa dei precetti alimentari una questione dogmatica. Anzi dal Tempio cerca di cacciare i sadducei, senza però riuscirvi per colpa del mancato appoggio dei farisei (di questo Nicodemo si scuserà).

Il Pater non può essere una sua preghiera, perché parla di “regno dei cieli” e rappresenta un Dio onnipotente e onnisciente, nei cui confronti l’uomo è una nullità. In presenza di bisogni concreti (come la fame o l’assistenza ai malati) non si opponeva alla violazione del sabato, ch’era uno dei precetti fondamentali della Torah. Quando partecipa alle feste di precetto, a Gerusalemme, ne approfitta per discutere di politica coi maggiori partiti. Non ha mai accettato nessun titolo religioso o teologico-politico. Non pone alcuna difficoltà a riconoscere la grandezza morale di persone lontane dal giudaismo, tant’è che va a cercare consensi nella Decapoli e nella Fenicia, e nell’ultima Pasqua alcuni Greci vogliono parlare con lui.

Il fatto che conoscesse bene le Scritture appariva come un’anomalia, poiché l’interpretazione ufficiale, rigorosa, dei sacri testi era riservata a un personale specializzato, che aveva dovuto subire esami su esami per poter svolgere il proprio ruolo. E lui non aveva fatto un percorso specifico in questa direzione. Infine non fa dei legami di sangue una questione di principio, tant’è che oppone ai parenti più stretti i discepoli che lo seguivano e sulla croce affida sua madre vedova al discepolo prediletto, che non era suo parente.

Tutto questo appare abbastanza evidente soprattutto nel I e nel IV vangelo, anche se gli evangelisti (canonici e apocrifi) fan di tutto per trasformare il Gesù politico in un Cristo teologico, il Gesù della storia in un Cristo della fede. Lo fanno entrare a Gerusalemme non per vincere ma per perdere, per farsi immolare, non per occupare la fortezza Antonia, cacciando la guarnigione romana e compiendo una insurrezione nazionale.

L’idea petrina che la sua morte sia stata necessaria, voluta dalla prescienza divina, per dimostrare l’impotenza umana, fu profondamente sbagliata. Così come lo fu l’idea paolina di considerare Gesù l’unigenito figlio di Dio in via esclusiva, che sarebbe tornato alla fine dei tempi per giudicare l’intero genere umano. L’unico elemento che poteva far pensare che in Gesù Cristo vi fosse qualcosa di poco chiaro non furono certo i miracoli (poiché non ne fece alcuno, a meno che non si vogliano far rientrare alcune guarigioni nella psicopatologia), ma fu la stranezza della tomba vuota e il lenzuolo funebre trovato al suo interno, le cui macchie effettivamente risultavano inspiegabili. Ciò tuttavia non autorizzava a sostituire l’obiettivo politico dell’insurrezione con la tesi mistica della resurrezione. È stato un errore dare più peso a ciò che fece da morto, dimenticando quel che fece da vivo.

Scrive, a tale proposito, C. H. Dodd: “L’idea che l’imponente edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme piramide posta in bilico su un fatto insignificante è certamente meno credibile dell’affermazione che l’intero evento – e cioè il dato di fatto più il significato a esso inerente – abbia realmente occupato un posto nella storia paragonabile a quello che gli attribuisce il Nuovo Testamento”.32 Il problema però è un altro: perché l’idea di “resurrezione” è stata usata contro quella di “insurrezione”? Non potevano marciare sullo stesso binario? Se si sospettava che, parlando di “resurrezione”, il movimento nazareno sarebbe stato indotto a rinunciare all’“insurrezione”, perché si è continuato a farlo? Insomma, la verità della storia non può essere decisa dalla tradizione storica che si è tramandata, poiché potremmo essere in presenza di una solenne mistificazione.

*

Forse sarebbe meglio dire che Gesù, pur non attribuendo a se stesso l’appellativo di “rabbì” (maestro), di fatto non lo rifiutava (Gv 1,38; 3,2), né rifiutava quello, ancora più confidenziale, di “rabbunì” (mio maestro, in Gv 20,16 e Mc 10,51). Anche il Battista viene chiamato “rabbì” dai suoi discepoli (Gv 3,26).

Tuttavia un rabbino nel mondo ebraico era un esperto di Sacre Scritture, non necessariamente un politico. Invece Gesù raramente lo si vede discutere di esegesi o di ermeneutica. Quindi è da escludere che si considerasse un intellettuale accademico o che avesse fatto valere l’appartenenza a una qualche scuola rabbinica. Al massimo mostrava d’aver simpatizzato per il movimento del Battista (di cui sfrutterà i nascondigli ogniqualvolta era ricercato dalla polizia giudaica). Oppure chiedeva di mettere in pratica, cum grano salis, l’insegnamento dei farisei (Mt 23,2s.), che evidentemente considerava superiore a quello dei sadducei e persino a quello degli esseni, che, a causa del loro autoisolamento, non li reputava come un modello da imitare.

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6.11.4) I titoli plausibili del Cristo

Non ci vuol molto a capire che quando nei vangeli canonici definiscono Gesù come “figlio di Davide”, intendono qualcosa di politico.33 Anche quando lo definiscono come “messia”. Nell’antico Israele venivano “unti”, cioè resi “messia”, re, sacerdoti e profeti (1Sam 16,13; Es 29,7; Is 61,1). Quando Maria, sorella di Lazzaro, unge Gesù, evidentemente lo considerava un messia politico.

Più ambiguo è il titolo di “figlio dell’uomo”, poiché, per quanto, in definitiva, voglia dire soltanto “uomo”, restava pur sempre una definizione dal sapore profetico, che poteva essere usata in chiave politica. Sia Ez 11,2s. che Dan 7,13s. Attribuiscono a quel titolo una connotazione messianico-escatologica, tant’è che viene ripreso da Ap 1,13. In un certo senso anche molti esegeti moderni che negano al Cristo il lato politico-eversivo, tendono a racchiudere i due termini “figlio di Davide” e “figlio dell’uomo” in un involucro mistico di tipo escatologico (o enochico), tutto proiettato in un futuro indeterminato.

Non credo comunque che la differenza tra “figlio di Davide” e “figlio dell’uomo” fosse relativa al tempo storico di riferimento: come certezza del presente o speranza del futuro. Di sicuro Gesù non apprezzava il titolo di “figlio di Davide”, troppo connotato in senso teopolitico. E non siamo neppure sicuri che avesse scelto per sé il titolo di “figlio dell’uomo”. Non è da escludere che gli evangelisti abbiano optato, inizialmente, per questo titolo con l’intento di spoliticizzare il suo messaggio. A loro target di riferimento doveva risultare pacifico che Gesù “figlio dell’uomo” non poteva svolgere un’attività politica analoga a quella che avrebbe dovuto svolgere se avesse accettato il titolo di “figlio di Davide”. La sua vera politicità, nell’ottica dei vangeli, si sarebbe manifestata solo alla fine dei tempi, quando sarebbe tornato a giudicare i vivi e i morti.

Il problema però è che Gesù voleva davvero fare l’insurrezione nazionale antiromana. Quindi in che modo avrebbe potuto sottrarsi a una possibile strumentalizzazione teologica del titolo politico di “figlio di Davide”? Dicendo semplicemente che i suoi antenati non discendevano dal re Davide? Ma quando mai gli ebrei collegavano la figura del messia e una precisa genealogia? I giudei ortodossi al massimo guardavano quella dei sommi sacerdoti (sempre che fossero politicamente liberi di farlo). Quelle elaborate da Matteo e Luca sono completamente inventate (come lo è l’idea lucana che Giuseppe fosse della casa di Davide). Le genealogie sinottiche sono state messe in funzione antisemitica, cioè per far vedere che gli ebrei, nonostante avessero a che fare con un soggetto che aveva tutti i titoli per diventare un loro leader, lo eliminarono ugualmente.

Per me Gesù aveva solo un modo per far capire che non aveva alcuna intenzione di apparire come un messia davidico: evitare di compiere un colpo di stato, imponendosi con la sola forza militare del suo discepolato.34 A Gerusalemme entra in groppa a un asino, non a un cavallo, e il suo “esercito” non era composto da militari di professione, ma da volontari di provenienza popolare (“tutto il mondo gli va dietro”, Gv 12,19), che si erano armati (una spada in cambio del mantello, Lc 22,36) solo per difendersi.

Nella capitale era entrato con l’obiettivo di occupare il Tempio per cacciarne i sadducei, e la fortezza Antonia per cacciarne i Romani: qualunque altra motivazione non avrebbe avuto alcun senso, proprio perché non era andato per farsi ammazzare. Solo che non avrebbe cercato di conseguire il suo fine senza il consenso popolare, anche perché sarebbe stato impossibile affrontare l’inevitabile ritorsione delle legioni romane. La sua voleva essere un’insurrezione democratica, in cui le differenze religiose e i conseguenti stili di vita venissero momentaneamente accantonati, al fine di realizzare un obiettivo eminentemente politico. Se non riuscì nell’impresa, non fu perché la strategia era sbagliata, ma perché gli interlocutori del mondo ebraico diedero più peso all’ideologia, all’interesse di partito, alle rivalità non solo interpartitiche ma anche interetniche.

L’idea di democrazia non fallì nel movimento nazareno, ma nei suoi alleati, che ad un certo punto vennero meno agli impegni presi. Senza questi impegni di sicuro il Cristo non sarebbe entrato in pompa magna a Gerusalemme, mettendo a repentaglio la vita dei suoi seguaci. Al cospetto dei Romani, che avevano l’esercito più forte del mondo, non era proprio il caso di giocare a fare il “rivoluzionario”. Tutti gli avvenimenti successivi alla crocifissione, fino alla disfatta definitiva del 135, rimasero condizionati dal particolarismo ideologico e regionale che i Romani seppero sfruttare magnificamente.

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6.12) Quale tipologia politica nel Cristo?

A essere onesti dovremmo dire che ormai non è più in questione il Cristo politico ma il tipo di politicità che professava. Gli esegeti contemporanei laici o aconfessionali non si sognano neanche lontanamente di ribadire le tesi della teologia paolina. Se lo fanno è perché sono ingenui o in malafede. Ma l’ingenuità non si addice a un intellettuale. Dopo quasi tre secoli di esegesi critica, è normale essere disincantati rispetto alla rappresentazione evangelica di Gesù Cristo, anche se non ha senso arrivare alla conclusione ch’egli non sia mai esistito.

Non val la pena discutere con chi crede nel Cristo teologico, poiché gli mancano i presupposti minimi per capirlo. Continuerà a ribadire delle tesi superatissime. Invece noi abbiamo bisogno di capire che tipo di posizioni “laiche” aveva il Cristo nei confronti dell’etica in generale (che include anche la religione) e nei confronti della politica, riguardante sia le istituzioni ebraiche che quelle romane.

Se accettiamo solo un Cristo “politicamente” eversivo nei confronti della gestione del Tempio e del Sinedrio, avremo un Cristo “riformista”, che non esce dall’ambito della teologia ebraica; avremo un Cristo idealista o spiritualista, virtuoso come il Battista. Questo è però il Cristo dei vangeli, con in più, rispetto al Battista, l’idea cristiana di “identità divina” in via esclusiva, appartenente solo a lui, quella che gli avrebbe permesso di “incarnarsi” e di “risorgere”, nonché di compiere miracoli straordinari e naturalmente di considerarsi figlio unigenito di Dio-padre, cioè di potersi identificare con lui, senza che potesse farlo nessun altro.

Se invece accettiamo l’idea di un Cristo politicamente eversivo nei confronti dei Romani, il quadro cambia completamente: da riformista diventa rivoluzionario, da teologico (o teopolitico) diventa politico tout-court.

E le domande inevitabili, cui bisogna cercare di dare delle risposte, sono le seguenti: Cristo era sostanzialmente (in ultima istanza) uno zelota o no? Fu crocifisso con due zeloti perché anche lui lo era? Furono gli zeloti, 30 anni dopo la sua morte, a realizzare gli obiettivi della sua strategia politica? Oppure, se davvero loro l’avessero realizzata, i Romani sarebbero stati sconfitti?

In altre parole, visto come sono andate le cose, se i Romani non l’avessero giustiziato, dandogli tempo e modo di restare coerente coi suoi propositi, il risultato della strategia eversiva del Cristo sarebbe stato analogo a quello disastroso degli zeloti nella prima guerra giudaica? Dunque dobbiamo pensare che la crocifissione gli ha risparmiato una cocente delusione politica, financo una catastrofica sconfitta militare? Pilato l’ha forse fatto diventare un eroe nazionale o un martire universale, malgrado le intenzioni dell’uno e dell’altro? Insomma, perché Gesù Cristo non può essere considerato un capo zelota? Qui occorre stare attenti alla risposta che si dà, poiché si rischia di finire subito col ripetere le tesi teologiche dei vangeli, per le quali nessuna liberazione politica è possibile su questo pianeta.

Dopo essere entrato a Gerusalemme nella sua ultima pasqua, cosa ha fatto Gesù nei cinque giorni che precedono la sua cattura? Perché non ha occupato la fortezza Antonia, come fecero gli zeloti 30 anni dopo? I Sinottici dicono che “purificò” il Tempio. Ma la versione che danno di questo evento è completamente sbagliata e tendenziosa: sia cronologicamente, in quanto l’evento avvenne all’inizio della carriera di Gesù (come vuole il IV vangelo) e non alla fine; sia politicamente, in quanto non si trattò di una semplice “purificazione morale” (o simbolica), ma del tentativo (fallito) di estromettere i sadducei dalla gestione corrotta della risorse del Tempio.

Quando gli zeloti entrarono a Gerusalemme, nel 66, occuparono sia il Tempio che la fortezza Antonia. Eliminarono la guarnigione romana e assassinarono il sommo sacerdote Anania. Per quale motivo Gesù non fece la stessa cosa col suo movimento? La sua popolarità era enorme: perché non la usò con la medesima risolutezza? Che cosa gli avrebbe potuto impedire di vincere la guerra contro i Romani e i collaborazionisti interni? Qui è sul concetto di democrazia che bisognerebbe discutere, proprio perché sulla carta i numeri c’erano: 6.000 farisei, 4.000 esseni di cui circa 150 a Qumran, 5.000 Galilei disposti a farlo diventare re, più i Samaritani che lo considerano “Salvatore del mondo”, senza parlare del movimento nazareno, la cui entità non doveva essere indifferente, visto che i farisei esclamano, subito dopo l’ingresso messianico: “Ecco che il mondo gli è andato dietro” (Gv 12,19). Erano forze sufficienti per vincere, anche perché ad esse si sarebbero unite quelle della diaspora.

A questo punto forse sarebbe meglio dire che non hanno vinto i Romani ma han perso gli ebrei, per colpa delle loro rivalità interne, per lo più etniche e ideologiche.

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6.12.1) Un Cristo politico nelle tradizioni giudaiche

Non so come si possa pensare a un Cristo pacifico a oltranza, a un messia itinerante di tipo meramente spirituale in una terra come la Palestina che non si piegava mai a poteri diversi da quello ebraico, se non temporaneamente, in attesa di trovare forze sufficienti in grado di ribellarsi all’oppressore. Un Cristo indifferente alla politica non avrebbe potuto avere molti seguaci.

In Palestina gli ebrei non tolleravano per nulla la cultura ellenistica dei Seleucidi del III-II sec. a.C. Riuscirono obtorto collo a sopportare l’ellenismo dei Tolomei d’Egitto, i quali, pur avendo occupato la Giudea, si mostrarono tolleranti in materia religiosa. I veri problemi cominciarono a sorgere quando i Seleucidi di Siria e Mesopotamia ebbero la meglio sui Tolomei. All’inizio anche i Seleucidi di Antioco III promisero di rispettare le tradizioni ebraiche, ma dopo essere stati seriamente ridimensionati dai Romani, con Antioco IV Epifane si rimangiarono tutte le promesse e divennero particolarmente intolleranti.

I Seleucidi avevano una cultura ellenistica di alto livello, ma solo le frange ebraiche più aristocratiche la condividevano: il popolo la rigettava. L’ellenizzazione forzata voluta da Antioco IV, con cui si voleva abolire il sabato, la circoncisione, il calendario, le feste, imponendo sacrifici idolatrici e persino il culto di Zeus, fu una politica disastrosa, che fece scoppiare la guerra maccabaica.

Fu proprio durante quella guerra che pose radici un movimento di ebrei radicali, più tardi chiamati “zeloti”, che non si limitarono a combattere gli ellenisti, ma, successivamente, presero a farlo anche coi Romani e coi sovrani erodiani collaborazionisti.

L’operato del Cristo si situa in un percorso resistenziale ebraico che inizia con la rivolta maccabaica, anche se, a partire da questa guerra, entra in scena un nuovo nemico per Israele: l’impero romano. Nei confronti di questo nemico è però assurdo pensare che la ferma opposizione ebraica alle influenze pagane non avrebbe potuto avere alcuna possibilità di successo. Le legioni romane non erano affatto invincibili: lo dimostrano le grandi disfatte di Carre contro i Parti e di Teutoburgo contro i Germani. E il Vallo di Adriano nella prima metà del II sec.? Cos’avevano gli Scozzesi di più dei Giudei? E la guerra dei Maccabei contro i Seleucidi? Per vincere avevano forse chiesto aiuto alle legioni romane? Neanche una volta.

È oltremodo assurdo pensare che il Cristo non avesse nulla di politico proprio perché i Romani apparivano invincibili sul piano militare. Chi assume una visione così rassegnata delle cose è perché la nutre anche nei confronti delle ingiustizie del proprio presente. Chi proietta nel passato un proprio disagio esistenziale, inevitabilmente è portato a rifiutare qualunque resistenza di tipo politico e a rifugiarsi in esperienze che si limitano al sociale, al culturale, all’etica, alla fede religiosa o alla spiritualità, che pur, a loro modo, possono anche essere importanti, anche se non decisive.

Infine dobbiamo smettere di pensare, alla luce del successo del cristianesimo tra la cultura pagana, che sia gli ellenisti sia i Romani, consapevoli della forza della loro cultura, avevano tutte le ragioni d’imporsi su quella ebraica, da loro giudicata negativamente, come qualcosa di primitivo, che poteva andar bene al tempo di Mosè e dei Patriarchi o, al massimo, al tempo dei re Davide e Salomone, ma che, dopo la distruzione dei loro regni, non aveva più ragione d’esistere.

In realtà la cultura ebraica, soprattutto quella giudaica, non aveva nulla da invidiare a quella pagana, benché questa fosse capace di produrre grandi opere architettoniche (a titolo propagandistico), grandi scambi commerciali e diffondere, in nome del dio denaro, uno spirito universalistico di appartenenza al mondo.

Il paganesimo dimostrava sicuramente d’essere una grande cultura non solo sul piano del diritto e della filosofia, ma anche su quello teatrale, narrativo, mitologico, artistico..., ma dimostrava anche una grande corruzione sul piano morale, una insopportabile incoerenza tra princìpi etico-giuridici e realtà fattuale, una violenza inusitata sul piano militare e nei rapporti interpersonali e soprattutto un vergognoso disprezzo per i ceti subalterni.

In realtà l’unica vera domanda che ci si deve porre è la seguente: in che cosa la politicità del Cristo si differenziava da quella zelotica (dominante in Galilea) e da quella farisaica (dominante in Giudea)? Per quanto strano sia, essendo un concetto dibattuto soprattutto nel mondo greco, la risposta sta nel modo di rappresentarsi l’idea di democrazia.

Noi occidentali siamo abituati a pensare alla democrazia come a qualcosa di formale, in quanto meramente politica, dove in parlamento si scontrano maggioranza e opposizione. Non abbiamo mai la percezione che la politica possa davvero risolvere le ingiustizie sociali, i problemi economici della gente comune. Per credere in questo ci vogliono delle rivoluzioni popolari o dei colpi di stato militari, che però sono molto rari nei Paesi economicamente avanzati.

In genere ci accontentiamo di non subire troppo le conseguenze dello scontro tra gli interessi contrastanti delle varie élites al potere. Cerchiamo di votare questo o quel partito (o coalizione) che ci appare meno peggio di altri. Per votare sempre lo stesso partito dobbiamo avere delle convinzioni di tipo ideologico.

Se Gesù Cristo avesse avuto una tale concezione della politica, avrebbe cercato di far parte del Sinedrio. Invece la sua idea di democrazia prevedeva uno stretto legame coi bisogni sociali, quei bisogni che nei vangeli non appaiono esattamente per quello che sono, ma vengono mistificati dietro i racconti di guarigioni miracolose di malattie incurabili.

Il rapporto organico che il movimento nazareno aveva con le masse diseredate, emarginate, oppresse dai poteri dominanti, doveva essere finalizzato a un riscatto collettivo di tipo politico, e non tanto a soddisfare esigenze individuali di tipo fisico (medico-sanitario). È assurdo pensare che i 5.000 Galilei che sul Tabor gli chiesero di diventare re e di marciare su Gerusalemme, fossero tutti risanati da qualche grave malattia. Nel IV vangelo vengono definiti “un gregge senza pastore”, cioè una popolazione sofferente a causa delle ingiustizie sociali, che aveva bisogno di una guida per potersi riscattare, per compiere un’insurrezione nazionale.

*

Gesù Cristo nasce in un periodo in cui le sollevazioni contadine contro il regime erodiano-romano, successivo alla morte di Erode il Grande, erano all’ordine del giorno in Giudea, Galilea e Perea. Lo dice Giuseppe Flavio. Quindi non si capisce perché i pochi riferimenti che nei vangeli indicano qualcosa di politico (p.es. il tentativo di occupare il Tempio, o il fatto che 5.000 Galilei volessero farlo diventare re, o l’esultanza dei Samaritani a considerarlo il “Salvatore del mondo”, o anche il fatto che il movimento nazareno fosse entrato armato nell’ultima pasqua, o che Pilato avesse deciso di crocifiggerlo dopo un apparente regolare processo) debbano essere considerati come un’eccezione nella vita del Cristo e non come la regola di un movimento rivoluzionario, intenzionato a compiere un’insurrezione nazionale. Viene anzi da pensare che nella realtà vi siano state molte più “anomalie” di tal genere.

Soprattutto non si capisce una cosa: noi siamo soliti dare per scontato che il disprezzo nutrito da Giuseppe Flavio nei confronti degli zeloti e di altri movimenti eversivi, l’ha portato a raccontare i fatti storici in maniera tendenziosa, favorevole alla narrativa dei conquistatori romani; ebbene, per quale ragione dobbiamo invece credere che gli evangelisti non siano caduti nello stesso limite parlando di Gesù Cristo e del movimento nazareno? Cioè per quale motivo la trasformazione del Cristo politico in un Cristo teologico va considerata una tesi arbitraria, visto che nella Palestina di duemila anni fa – a detta dello stesso Giuseppe – le azioni eversive compiute dai principali movimenti politici erano innumerevoli? Semmai il vero problema è un altro: come mai in questi movimenti, per lo più di origine contadina, era così scarsa un’organizzazione centralizzata? Cioè perché era così forte la loro frammentazione?

Se fosse vera la tesi secondo cui l’evento di Gesù Cristo non può essere situato in un filone politicamente ribellistico, non si capisce il motivo per cui egli abbia cercato di occupare il Tempio, all’inizio della sua predicazione, e tanto meno il motivo per cui abbia voluto entrare a Gerusalemme con un grande seguito popolare nella sua ultima pasqua. Se voleva farsi ammazzare contestando i gestori del Tempio e inveendo contro i Romani, acquartierati nella fortezza Antonia, sarebbe stato sufficiente entrare da solo nella capitale o con pochi seguaci, votati come lui al martirio.

Viceversa, il fatto che avesse predisposto accuratamente un ingresso sicuro nella città, lascia pensare ch’egli non avesse alcuna intenzione di uscire sconfitto dal confronto con le autorità costituite. E che questo confronto fosse di natura politica e militare è dimostrato in maniera inequivocabile dal fatto che al momento dell’arresto sul Getsemani era presente l’intera coorte romana guidata dal suo tribuno. È impossibile che questo contingente militare non fosse stato mandato da Pilato in previsione di uno scontro armato contro i seguaci del movimento nazareno, di cui ovviamente si dovevano conoscere le intenzioni eversive e la disponibilità a usare le armi.

Semmai ci si dovrebbe chiedere come sia stato possibile che la strategia rivoluzionaria del Cristo sia stata bloccata dal solo tradimento di Giuda. È evidente che qualcos’altro doveva essere successo. Altre intese o alleanze erano saltate: probabilmente si tradì un patto stabilito a Betania tra i nazareni e i farisei. Cioè qui le alternative non sono molte: o hanno tradito gli zeloti o i farisei, oppure entrambi i movimenti. Ora, siccome è più probabile che Gesù sia entrato a Gerusalemme con uno stuolo di zeloti e di affiliati direttamente al suo movimento, per lo più provenienti dalla Galilea, si può ragionevolmente pensare, con buona approssimazione, che furono i farisei della capitale a tradire, almeno nella fase iniziale del tentativo insurrezionale, che doveva compiersi di notte. E quindi che Giuda, prima di entrare nel movimento nazareno, era stato un seguace dei farisei, ed era stato lui a contattarli su richiesta di Gesù (“Quello che devi fare, fallo presto”), al fine di sapere se erano pronti a occupare la fortezza Antonia e il Tempio.

Ma se sono stati i farisei a tradirlo, si può spiegare il motivo per cui il loro partito si scisse in due parti: una al seguito di Pietro e soprattutto di Paolo; l’altra intenzionata a far scoppiare una guerra antiromana nel 66 insieme agli zeloti e agli esseni. I farisei sopravvissuti posero le basi del nuovo ebraismo, quello che poi si è ereditato in tutto il mondo.

Tuttavia durante il processo e subito dopo l’esecuzione capitale sono stati gli zeloti a tradire, in quanto non han fatto nulla né per liberarlo, né per proseguire l’obiettivo insurrezionale.

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6.12.2) Discepoli analfabeti al seguito di Gesù?

Spesso si sostiene che gli apostoli (con esclusione di Matteo e Giuda, i due “economisti”) fossero persone ignoranti o senza una vera cultura, come gran parte della popolazione d’allora, per lo più di origine contadina. E che quindi una rivoluzione vera e propria non avrebbe mai potuto essere fatta.

Ho sempre nutrito dubbi su questa tesi. Erano forse ignoranti i farisei, i sadducei, gli esseni, gli zeloti? Non pare davvero. Perché dobbiamo pensarlo degli apostoli? Non facevano forse parte del “popolo del libro”? Le sinagoghe non erano forse un luogo di pubblica discussione su tutta la loro letteratura più antica? I discorsi di Pietro nella prima parte degli Atti degli apostoli sono forse quelli di un analfabeta? Ci sono apostoli, come p.es. Filippo, che conoscono il greco. Andrea e Giovanni frequentavano gli esseni e il Battista, e quest’ultimo era in grado di sostenere pubblici dibattiti con chiunque. Con alcuni apostoli Gesù si reca in Fenicia, dove non è detto parlassero l’aramaico. Pietro, Giacomo e Giovanni sembra che nei Sinottici costituiscano un’élite a parte, separata dal resto degli apostoli.

Certo, una rivoluzione antiromana avrebbe potuto farla un popolo di analfabeti, ma poi, in caso di vittoria, come avrebbero fatto a gestirla? In genere la classe contadina vive a rimorchio dei rivoluzionari, esegue gli ordini, combatte in prima linea, sopporta qualunque sacrificio, ma non dispone di uno sguardo d’insieme, non ha l’intelligenza delle cose, proprio perché è troppo vincolata dalle necessità economiche. Perché un contadino diventi un intellettuale, deve emanciparsi dalla sua condizione sociale. Che armi culturali avrebbero potuto usare dei dirigenti analfabeti contro il diritto romano, la filosofia stoica ed epicurea, le tradizioni ellenistiche, le religioni pagane, la letteratura del mondo greco-romano? Non basta vincere politicamente e militarmente.

Il fatto che alcuni apostoli facessero i pescatori cosa significa? Che non potevano frequentare alcuna sinagoga? Che non sapessero né leggere né scrivere? Anche Gesù era un carpentiere o un falegname, ma chi avrebbe avuto il coraggio di dire ch’era privo d’istruzione?35 Con quali argomenti si possono infiammare le folle se non si sa parlare? La stragrande maggioranza delle controversie avviene tra lui e i farisei, il partito degli intellettuali per antonomasia.

Il fatto stesso che i vangeli siano pieni di guarigioni miracolose e di rappresentazioni mistiche (surreali) del Cristo non significa affatto che i loro autori fossero ingenui, privi di cultura, superstiziosi... Nelle loro fantasie religiose hanno creduto, in 2000 anni storia del cristianesimo, eminenti studiosi, molto più acculturati di loro. Se oggi vi si crede molto meno, non è perché sia aumentata la cultura (cosa che in sé non vuol dire proprio nulla), ma perché è diminuita la fede; e diminuendo questa, la cultura ha cominciato a interpretare i vangeli in maniera diversa, più laica e disincantata. Le prime interpretazioni eversive dei vangeli avvengono sotto il capitalismo, un sistema di vita che ha distrutto completamente il feudalesimo e la sua cultura religiosa di tipo cattolico.

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6.12.3) La fine del Cristo politico

Se Cristo fosse stato un galileo, avrebbe aderito più facilmente all’ideologia politica degli zeloti. Quella era una regione di combattenti, timorosi di nulla.

Ma bisogna ammettere che anche la Giudea non era da meno. Farisei e zeloti non erano certo partiti che si facevano intimorire da qualcuno.

Anche a livello istituzionale, la corruzione degli erodiani e quella dei sadducei (e anziani) era abbastanza equivalente: la collaborazione coi Romani era palese in entrambi i gruppi di potere.

Tuttavia, secondo me il Cristo era più vicino, sul piano etico, al movimento battista e, sul piano politico, a quello farisaico che non a quello zelotico, anche se il fallimento della prima insurrezione, quella contro il Tempio, lo costrinse a emigrare dalla Giudea e a rifugiarsi in Galilea, dove in un primo momento gli zeloti lo accolsero a braccia aperte (e anche i Samaritani in Samaria).

Penso che gli zeloti avessero un gran peso in Palestina, tant’è che saranno loro a scatenare la guerra del 66-70. E tutti loro ambivano a considerarsi “messia d’Israele” e a pretendere un’investitura regale.

Noi naturalmente non sappiamo se il titolo posto sulla croce di Gesù avrebbe potuto essere messo anche sulla croce degli altri due zeloti giustiziati con lui. Quello era un titolo altisonante, che doveva attestare in maniera univoca la motivazione della condanna. Sarebbe bastato mettere “sedizioso”, “ribelle”, “sovversivo” o anche semplicemente “assassino” per ottenere una condanna analoga, se non si fosse posseduta la cittadinanza romana. Invece Pilato volle proprio far scrivere “re dei Giudei” e in ben tre lingue (Gv 19,20)! Come se Gesù avesse preteso di realizzare una monarchia!

Quindi qui bisognerebbe dare per scontato che se anche Gesù gli avesse detto che non era un leader politico e che il suo regno era ultraterreno, Pilato, di fatto, non credette neanche a una sola parola.

Furono però i sacerdoti a contestare il prefetto. Infatti, pur essendo stati loro a consegnarglielo, pretendevano che scrivesse: “Io sono il re dei Giudei” (Gv 19,21). Cioè volevano che fosse chiaro al popolo che loro non avevano chiesto l’esecuzione capitale di un “vero” re dei Giudei (ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων), ma solo di un impostore, un millantatore. Non volevano passare per collaborazionisti, anche se di fatto lo erano. Ma Pilato si rifiutò di cambiare l’intestazione, poiché voleva far capire ai Giudei che chi pretende di opporsi a Cesare, avrebbe fatto quella fine. Inoltre Pilato, mettendo un titolo del genere, mostrava d’essere assolutamente convinto che Gesù era davvero titolato a rivendicare una pretesa del genere, avendo acquisito una popolarità fuori del comune. In tal senso però l’iscrizione avrebbe dovuto essere intesa, al massimo, come una mera “intenzione” del condannato non come una “constatazione di fatto”. Forse per questo sarebbe meglio dire ch’essa serviva, più che altro, come una semplice descrizione a fini identificativi.

Gesù non voleva diventare un monarca, anche se ambiva a porsi come leader di un movimento politico di liberazione nazionale. E chi lo conosceva bene, sapeva quali erano i suoi obiettivi.

Detto questo, appare piuttosto strano che un esegeta come Francesco Esposito, nel libro Il Cristo illegittimo (UnoEditori 2018), si permetta di affermare che “quel carattere rivoluzionario colmo di zelo che doveva salvare il popolo ebraico dal giogo straniero, fu l’unico elemento che lo portò definitivamente alla rovina” (p. 40).

Si potranno discutere i mezzi e i modi di un’insurrezione popolare; si potranno fare obiezioni su tattiche e strategie, ma è vergognoso sostenere che la sconfitta militare nei confronti dei Romani è stata la conseguenza di un’istanza di liberazione che si giudica insensata.

Semmai era un’altra la cosa da discutere: gli zeloti avevano più speranza di vincere limitando la loro battaglia alla sola Galilea, oppure cercando alleati anche fra i Giudei e i Samaritani? Gli eventi dimostrarono che la strategia di Gesù era più indovinata: nel senso che se non fosse stata tradita, molto probabilmente avrebbe avuto successo.

Se guardiamo i tentativi insurrezionali degli zeloti, non troviamo dei traditori che han determinato, in maniera decisiva, la loro sconfitta politica e militare, almeno non in maniera superiore a quanto ha dimostrato l’incapacità ad affrontare con lungimiranza e avvedutezza i poteri costituiti. Gli zeloti apparivano dei dilettanti persino a confronto dei Maccabei.

Quando il movimento nazareno entrò a Gerusalemme durante l’ultima pasqua, l’establishment giudaico e romano fu colto del tutto impreparato e rimase come paralizzato, incerto sul da farsi. “Tutto il mondo gli va dietro” (Gv 12,19), esclamano i nemici di Gesù. Ci voleva giusto un traditore tra i discepoli più fidati per mandare a monte una strategia così ben calcolata.

Peraltro la superiorità dei nazareni rispetto agli zeloti è attestata anche dal fatto che, nonostante la sconfitta del Cristo e tutte le forme del revisionismo della teologia petro-paolina, che lo trasformò da leader politico a leader religioso, il movimento continuò a esistere imperterrito, a dispetto di qualunque persecuzione, giudaica o romana che fosse. Lo stesso non si può dire degli zeloti: una volta ucciso il capo, i seguaci si disperdevano subito.

Ciò porta a pensare che Gesù non fosse solo un leader politico, ma anche un soggetto con idee innovative a tutto raggio. Il suo obiettivo non era tanto quello di riportare Israele allo splendore dei tempi di Davide e Salomone, ma di riprogettare lo stile di vita ebraico, rendendolo più laico e umanistico, oltre che politicamente più democratico ed egualitario. Voleva creare una società libera e giusta, non una teocrazia politica come gli zeloti, che, fondamentalmente, erano degli estremisti.

*

Che gli zeloti fossero dei fanatici è attestato anche dal fatto che impedivano agli uomini di sposare donne pagane e a tutti di avere qualunque contatto coi non ebrei, e chi trasgrediva queste regole poteva anche essere giustiziato.

Non toccavano le monete straniere, per cui per loro era impossibile commerciare al di fuori della Palestina o coi gentili. La circoncisione era assolutamente obbligatoria per poter accedere al Tempio e per partecipare alle principali feste religiose. Potevano uccidere senza tanti problemi i pagani che avessero oltrepassato il confine del cortile del Tempio destinato solo a loro. Erano quindi fortemente nazionalisti, settari e ideologici.

Menahem nel 66 s’incoronò da solo come messia davidico nel Tempio e fu ucciso da un rivale del suo stesso partito.

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6.12.4) Un Cristo galileo diventa zelotico

Quanto più si attribuisce al Cristo un’origine galilaica, tanto più si tende a equipararlo a un leader zelota. Il che è sbagliato, poiché Gesù rifiutò l’estremismo zelota sul monte Tabor, quando in 5.000 volevano farlo diventare re al fine di occupare Gerusalemme, cacciando i sadducei dal Tempio e i Romani dalla Palestina.

Gesù si rifugiò in Galilea solo dopo il fallito tentativo di occupare il Tempio (secondo la cronologia giovannea, molto più affidabile di quella marciana), e non tornò più in Giudea, se non in occasione di qualche festa, protetto dai discepoli, o in veste privata. Quando vi tornerà, nell’ultima pasqua, l’ingresso doveva essere trionfale, con uno stuolo significativo di seguaci armati, altrimenti l’avrebbero arrestato subito. E vi entrò con l’intenzione di occupare la fortezza Antonia, non solo il Tempio.36

Lui era un giudeo al 100%: da parte di madre di sicuro, poiché aveva Giovanni Battista come cugino, e probabilmente anche da parte di padre. In ogni caso agli ebrei interessava il legame di sangue materno per poter attribuire un’origine ebraica pura. Anche la samaritana, sentendolo parlare, gli riconosce una provenienza giudaica. Il che ovviamente non vuol dire che sia nato a Betlemme, poiché i racconti natalizi sono puramente leggendari.

Quindi tutti i riferimenti evangelici all’origine galilaica del Cristo sono inventati, e il motivo di ciò si spiega col fatto che i testi si ponevano in una maniera nettamente antigiudaica. Nel senso che i redattori attribuiscono ai Giudei (senza fare distinzioni tra popolo e autorità e neppure tra un partito e l’altro) la causa principale, se non esclusiva, della condanna a morte di Gesù.

Col che non voglio dire che l’uso della violenza non sarebbe diventato inevitabile in un’insurrezione armata antiromana guidata dal movimento nazareno. La differenza tra il movimento nazareno e quello zelotico non stava nell’uso della violenza, ma nel criterio di tale uso, che negli zeloti era estremistico. Quando gli chiedono di diventare re e di marciare su Gerusalemme, lui rifiuta, poiché prima voleva un’intesa coi Giudei e non aveva alcuna intenzione di compiere un colpo di stato, né di costruire un regno teopolitico in stile davidico. L’insurrezione doveva essere popolare, altrimenti contro la ritorsione delle legioni romane stanziate in Siria avrebbero sicuramente perso. Come infatti successe nella guerra del 66-70, voluta dagli zeloti autonomamente dal consenso giudaico.

In ogni caso Francesco Esposito sbaglia completamente a sostenere che Gesù fosse un predicatore messianico “lontano da qualsiasi idea che comprendesse un qualsiasi intervento armato”.37 Nel mondo ebraico di allora non esistevano figure di “predicatori messianici” che non prevedessero una resistenza armata. Anzi, quello era un mondo che pullulava di leader politici avversi ai Romani e ai sadducei. Certo, Giovanni Battista non era armato, ma non era neppure un predicatore che girava tutta la Palestina organizzando una resistenza antiromana. Lui semplicemente si sentiva un “messia religioso”, e stava cercando un “messia politico”, ma quando Gesù gli propose di occupare il Tempio, lui rifiutò.

Bisogna smettere di sostenere che tutti gli eccessi manifestati dagli apostoli dipendevano da un certo condizionamento da parte dell’ideologia zelotica. Ci riferiamo, p.es., all’intenzione che i fratelli Zebedeo avevano di distruggere un villaggio samaritano che non li aveva accolti (Lc 9,54), o al fatto che sempre loro due pretendevano, una volta occupata la fortezza Antonia e il Tempio, d’essere considerati i principali luogotenenti del Cristo (Mc 10,35ss).

Esigere un’azione armata nel compiere un’insurrezione nazionale non significa affatto essere settari o terroristi: ci si arma quando il nemico è armato, non quando è disarmato. Questo è l’errore principale che fa Francesco Esposito. Se si esclude la lotta armata, si finisce con l’avvalorare le tesi dei vangeli canonici, secondo cui il Cristo voleva solo contrapporsi pacificamente (spiritualmente) alla gestione del Tempio da parte dei sadducei e a certe interpretazioni farisaiche della legge mosaica, nonché a certe superate tradizioni del giudaismo (la pena di morte, il sabato, i cibi impuri, le abluzioni ecc.). Anzi, se si esclude un qualunque intervento armato, non sarebbe stato possibile fare alcunché neppure nei confronti del Tempio, in quanto strettamente sorvegliato non solo dalla polizia giudaica ma anche dalla fortezza Antonia dei Romani.

Quindi alla fine si sarebbe costretti ad ammettere, cadendo in un’assurda incongruenza, che la cosiddetta “purificazione del Tempio” fu un semplice gesto simbolico compiuto da un individuo isolato: il che sarebbe falso due volte, per il carattere “simbolico” del gesto e per l’iniziativa individuale.

Peraltro non è da escludere che i fratelli Zebedeo siano stati messi in cattiva luce dai Sinottici perché notoriamente ostili alle posizioni petrine (il IV vangelo è avverso alla teologia petro-paolina).

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6.12.5) La Palestina al tempo di Gesù Cristo

La cosa più stupefacente della Palestina è che fu occupata dai Romani abbastanza facilmente, nonostante fosse una regione dove la resistenza all’ellenismo era stata molto forte al tempo dei Maccabei. Evidentemente i Giudei s’illudevano che il fatto d’essere “figli di Abramo” li avrebbe preservati dai condizionamenti ideologici o culturali di qualunque imperialismo straniero.

Praticamente i Romani si limitarono ad approfittare del fatto che gli Asmonei si erano comportati in maniera autoritaria nei confronti delle popolazioni limitrofe, le quali naturalmente arrivarono a considerare gli stessi Romani come dei “liberatori”. Ciò può apparire paradossale, ma è un classico che si ripete da quando sono sorte le civiltà schiavistiche: gli imperi subentrano ad altri imperi quando le popolazioni sottomesse a questi ultimi vedono gli altri come “liberatori”. Non ci s’impone necessariamente perché si è più forti, ma perché più astuti (basta guardare il duello tra Davide e Golia).38

Dopo la conquista della Palestina ad opera di Pompeo nel 63 a.C., i territori giudaici furono sempre, direttamente o per interposta persona, sotto il loro controllo. Cioè lo furono anche quando le guerre civili tra Cesare e Pompeo e tra Antonio e Ottaviano sconvolsero lo Stato romano sin dalle fondamenta, trasformandolo da repubblicano a imperiale. Quello fu il momento più debole per i Romani, ma gli ebrei non seppero approfittarne, poiché continuarono a massacrarsi tra fazioni rivali.

I Romani incontrarono qualche resistenza significativa solo in Galilea, ma, poiché questa regione non fu aiutata né dalla Giudea né dalla Samaria, ebbero la meglio piuttosto facilmente. Il peso eccessivo che gli ebrei davano alle questioni ideologiche fu la causa principale della loro sconfitta politica. Sia Cassio che Varo riuscirono a decimare e schiavizzare decine di migliaia di uomini, radendo al suolo intere città, con una facilità davvero disarmante.

Fu in mezzo a questa totale instabilità che presero il potere gli erodiani (originari dell’Idumea), facendo subito capire che avrebbero fatto gli interessi di Roma, pur senza violare le tradizioni giudaiche.

Erode il Grande riuscì a governare per un periodo molto lungo, dal 37 al 4 a.C., imponendo, con le sue manie di grandezza, molte tasse alla popolazione sottomessa, sostituendo buona parte dell’aristocrazia sadducea con una a lui fedele, costruendo molti edifici e fondando alcune città di stampo chiaramente ellenistico. Non incontrò mai una seria resistenza. Per due volte i farisei si rifiutarono di prestargli il giuramento di fedeltà, ma Erode non permetteva a nessuno di fare politica, sicché i farisei dovettero limitarsi a svolgere il ruolo degli intellettuali dediti alle questioni giuridico-religiose: in caso contrario venivano facilmente eliminati. Infatti i disordini scoppiarono solo dopo la morte di Erode, e fu solo a quel punto che intervennero di nuovo i Romani, suddividendo il suo regno tra i suoi figli.39

Il resto è storia. Gesù ebbe a che fare con due signori della guerra: Erode Antipa in Galilea e Perea e Ponzio Pilato in Giudea e Samaria. Se Archelao fosse stato scaltro come il fratello Antipa, la Giudea non sarebbe passata direttamente sotto i Romani. Da un lato, infatti, si sforzava di venire incontro alle esigenze di riscatto dei Giudei, che avevano patito molto sotto suo padre; dall’altro però li reprimeva subito con violenza quando vedeva che in virtù di tali rivendicazioni si creava un forte movimento oppositivo nei suoi confronti.40 Dopo neanche un decennio i Romani furono costretti a deporlo e a subentrargli con propri funzionari.

Dal 6 al 66 d.C. riuscirono a governare in Palestina senza particolari difficoltà (le legioni le tenevano in Siria), limitandosi a usare bastone e carota, cioè diplomazia e repressione. A volte cadevano in atteggiamenti provocatori (son noti quelli di Pilato), cercando d’imporre alcuni aspetti della loro cultura pagana: il politeismo e la tendenza a divinizzare gli imperatori erano degli strumenti ideologici al servizio del potere politico.

Forse il momento in cui Pilato ebbe più paura dei Giudei fu quello in cui il Cristo organizzò il movimento nazareno. In effetti di tentativi insurrezionali Gesù provò a farne due, il primo contro il Tempio e i suoi gestori (i sadducei), il secondo contro i Romani protetti dalla fortezza Antonia. Entrambi fallirono per il tradimento dei farisei.

Ci si lamenta che abbiamo poche fonti in merito, ma gli storici di cosa avrebbero potuto parlare di fronte a questi tentativi andati a vuoto? Abbiamo più fonti sulla rivolta del 66-70, anch’essa completamente fallimentare, proprio perché gli zeloti vollero gestirla in maniera autoritaria, anche contro i Giudei. Ma queste fonti cosa ci insegnano di più della mancanza di fonti sul Gesù storico? Quasi nulla. A livello di strategia politica gli zeloti furono un fiasco clamoroso.

Pilato e Caifa erano due persone senza particolari scrupoli, che si appoggiavano a vicenda. Dal 26 al 36 marciarono sempre all’unisono. Gesù aveva capito che se si colpiva uno si colpiva (o si doveva colpire) anche l’altro. Nel primo tentativo insurrezionale puntò su Caifa, nel secondo su Pilato. Di queste cose possiamo essere certi. E ancora oggi ci si chiede perché l’obiettivo sia fallito. Degli zeloti invece non ci chiediamo più niente.

Indicativamente potremmo dire che Israele non è stata sconfitta dai Romani, ma dalle proprie insanabili contraddizioni. Roma ha soltanto dato il colpo di grazia a un corpo che, pur avendo in sé ancora energia sufficiente per reagire, non aveva la mente per gestirla nella maniera migliore.

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6.12.6) Le due rivolte del Cristo nel IV vangelo

La tipologia delle due rivolte la si può dedurre abbastanza facilmente dal IV vangelo, che nella sua versione originaria, prima della manipolazione, fu scritto contro il vangelo marciano, che prevede solo una protesta anti-templare.

Nel vangelo giovanneo le pasque sono almeno due, proprio perché due sono i tentativi insurrezionali, di cui il secondo, contro la fortezza Antonia, i Sinottici han dovuto rimuoverlo, altrimenti si sarebbe scoperto che il Cristo era un politico sovversivo. E Marco (in questo caso la teologia petrina) ha spostato il primo tentativo, quello contro il Tempio, nell’ultima pasqua, facendo così risultare che Gesù ce l’aveva solo coi sacerdoti e non anche coi Romani.

Per me le due fonti scritte più significative, al riguardo, sono, in ordine d’importanza, il IV vangelo e il protovangelo. La teologia petro-paolina è presente in entrambi, ma in Marco è nativa, mentre in Giovanni è una sovrapposizione mistificante, appunto perché il IV vangelo originario era stato scritto contro quello marciano.

La prima insurrezione la si vede dopo la rottura tra Gesù e il Battista. Una parte dei battisti confluì nel gruppo che Gesù stava formando. Cercò di occupare il Tempio, ma i farisei, pur essendo avversi ai sadducei, tradirono. Poi Nicodemo si pentì del loro atteggiamento. Il secondo tentativo avvenne dopo la morte di Lazzaro, quando a Betania, convinto che i farisei l’avrebbero appoggiato, decise di entrare nella capitale con un movimento armato per occupare la fortezza Antonia. Ma anche quella volta furono i farisei a tradirlo. Per me Giuda, ch’era un giudeo, proveniva da ambienti farisaici, non zelotici, anche se dal racconto dei cosiddetti “pani miracolati” appare il contrario, cioè sembra che Giuda voglia spingerlo verso posizioni estremistiche.

Gesù si rifiutò di compiere il colpo di stato a Gerusalemme, così come gli era stato chiesto di fare dai 5.000 Galilei, proprio perché voleva che l’insurrezione venisse fatta da Giudei e Galilei insieme, con l’appoggio esterno dei Samaritani.

Nessuno poteva sapere il momento in cui il movimento nazareno sarebbe entrato nella capitale per compiere l’insurrezione. Pilato nella fortezza Antonia aveva solo una coorte di circa 600 militari, perché due coorti non ci stavano. La sua sede era a Cesarea Marittima.41 Durante la Pasqua i pellegrini erano numerosissimi. Probabilmente in quei giorni, se ci fosse stata una rivolta popolare, i Romani ne sarebbero usciti sconfitti, altrimenti Gesù non avrebbe preso a Betania la decisione di provarci. Doveva per forza avere l’appoggio dei farisei progressisti.

La fortezza Antonia non era affatto imprendibile, tant’è che nel 66, all’inizio della rivolta ebraica, la guarnigione fu subito caciata via; anzi, le truppe romane dovettero andarsene anche dalla Giudea e dalla Galilea.

Il fatto che i soldati abbiano torturato e schernito così violentemente Gesù (come risulta dalla Sindone) sta proprio a indicare che di lui avevano avuto in quei giorni una grande paura. I vangeli non raccontano che fecero la stessa cosa agli altri tre zeloti, che pur avevano ammazzato un romano. E in ogni caso va escluso a priori che Gesù sia entrato con l’intenzione di farsi ammazzare o di immolarsi per riconciliare Dio col genere umano peccatore. Questa narrazione dei fatti è ridicola.

Noi non possiamo sapere su quante persone potesse contare Gesù per compiere l’insurrezione. Certamente un numero sufficiente per vincere la coorte romana e la polizia giudaica. Che poi tutta questa gente sia rimasta passiva durante il processo farsa di Pilato, questo va addebitato ai limiti della democrazia. Gesù avrebbe potuto fare in città un colpo di stato e imporre una dittatura, ma quanto sarebbe durata? Senza la partecipazione popolare di Giudei, Galilei e Samaritani come avrebbe resistito alla ritorsione delle legioni romane?

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6.12.7) Le rotture politiche del Cristo

Gesù non ruppe solo con l’essenismo titubante del Battista e col fariseismo moderato di Nicodemo durante il tentativo di cacciare i sadducei dal Tempio, all’inizio della sua carriera politica, secondo la cronologia giovannea, ma ruppe anche con l’estremismo zelota, di tipo politico-religioso, quando, una volta trasferitosi in Galilea, in 5.000, sul Tabor, vollero farlo diventare re in stile davidico, chiedendogli di marciare su Gerusalemme per eliminare la guarnigione romana, senza cercare alcuna intesa con gli elementi migliori del giudaismo.

Fu in quella seconda occasione, la cui popolarità del Cristo scese ai minimi livelli, ch’egli chiese agli apostoli se volevano andarsene anche loro.

Ma perché rifiutò la proposta galilaico-zelotica? Non erano forse sufficienti 5.000 uomini armati contro i 600 Romani della fortezza Antonia? Buona parte degli zeloti non era forse entrata nel movimento nazareno, rappresentata da Pietro e Simone il cananeo?

I motivi furono due:

1- Gesù non voleva realizzare una monarchia davidica ma una democrazia popolare (definiva se stesso col titolo di “figlio dell’uomo”, rifiutando quello di figlio di Davide, e anche sul titolo di messia nutriva forti riserve)42;

2- riteneva impossibile vincere l’inevitabile ritorsione romana, che avrebbe fatto uso di varie legioni (stanziate in Siria), senza la partecipazione attiva dei Giudei e dei Samaritani.

Sicché solo dopo l’uccisione del leader politico Lazzaro, che doveva avere un certo seguito da parte dei Giudei, riuscì a convincere il fariseismo progressista che con un’alleanza con gli elementi migliori della Galilea si sarebbe potuta compiere una vincente insurrezione antiromana.

Fu tradito dal fariseismo progressista, rappresentato da Giuda. Lo stesso fariseismo che con Paolo, dopo l’esecuzione capitale di Gesù, volle rifarsi una verginità politica, tagliando i ponti con le tradizioni giudaiche e creando una nuova religione. Non era questo l’obiettivo del Cristo, ma più di così il popolo ebraico non riuscì a fare.

L’ebraismo cristiano, influenzato dall’ellenismo, riuscirà a imporsi sulla cultura pagana solo con gli imperatori Costantino e Teodosio. Grazie anche alla pressione delle forze barbariche, che non conoscevano lo schiavismo come sistema sociale, si creò nel Medioevo un sistema meno violento, basato sulla servitù della gleba (autoconsumo, baratto e rendita feudale). Questo fino a quando, con la nascita dei Comuni italiani, il cattolicesimo romano non riuscì a creare una nuova religione: il cristianesimo borghese (capitalismo sul piano pratico e cristianesimo su quello teorico), che troverà poi nella riforma protestante la sua realizzazione compiuta sul piano culturale, che allora coincideva soprattutto con quello religioso. Una riforma che aprirà le porte all’umanesimo laico43, indifferente alla religione, mentre sul piano sociale le contraddizioni tipiche del capitalismo determineranno la nascita del socialismo.

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6.12.8) La decisione d'insorgere

Gesù aveva scelto il momento giusto per fare l’insurrezione. Al tempo di Augusto e di Tiberio Roma aveva già stabilito, grosso modo, i suoi confini: non era più in fase espansiva. A Teutoburgo e a Carre i Romani avevano subìto sconfitte disastrose da parte dei Germani e dei Parti.

Il limes era ormai basato su alcuni grandi fiumi: Reno, Danubio, Eufrate. Roma non era in grado di dominare le popolazioni germaniche, scito-carpatiche e partiche. L’impero poteva espandersi solo in due direzioni: l’Africa (ma il deserto glielo impediva, anche se arrivarono a perlustrare le fonti del Nilo) e il Vicino Oriente.

Il limes stabilito da Augusto era un luogo in cui i Romani difendevano l’impero, finché poi diventerà il luogo in cui si chiederà agli stessi barbari di difenderlo, offrendo in cambio vari privilegi.

In Palestina, dopo aver invaso la Siria, le legioni avevano occupato Giudea, Samaria e Idumea, ma non avevano ancora Galilea e Perea. Gli Idumei, peraltro, se il movimento nazareno avesse cacciato i Romani dalla fortezza Antonia, si sarebbero subito alleati coi Giudei, come fecero con gli zeloti durante la guerra del 66-70. I Samaritani avevano già riconosciuto in Gesù il possibile leader di una rivolta contro Roma (il “salvatore del mondo”, Gv 4,42).

Insomma c’erano tutte le condizioni per una insurrezione popolare vittoriosa. Gesù non era un illuso né un avventuriero, non giocava a fare il rivoluzionario. E diciamo anche basta all’immagine stereotipata di un Cristo pacifista a oltranza.

*

Quanto al tipo di società che avrebbe voluto realizzare, bisogna escludere a priori la monarchia dinastica (rifiutava il titolo di “figlio di Davide” e anche le genealogie parentali). Escluderei anche la monarchia popolare, quella per acclamazione, altrimenti avrebbe accettato la proposta dei 5.000 Galilei di diventare re e di marciare in maniera trionfale su Gerusalemme. Impossibile anche una monarchia costituzionale (ponendo la Torah come “Costituzione”), poiché il Discorso sulla montagna è una dura critica ai limiti dell’ebraismo giuridico. E non credo proprio che volesse creare un governo ierocratico, “benedetto” dal clero, altrimenti non avrebbe cercato di occupare il Tempio.

In tal senso averlo giustiziato in quanto “re dei Giudei” non ha alcun senso, e non perché egli non avesse pretese politiche rivoluzionarie, ma proprio perché non voleva indirizzarle verso l’istituzione di una monarchia.

Pilato sapeva sicuramente che la sua operazione politicamente sovversiva non era gradita al sommo sacerdote e ai sadducei, altrimenti non gliel’avrebbero consegnato. Ma non poteva essere sicuro che, cacciando i Romani dalla Palestina, Gesù volesse diventare un monarca giudeo. Infatti, se questa fosse stata la sua intenzione, la prima cosa che avrebbe fatto, appena entrato a Gerusalemme, sarebbe stata quella di occuparla con tutta la forza possibile, puntando a estromettere la guarnigione romana dalla fortezza Antonia e i sadducei dal Tempio. Invece si mise a parlamentare coi partiti per cinque giorni, come se volesse far capire che non aveva intenzione d’imporsi con la forza. Voleva far vedere la sua buona disponibilità al dialogo, alla trattativa, anche se ad un certo punto avrebbe dovuto prendere una decisione.

Probabilmente riteneva sufficiente il seguito popolare con cui era entrato nella capitale e con cui era stato accolto dall’interno, ma evidentemente contava in un appoggio superiore, soprattutto da parte dei farisei, per poter fronteggiare con successo la ritorsione delle legioni romane. Cioè era convinto che la rivoluzione si sarebbe potuta fare con successo, ma non era convinto che la controrivoluzione avrebbe sicuramente perso.

Secondo me soltanto all’interno della città si era reso conto che l’appoggio del partito farisaico non era così sicuro come gli era sembrato. I veri traditori dell’insurrezione armata sono stati loro.

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6.12.9) La differenza tra i Galilei e Lazzaro

Perché Cristo si rifiutò di compiere l’insurrezione antiromana quando gliela chiesero 5.000 Galilei e invece accettò di farla dopo la morte di Lazzaro?

È semplice: nel primo caso non avrebbe avuto il consenso dei Giudei, che non si consideravano certo inferiori ai Galilei (anzi, semmai era il contrario). Nel secondo caso invece, siccome era morto Lazzaro, un leader giudeo vicino ai farisei, e Gesù si era dichiarato disponibile a portarne a compimento l’obiettivo politico, vi era la possibilità di organizzare una vera insurrezione popolare e nazionale, che avrebbe anche potuto essere appoggiata dai Samaritani.44

Qui sta la differenza tra avventurismo (che spesso sconfina nel terrorismo) e strategia rivoluzionaria vera e propria.

La rivolta del 66-70 d.C. fu senza dubbio sostenuta dai sacerdoti di basso rango e da molti cittadini di Gerusalemme, ma le contese tra i vari gruppi politici rivali per il controllo della città furono letali per la riuscita dell’insurrezione popolare.

I Romani fecero una guerra che durò dal 66 al 73, ma se gli ebrei di Giudea, Galilea, Samaria e Idumea fossero stati uniti, sarebbero durata molto di più, e probabilmente gli imperatori avrebbero perso o sarebbero scesi a trattative, anche perché ai Giudei si sarebbero potuti unire i Parti o gli Egizi.

La seconda rivolta, quella degli anni 132-135, non aggiunse nulla alla precedente: fu solo l’ultimo colpo di coda prima della definitiva scomparsa della Palestina ebraica.

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6.12.10) Quante speranze per il tentativo insurrezionale?

Ci sono domande che potrebbero avere un senso persino oggi, a distanza di 2000 anni di storia.

Posto che Cristo era una persona mentalmente sana, equilibrata, dotata di raziocinio, e non un avventuriero irresponsabile o un fanatico del martirio, che speranze aveva di liberare la Palestina dal peggiore impero schiavistico della storia antica?

Perché non è entrato a Gerusalemme come un generale romano, compiendo non una rivoluzione popolare ma un colpo di stato?

Perché la sua idea di insurrezione nazionale e popolare non è stata portata avanti dai suoi seguaci dopo la sua morte?

Per quale motivo si è data così tanta importanza alla misteriosa scomparsa del suo corpo dalla tomba, quando non si è mai usata la Sindone come prova di quella scomparsa?

Ci sono elementi nei vangeli che permettono di classificare la posizione del Cristo come ideologicamente atea e politicamente sovversiva?

È possibile sostenere che tutta la battaglia condotta dal Cristo contro lo schiavismo romano e il collaborazionismo dei capi giudei aveva come unica finalità quella di riportare la Palestina al comunismo primitivo, quello preschiavistico?

Perché il Cristo ha ritenuto che per realizzare l’insurrezione nazionale non fosse necessario scrivere neanche una parola?

Perché Gesù ha compiuto il voto del nazireato rifiutando il matrimonio?

Perché si è preoccupato sulla croce di consegnare sua madre a Giovanni, quando avrebbero potuto assisterla i suoi fratelli e sorelle? (Esistono davvero questi fratelli e sorelle, oppure nel protovangelo sono stati messi in opposizione alla madre di Gesù? O forse dietro il nome della madre di Gesù, ai piedi della croce, si nasconde quello della Maddalena, cui il Cristo avrebbe chiesto di sposare il suo discepolo preferito? e magari di andarsene dalla Palestina, perché se avevano ammazzato così il “legno verde”, cosa avrebbero potuto fare col “legno secco”?)

Che cos’è che ha reso vincente il messaggio evangelico sul paganesimo, nonostante fosse politicamente revisionista rispetto al messaggio originario del Cristo?

Dobbiamo considerare inevitabile il tradimento di una rivoluzione o di un tentativo rivoluzionario, al punto che per impedirlo è giusto imporre un regime di terrore?

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Se sulla morte del Cristo diamo la colpa ai soli Giudei, come fanno i vangeli, che in questo sono nettamente antisemitici, non riusciremo a comprenderne la causa. Né si può pensare ch’era destinato a morire perché i Romani erano troppo forti. Nella foresta di Teutoburgo, qualche anno prima, alcune legioni romane erano state completamente distrutte dai Germani e da allora gli imperatori posero il Reno a confine dell’impero. Perché mai la stessa cosa non sarebbe potuta avvenire in Palestina? I Romani non riuscirono mai a sottomettere i Parti.

Probabilmente la morte di Gesù va spiegata anche con una motivazione che i suoi seguaci, ben presenti durante il processo orchestrato da Pilato, non ebbero mai il coraggio di ammettere, quella della viltà o della paura di fronte a un nemico ritenuto, a torto, troppo forte. I discepoli non vollero assumersi delle responsabilità politiche personali. Infatti con la teologia petro-paolina si fece un’autocritica di tipo moralistico, chiamando in causa il cosiddetto “peccato originale”, una teoria bislacca secondo cui l’uomo, a causa delle conseguenze di tale peccato, è incapace di compiere il bene con le proprie forze. Una teoria paolina che era già in nuce all’altra petrina, quella secondo cui Gesù era morto secondo la “prescienza divina”.

Il movimento cristiano guidato da Pietro si fidò troppo della clemenza delle autorità giudaiche e romane, rifiutando l’idea che in certi casi occorre la “spada” per risolvere l’ingiustizia. È vero, dopo la morte di Gesù aumentò il coraggio degli apostoli, fino all’accettazione del martirio, ma tutta questa forza interiore venne finalizzata a realizzare una teologia-politica che di rivoluzionario non aveva più niente, se non l’idea di separare lo Stato (Cesare) dalla Chiesa (Dio), non riconoscendo agli imperatori e al paganesimo alcun tipo di “culto”.

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6.12.11) La pace o la spada?

Se Gesù avesse predicato solo la pace e non anche la spada, sarebbe stato favorevole a un compromesso con Roma. La spada invece voleva dire cacciare gli invasori dalla Palestina, se questi non se ne fossero andati spontaneamente o con le buone maniere. Per avere la pace di una politica “riformistica” non ci sarebbe stato bisogno di vendere o abbandonare tutto (anche la propria famiglia!) e portare la propria croce, anche perché questa sembra essere la richiesta di un sovversivo che ha bisogno di militanti nell’immediato.

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Forse a qualcuno potrà apparire strano che Gesù non abbia accettato l’istituto della cosiddetta “monarchia popolare”, sicuramente molto nota nell’Israele più antico, quello delle tribù, o meglio: quello che rinunciò alla democrazia tribale per iniziare ad appoggiare una monarchia sub conditione.

Illuminanti, in tal senso, sono le pagine 134-143 del libro di Horsley e Hanson, Banditi, profeti e messia (ed. Paideia, Brescia 1995). Vi si scrive che gli ebrei sono sempre stati contrari all’istituzione della monarchia, preferendo di gran lunga la democrazia tribale.

Tuttavia, quando dovettero affrontare la dominazione filistea in Palestina, accettarono l’idea di un potere centralizzato, a condizione che non ambisse ad avere alcun carattere dinastico. E così, Saul fu scelto a sorte dal popolo, mentre Davide fu scelto, sempre dal popolo riunito in assemblea, perché particolarmente capace sul piano politico, diplomatico e militare.

Quando lui morì, gli ebrei sopportarono con pazienza il governo oppressivo di Salomone (970-930 a.C.), ma alla sua morte ben 10 tribù del nord d’Israele rifiutarono la successione del figlio Roboamo. Solo che invece di ripristinare l’antica democrazia, si rivolsero a Geroboamo, proclamandolo re (930-909 a.C.). Le tribù di Giuda e Beniamino rimasero invece fedeli alla stirpe di Davide sotto il regno di Roboamo (972-914 a.C.).

Ormai il “peccato originale” era stato compiuto. Una volta accettata la monarchia, non si riuscì più a tornare indietro. Una società monarchica appariva più forte di una democratica. Invece era solo apparenza. Protestarono a lungo i profeti, ma invano. E così il regno d’Israele fu conquistato nel 722 a.C. dagli Assiri, mentre quello di Giuda dai Babilonei nel 586 a.C.

Quando il Paese fu ricostruito nel 530 a.C. grazie ai Persiani, che ne pretesero il vassallaggio, gli ebrei dovettero per forza rinunciare all’idea di monarchia politica, ma servendosi di un escamotage: attribuirono ai sacerdoti gestori del Tempio delle funzioni politiche e amministrative. E i sommi sacerdoti dovevano essere scelti sulla base di una certa discendenza dinastica. Il potere inevitabilmente si clericalizzava, concentrandosi nelle mani di pochi privilegiati aristocratici. Questo il succo della riforma di Esdra e Neemia.

La predicazione del Cristo e del Battista si situa in un contesto in cui tale potere politico-religioso era diventato sommamente corrotto, non solo perché autoritario ma anche perché colluso col potere dell’invasore straniero, dai Seleucidi ai Romani.

Dopo mezzo millennio era giunto il momento di fare piazza pulita. È quindi assurdo pensare che Gesù Cristo non fosse nelle condizioni di diventare un messia politico, ovvero che non era tenuto a interpretare la situazione del suo tempo in maniera radicale, anzi rivoluzionaria. Semmai ci si può chiedere fino a che punto voleva spingere il suo concetto di democrazia, poiché nei vangeli appare chiaro ch’egli non teneva in alcuna considerazione il concetto di “monarchia”.

Quando nel IV vangelo gli autori gli fanno dire, mentre dialoga con Pilato: “se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei” (18,36), si sta insinuando l’idea che il suo ideale politico non avesse alcuna possibilità di realizzarsi su questa Terra. Ma ciò va considerata come una falsificazione. Gesù non era fautore di una democrazia ultraterrena. Anzi, i cristiani ritengono che neppure nell’aldilà ci sarà una “democrazia”, bensì una “monarchia divina”, con a capo lo stesso Cristo, la cui volontà onnipotente e onnisciente non potrà essere messa in discussione da nessuno. Non solo la teologia petro-paolina ha mistificato l’operato del Cristo sulla Terra, ma ha preteso di farlo anche per i cieli.

Tuttavia è anche sbagliato pensare che la democrazia del Cristo fosse assolutamente pacifica, senza soluzione di continuità, cioè non disposta a impugnare le armi contro le classi privilegiate e contro l’oppressione straniera. Prima di entrare a Gerusalemme, l’ordine che diede fu perentorio: “chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una” (Lc 22,36).

Non per il fatto d’essere entrato a Gerusalemme in groppa a un asino, invece che a un cavallo, dobbiamo pensare che il Cristo volesse mostrare la sua arrendevolezza, il suo patetismo di maniera, il suo buonismo a oltranza. Indubbiamente la vera democrazia non ha il compito di provocare una reazione armata, ma di sicuro ha quello di difendersi se viene minacciata.

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6.12.12) Dove si fanno le rivoluzioni?

Una volta chiesto alle folle d’insorgere per liberarsi dell’oppressione subita, poteva Gesù non entrare a Gerusalemme? Dove si fanno le rivoluzioni? Dove si organizzano le insurrezioni popolari? Se non è possibile farlo in patria, lo si fa all’estero. Se non è possibile nella capitale, si resta in periferia. Ma poi viene il momento in cui si deve occupare la capitale, poiché da lì si può gestire l’intera nazione.

Ci vuole una direzione centralizzata per vincere la resistenza di chi si oppone alla liberazione nazionale, di chi collabora col nemico e boicotta, con tutti i mezzi a disposizione, senza farsi scrupolo di alcunché, la riuscita della riscossa nazionale. E non si può andare tanto per il sottile, poiché ci si gioca tutta la propria credibilità, quella degli ideali per cui si è lottato per un certo tempo, in mezzo a mille rischi e pericoli, quegli ideali in cui gran parte della popolazione ha creduto, sopportando anch’essa tutti i sacrifici necessari.

Non si possono infervorare le masse e poi non prendersi una responsabilità decisiva quando i tempi sono sufficientemente maturi da richiederla.

La decisione di entrare a Gerusalemme con un forte seguito popolare, debitamente armato, in grado di bloccare sia la coorte romana stanziata nella fortezza Antonia che le guardie del Tempio, fu presa da Gesù a Betania, dopo la morte di Lazzaro, il quale doveva essere un leader politico apprezzato dai farisei, visto che sono questi che vanno a consolare le sorelle di lui.

Il IV vangelo dice che Gesù temeva di entrare in Giudea e che, quando lo fece, temeva di entrare a Betania, tanto che furono Marta e Maria ad andare da lui. Poi si convinse che i farisei lì presenti non gli avrebbero fatto nulla, non gli avrebbero impedito di piangere sulla tomba di un amico d’infanzia e di un alleato politico. Anzi, fu proprio in quel momento ch’egli si convinse che, con l’appoggio dei farisei, si sarebbe potuto far “risorgere” l’idea di liberazione nazionale in cui anche Lazzaro credeva.

Ecco perché Maria poté rompere il vasetto che conteneva un profumo dal costo straordinario e versarlo su Gesù come se fosse un leader trionfale, in grado di cacciare sia i Romani dalla Palestina che i sadducei dal Tempio.

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6.12.13) Aveva senso restaurare la monarchia davidica?

Perché Gesù era contrario alla restaurazione della monarchia davidica? Semplicemente perché quella monarchia non si limitò soltanto a contrastare l’oppressione filistea, ma – come dicono R. A. Horsley e J. S. Hanson – “instaurò in Israele uno Stato monarchico unitario modellato sui grandi imperi dei popoli che Israele fino a quel momento aveva considerato come la grande minaccia ai suoi modi di vita più egualitari”.45

I due storici lo spiegano bene: il re Davide cominciò a occupare l’intera Palestina, comprese le restanti città-stato dei Cananei. Inoltre adottò un potere centralizzato a Gerusalemme, sicché le tribù d’Israele finirono col perdere la loro autonomia. Persino il culto religioso veniva limitato al perimetro del Tempio. Davide era la dimostrazione di come si poteva trasformare illecitamente una vittoria politico-militare da parte di un popolo in una dittatura di tipo personale.

Gesù non voleva costruire un “regno”, né politico né religioso. Voleva costruire una società di liberi e uguali, fondamentalmente autonomi sotto tutti i punti di vista, disposti a unirsi militarmente solo per difendersi da nemici comuni. In pratica voleva una confederazione di comunità indipendenti (che andasse persino oltre le antiche 12 tribù, che già ai suoi tempi si erano ridotte a due o tre). La gestione della vita sociale, in tale confederazione, non avrebbe dovuto comportare contraddizioni tali da minacciarne l’integrità complessiva: nessuna singola comunità avrebbe dovuto sentirsi insicura. Stando ai due suddetti autori, questa visione delle cose rispecchiava il modello della più antica alleanza mosaica.

In fondo il periodo più democratico degli ebrei è stato quello dei Giudici (1200-1025 a.C.), allorché s’impose una sorta di federazione democratica di tutte le tribù israelite, che da nomadi diventarono sostanzialmente sedentarie, dedicandosi prevalentemente ai lavori agricoli. A quel tempo non esisteva il culto di un Dio imposto come unico, ma semplicemente la dominanza prevalente del culto di Jahvè (monolatria), appartenente alle tribù giudee. È solo a partire dal X sec., con la nascita della monarchia, che questo culto comincia a diventare una religione di stato (monoteismo).

La monarchia nasce quando s’impongono le differenze di classe e l’ordinamento tribale non è più in grado di tenerle sotto controllo coi mezzi e metodi tradizionali. La guerra contro i Filistei viene usata come pretesto per imporre un regime sociale schiavistico e una dittatura politica. Il primo potere reale che s’impone non è quello di Davide ma quello della tribù di Beniamino, con Saul (1030-1010 a.C.), che morì combattendo appunto contro i Filistei. Davide (1010-970 a.C.), che apparteneva alla tribù di Giuda, farà di Gerusalemme la capitale del nuovo regno. Poi con Salomone (970-931 a.C.) i confini si estenderanno ulteriormente. Fu proprio quest’ultimo a trasformare Israele in uno Stato organizzato in maniera non molto diversa da quelli schiavistici del suo tempo: quando fece edificare un Tempio per centralizzare il culto di Jahvè, ne affidò la gestione esclusiva ai sacerdoti provenienti dalla tribù di Levi.

Di fronte a questa progressiva centralizzazione le rivolte furono inevitabili: prima contro Davide, poi, alla morte di Salomone, dieci tribù diedero vita, al nord, a un regno separato, chiamato “Israele” con capitale Samaria (931 a.C.), che durerà circa due secoli (nel 721 a.C. verrà sconfitto dagli Assiri di Sargon II e i suoi abitanti saranno deportati); quello del sud, composto da due sole tribù, si chiamerà “Giuda”, con capitale Gerusalemme, e conserverà l’indipendenza per poco più di tre secoli (tra il 598 e il 587 a.C. verrà sconfitto dai Babilonesi di Nabucodonosor e gli abitanti saranno deportati in Mesopotamia). Il regno di Giuda non aiutò quello d’Israele contro gli Assiri.

Quando poi i Persiani, vinti i Babilonesi nel 539 a.C., permisero agli ebrei di tornare in Palestina come loro sudditi, questi, non potendo creare una monarchia politica, ne fecero una di tipo religioso, concentrando tutti i poteri sulla casta che gestiva il Tempio. I sacerdoti e gli scribi (in particolare Esdra e Neemia) furono i protagonisti di questa svolta teocratica, legittimandola con vari artifici e falsificazioni: con loro si affermavano in maniera perentoria un rigido monoteismo, la centralizzazione del culto e la canonizzazione dei testi biblici.

Per fronteggiare la crisi sociale e limitare le proteste contro le ingiustizie economiche, i sacerdoti elaborarono un’ideologia che avrà un certo peso nello corso della lotta per l’indipendenza nazionale: quella del “popolo eletto”, secondo cui gli ebrei sono oppressi per colpa dei loro tradimenti ma possono riscattarsi agli occhi di Dio combattendo contro i nemici esterni. Furono dunque proibiti i matrimoni misti e considerati “impuri e pagani” tutti i non ebrei, i non circoncisi e chiunque non accettasse il culto di Jahvè a Gerusalemme (p.es. i Samaritani). La Giudea diventò uno Stato ierocratico a tutti gli effetti, i cui sacerdoti svolgevano funzioni amministrative, giudiziarie, finanziarie e, in un certo senso, anche politiche e diplomatiche.

Tale situazione andò avanti così non solo sotto i Persiani, ma anche durante la dominazione di Alessandro Magno (356-23 a.C.), degli Stati ellenistici e dell’impero romano. Essa cominciò a mostrare tutti i suoi profondi limiti sotto la dominazione ellenistica dei Seleucidi di Siria (a partire dal 200 a.C.), uno degli Stati che si formò dopo la morte di Alessandro Magno.

Infatti, mentre sotto i Tolomei d’Egitto gli ebrei riuscirono a conservare, più o meno integralmente, i loro usi e costumi tradizionali, coi Seleucidi invece, che dominavano dalla Siria alla Persia, la classe dirigente sacerdotale cominciò a scendere a forti compromessi sul piano culturale, religioso e politico, nella convinzione di poter ottenere grandi vantaggi.

La svolta avvenne nel 175 a.C., quando l’aristocrazia sacerdotale volle stringere un patto di ferro con Antioco IV Epifane, al fine di dare un’impronta decisamente ellenizzante a tutta la società ebraica, giudicata troppo arretrata rispetto ai modelli greci. Tale svolta però comportò per il popolo ebraico un’enorme pressione fiscale, a causa non solo della costruzione di nuovi edifici, ma anche per sostenere le imprese belliche di Antioco IV, intenzionato ad ampliare il proprio regno.

Fu così che maturò la grande rivolta maccabaica. I Maccabei appartenevano a un’importante famiglia sacerdotale di origine asmonea. Ad essa si unirono scribi, contadini, gruppi di ḥasidim (da cui più tardi sarebbero nati farisei ed esseni).

I Maccabei adottarono una strategia di guerriglia non solo contro le truppe seleucide ma anche contro l’aristocrazia ebraica filo-ellenica. Uno dei fratelli Maccabei, Simone (142-134 a.C.), ottenuta l’indipendenza politica della Giudea, si fece proclamare sommo sacerdote, capo militare ed etnarca a vita. I suoi poteri furono ereditati dal figlio Giovanni Ircano (134-104 a.C.), che iniziò una politica di espansione territoriale, proseguita dal suo successore, Alessandro Janneo (104-76 a.C.), ai danni di Samaria, Galilea e di alcune città a est del Giordano: anche gli edomiti dell’Idumea furono costretti a convertirsi. Gli Asmonei in Giudea durarono un secolo, mantenendo il potere civile e religioso fino alla conquista romana, dopo la quale nel 37 a.C. fu posto a governo della regione Erode il Grande (37-4 a.C.).

Gli Asmonei furono spietati nei confronti degli ellenisti che non si sottomettevano alle usanze giudaiche. Avevano vinto i Seleucidi, ma poi si comportarono come loro, anche se per motivi ideologicamente opposti.46 Con Alessandro Janneo al titolo di sommo sacerdote si unì, nella stessa persona, quello di monarca, determinando le forti proteste da parte di farisei ed esseni, cui si contrapposero i sadducei. I Romani, a partire da Pompeo (63 a.C.), non fecero che approfittare delle lotte fratricide per il potere politico e religioso tra i vari partiti ebraici.

*

Riassumiamo dunque l’importante fase dei Maccabei.

Questa famiglia si ribellò al seleucide Antioco IV Epifane che aveva vietato i più importanti riti ebraici – circoncisione, sabato, ecc. – e aveva imposto il culto a divinità elleniche, tanto che nel 168 a.C. nel Tempio di Gerusalemme fu offerto un sacrificio a una divinità pagana.

Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso e Simone Maccabeo coi suoi fratelli, di una famiglia sacerdotale ma non della linea dei primogeniti (della stirpe di Ioarìb), si ribellò e diede inizio alla dinastia regale e sacerdotale degli Asmonei (da Asmon nome di un antenato).

Quando Simone Maccabeo fu ammazzato da un suo generale, Tolomeo di Gerico, insieme a due dei suoi figli, gli subentrò l’ultimo figlio rimasto, Giovanni Ircano I. A questi succedette il figlio maggiore Aristobulo I (il primo a utilizzare il titolo di re, dopo aver ucciso sua madre): fu per forza nettamente antifarisaico, poiché i farisei detestavano il potere monarchico. Sua moglie, Alessandra Salomè, liberò tre fratelli di Aristobulo dal carcere: il più anziano di questi, Alessandro Ianneo, sposò la stessa Alessandra Salomè e divenne re, perseguitando anche lui i farisei. Alla sua morte la moglie Alessandra Salomè governò da sola, avvalendosi questa volta dell’appoggio dei farisei. I figli che lei ebbe da Alessandro Ianneo furono Giovanni Ircano II e Aristobulo II, che con le loro lotte per la successione sollecitarono l’intervento di Gneo Pompeo Magno e la conquista romana della Giudea nel 63 a.C.

Praticamente i Maccabei/Asmonei, mantenendo il potere civile e religioso, regnarono in Giudea fino al 37 a.C., quando la dinastia fu destituita da Erode il Grande, grazie alla nuova conquista romana. Erode non era di sangue reale né d’origine ebraica: il padre, Erode Antipatro, era un Edomita e sua madre una Nabatea.

Da notare che siccome i re dovevano idealmente discendere dalla casa di David, i Maccabei per i farisei e gli esseni non avevano pieno diritto al potere regale (il Talmud li ricorda appena e la loro storia, che si trova nei libri deuterocanonici I e II dei Maccabei, scritti in greco, sono accolti solo dalla Bibbia cristiana).

*

È a questo punto della narrazione che, se si fa un libro su Gesù Cristo, bisogna porsi una domanda assolutamente ineludibile: per quale motivo tantissimi esegeti pensano che il movimento nazareno non avrebbe mai potuto farcela contro i Romani, quando la dinastia asmonea dei Maccabei riuscì ad avere la meglio contro i Seleucidi? Questa è una domanda di capitale importanza, poiché è sull’incapacità di trovare ad essa una risposta adeguata che si consuma la vergognosa trasformazione del Cristo politico in Cristo teologico.

Detto altrimenti: per quale motivo si deve considerare inevitabile l’involuzione maccabaica da una giusta vittoria politico-militare a una nuova dittatura, non meno violenta di quella del nemico che si era riuscito a sconfiggere? Possibile che sia preferibile parlare di un Cristo religioso e pacifista, piuttosto che delineare le condizioni politiche per cui la vittoria contro l’occupante straniero e i suoi collaborazionisti interni non diventi occasione per creare una nuova oppressione? Per quale motivo dobbiamo dare per scontato che ogniqualvolta un popolo in armi si ribella all’oppressione nazionale, il risultato finale sarà sempre una nuova dittatura, o comunque un tradimento degli ideali di partenza? Quali sono le condizioni per evitare un finale del genere? Se queste non esistono, in maniera tassativa, non è possibile considerare una forma di “tradimento” la rappresentazione mistica del Cristo, ma semplicemente la constatazione dell’incapacità umana a realizzare la democrazia.

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6.12.14) Un Cristo politicamente sovversivo è obsoleto?

Perché i credenti non vedono di buon occhio l’immagine di un Cristo politicamente sovversivo? Eppure negli anni ’70 era la più diffusa, soprattutto tra i teologi della liberazione, tra i cristiani per il socialismo, tra i catto-comunisti, ma anche tra i cattolici modernisti d’inizio ’900, tra gli anarco-socialisti che lottavano per l’unificazione nazionale.

Possibili risposte:

1) Perché viviamo in un periodo in cui si pensa che con la politica non si è in grado di risolvere alcun vero problema. Quindi al massimo ci si affida al volontariato.

2) Perché quelli che appartengono a un’area geografica di Paesi agiati non hanno alcun interesse a sostenere un’immagine del genere.

3) Perché i cattolici italiani, non essendo abituati a ragionare con la loro testa, si fidano di ciò che dicono le Scritture, il Magistero o comunque gli esegeti più importanti.

4) Perché qualunque tentativo di valorizzare il lato politicamente eversivo del Cristo porta, prima o poi, a uscire dalla Chiesa e persino ad assumere posizioni laicistiche.

5) Perché i credenti pensano che 2000 anni di storia del cristianesimo non possano reggersi su invenzioni, falsificazioni e mistificazioni. Un fondo di verità sul Gesù della fede o sul Cristo teologico deve per forza esserci.

Oggi in realtà dovremmo arrivare a dire che il Cristo storico coincide con quello sindonico, essendo entrambi politici, in antagonismo col Cristo teologico dei vangeli. Il vero problema da affrontare è quello di come opporre non fonte a fonte, ma interpretazione a interpretazione.

*

Il modo migliore per falsificare la vita reale di una persona importante è quello di ignorarla, cioè non parlarne affatto, come la Chiesa cristiana fece coi fratelli Zebedeo (nel IV vangelo si censurò del tutto il nome di Giovanni).

È un’operazione complessa, da svolgersi in maniera collegiale e condivisa al 100%, poiché si corre sempre il rischio d’essere smentiti. Certo, chi poteva ipoteticamente invalidare queste operazioni truffaldine, doveva già essere morto, in un modo o nell’altro (come si faceva in Russia al tempo di Stalin contro Trotsky). Ecco perché tutti i vangeli sono stati prodotti quando la generazione coeva al Cristo (inclusi i suoi discepoli più diretti) non esisteva più. Si era così sicuri di non essere contraddetti che le comunità cristiane attribuivano i propri vangeli ad autori presi dal movimento nazareno, senza alcun particolare scrupolo di veridicità. Giovanni Zebedeo fu un fulmine a ciel sereno, e su di lui si dovette agire con grande efficacia e circospezione.

Tuttavia, siccome la letteratura sul Cristo è stata piuttosto copiosa, ci si può chiedere perché non si sia preferito ignorarlo del tutto, invece che presentarlo in maniera tendenziosa, favorevole al misticismo.

Evidentemente su un personaggio così importante era impossibile tacere. Benché non avesse fatto nulla di politicamente significativo, in quanto i suoi due tentativi rivoluzionari contro il Tempio e la fortezza Antonia andarono falliti, era letteralmente impossibile non parlarne: doveva aver fatto o detto qualcosa che non poteva essere dimenticato. Su di lui si erano focalizzati gli interessi o le aspettative di troppe persone per poterlo ignorare.

Ecco perché i principali sforzi redazionali furono volti a trasformarlo da leader politico a leader religioso, creando un’impostazione semantica e linguistica del tutto artificiosa, opposta a quella reale. Si ricostruì da capo la narrativa con cui interpretarlo dalla nascita alla morte.

Tuttavia qualcosa ogni tanto sfuggiva alle maglie della censura, che veniva fatta con mezzi empirici, manuali, i cui protagonisti finali erano i copisti. Si pensi p.es. al fatto che nel vangelo lucano Gesù dice ai propri seguaci, nell’imminenza dell’ingresso messianico a Gerusalemme, di vendere il mantello per comprarsi una spada (22,36); o che nel IV vangelo Pilato manda una coorte di 600 militari, guidata dal tribuno, ad arrestare Gesù nel Getsemani (18,12).

Oggi però, seppure con incredibile ritardo, si sta cominciando a smontare tutte le falsificazioni.

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6.12.15) La tesi di William Wrede

In fondo aveva ragione l’esegeta William Wrede (1859-1906) a sostenere ch’era assurdo considerare il vangelo marciano più storico degli altri vangeli canonici solo perché era stato scritto per primo o solo perché gli altri due sinottici l’avevano utilizzato a piene mani.

In effetti la mistificazione dell’operato del Cristo era iniziata subito, addirittura dentro la tomba vuota, interpretata come “resurrezione”. Tuttavia, la motivazione ch’egli ha sostenuto per giustificare la sua tesi non è molto convincente. Indubbiamente i vangeli non sono opere storiche ma edificanti di tipo teologico: su questo nessuna persona con un minimo di onestà intellettuale potrebbe nutrire qualche dubbio. Ma non si può arrivare a dire che, proprio per questa ragione, è impossibile scoprire dei riferimenti convincenti al Cristo storico (che per me coincide con quello politico).

Secondo Wrede il Cristo storico non si proclamò mai “messia” (sottinteso “politico”). Furono invece i discepoli che, dopo la sua morte, lo riconobbero come tale, inserendo tale questione messianica nel vangelo marciano in aggiunta a una tradizione anteriore, quella di un Gesù maestro e taumaturgo. Il cosiddetto “segreto messianico” era per i discepoli un espediente apologetico con cui potevano spiegare l’assenza di qualsiasi chiara pretesa messianica nel Cristo. In altre parole l’autore del vangelo di Marco avrebbe voluto far vedere che Gesù si sentiva un messia quando invece non era vero.

È una tesi cervellotica. Anzitutto non è mai esistito un Gesù taumaturgo, almeno non sulla base delle guarigioni miracolose compiute nei vangeli. In secondo luogo non è mai esistito un Gesù “maestro di sapienza fine a se stessa”: non era né un filosofo né un semplice rabbino. In terzo luogo Gesù si poneva come leader politico antiromano e antitemplare, senza pretesa di unire la teologia alla politica. Quindi se egli ha rifiutato il concetto di “messia” è stato solo perché la stragrande maggioranza della popolazione associava questo concetto alla monarchia davidica (o a quella più recente dei Maccabei). Gesù non avvalorava il titolo di “figlio di Davide” con cui a volte veniva chiamato, proprio perché non voleva realizzare né un regno monarchico, né una repubblica teocratica. La sua idea politica è chiaramente favorevole a una democrazia sociale o popolare, in cui non esiste alcun sovrano che comanda su tutti.

Nel vangelo marciano il segreto messianico è stato elaborato per far vedere che Gesù non era un leader come gli altri ebrei, nel senso che gli ebrei avrebbero sì potuto considerarlo un “messia”, ma non secondo le loro intenzioni politiche. Il Cristo infatti tornerà sulla Terra solo alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti, e quindi solo allora manifesterà la sua pienezza politica.

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6.13) Il ruolo di Giovanni Zebedeo

Anche dando per scontato che la rivelazione di Gesù a Giovanni, nell’ultima cena, su chi era il traditore sia frutto della fantasia mistica redazionale, resta da chiarire come abbia potuto Giovanni assistere all’udienza preliminare di Gesù da parte dell’ex sommo sacerdote Anania, visto che Anania era uno di quelli che voleva assolutamente la fine del movimento nazareno.

Com’è inoltre possibile che lo stesso Giovanni abbia potuto assistere molto da vicino alla crocifissione (unico tra gli apostoli), al punto da indicare un particolare sconosciuto ai Sinottici: il colpo di lancia nel cadavere di Gesù, onde verificarne il decesso e risparmiargli la rottura delle ginocchia. Giovanni non aveva paura di essere catturato? Perché il suo nome è stato rimosso nel IV vangelo?

Ma soprattutto: perché Marco ha voluto sostenere, mentendo clamorosamente, che l’unico apostolo ad aver assistito al processo giudaico contro Gesù, organizzato da Caifa, era stato Pietro? Quella riunione del Sinedrio non è mai stata fatta, meno che mai di notte. Al massimo si può accettare la riunione di cui parla Gv 11,47ss. in cui i sinedriti decisero, a maggioranza, di eliminare Gesù per timore che i Romani, per ritorsione, distruggessero la nazione. Ma a quella riunione non partecipò alcun apostolo.

*

Chi ha scritto l’ultimo cap. del IV vangelo, almeno nella forma originaria, è stato Giovanni. Poi il testo è stato manipolato misticamente da qualcuno, per non contraddire la teologia paolina.

Ma perché sono sicuro che sia stato Giovanni?

1- Perché qui Giovanni si contrappone nettamente a Pietro. Gesù deve chiedere a Pietro per ben tre volte se si pente d’averlo tradito!

2- Giovanni critica Pietro d’aver avuto la pretesa, quand’era giovane, d’imporre la sua interpretazione della tomba vuota come morte necessaria voluta dalla prescienza divina, come resurrezione (pur senza mai averlo rivisto vivo), come parusia trionfale e imminente. Ciò facendo, aveva distolto il movimento nazareno dal compiere autonomamente l’insurrezione antiromana. Poi, divenuto più anziano, si era dovuto piegare alla volontà di Paolo, che, non vedendo alcuna parusia imminente, aveva definitivamente rinunciato a lottare per liberare la Palestina, poi si era inventato l’esclusiva figliolanza divina del Cristo, e infine aveva spostato la parusia alla fine dei tempi.

Giovanni era consapevole d’essere stato la più importante opposizione alla teologia petro-paolina. Ecco perché non morirà mai.

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6.14) Il ruolo della samaritana

Una cosa che non ho capito è il motivo per cui un manipolatore del IV vangelo ha avvertito il bisogno di far vedere che la samaritana incontrata da Gesù al pozzo di Giacobbe era una mezza prostituta.

Quando lui le chiede di dargli da bere, lei si stupisce della domanda, perché dalla parlata aveva capito ch’era un giudeo. Se fosse stato un galileo si sarebbe stupita di meno, anche se non mancavano frizioni politiche tra le due etnie, in quanto i samaritani offrivano truppe ausiliarie ai Romani. Ma nei confronti dei Giudei l’odio era feroce, di tipo ideologico. Tant’è che i farisei rinunciano a inseguire Gesù in Samaria per parlare con lui sull’epurazione del Tempio, che in fondo era fallita per colpa loro, come ammise Nicodemo, obtorto collo, nel suo colloquio privato con Gesù.

Per capire che Gesù aveva compiuto a Gerusalemme qualcosa di molto eclatante, la samaritana non aveva bisogno di sapere che lui era una persona speciale, in grado d’indovinare il mestiere che lei faceva. Le bastava credergli sulla parola. In fondo, se erano diretti in Galilea, non avevano bisogno di passare attraverso la Samaria: era quindi evidente che avevano necessità di farlo a titolo precauzionale.

Ma da un’altra cosa quella donna capì che Gesù era una persona diversa dagli altri uomini: portava lunghi capelli, segno del voto di nazireato. Quando gli dice: “Vedo che sei un profeta”, non intendeva dire ch’era un indovino, ma ch’era un leader, con tanto di seguaci attorno.

E gli fa quella domanda, la cui risposta per un giudeo doveva apparire scontata: “Dov’è che bisogna pregare Dio?”. Sembrava una provocazione. E lui le diede una risposta che la lasciò a bocca aperta: “Né al tempio né sul vostro monte”. Cos’era questo, un nuovo principio? Se sì, non si era mai sentito prima in Palestina. Qui Gesù parla della libertà di coscienza in merito all’atteggiamento da tenere verso le questioni religiose.

Una dichiarazione del genere era sufficiente per portare Gesù al villaggio e farlo conoscere agli altri. Nessun leader giudeo (ma neppure un galileo) avrebbe mai detto una cosa del genere.

Quando poi s’incontrarono, Gesù fece capire loro che per liberarsi dei Romani e dei sadducei collaborazionisti bisognava andare oltre le differenze religiose, oltre le separazioni etniche. Condivisero l’idea, al punto che lo definirono “Salvatore del mondo”.

Ecco ora vorrei sapere che bisogno aveva il manipolatore di aggiungere che la samaritana era una prostituta. Davvero una bassezza imperdonabile.

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6.14.1) Le due Marie

Probabilmente non sapremo mai se le due Marie (di Magdala e di Betania) coincidono. Io tendo a escluderlo, poiché si ha l’impressione che la conoscenza della sorella di Lazzaro, da parte di Gesù, sia di molto anteriore a quella della Maddalena. Inoltre quest’ultima appare politicamente più impegnata dell’altra, assomigliando, in questo, più a Marta.

Maria di Betania fu l’unica a commuovere Gesù nel IV vangelo, a testimonianza di un rapporto umanissimo tra i due, sicuramente di vecchia data, essendo entrambi giudei, ma non la si vede mai protagonista nel movimento nazareno, come invece la Maddalena, che se davvero proveniva da Magdala, era una galilea.47

Essendo il nome Maria molto comune, se davvero la sorella di Lazzaro fosse stata politicamente impegnata nel movimento di Gesù, gli evangelisti avrebbero sempre dovuto precisare ch’era imparentata con Lazzaro, per non confonderla con altre Marie. È comunque probabile che i tre fratelli fossero molto vicini alle posizioni farisaiche, poiché Marta dichiara di credere nella teoria farisaica della “resurrezione”. Ed è altresì probabile che Lazzaro fosse un leader politico dei farisei, i cui ideali di liberazione nazionale erano sicuramente condivisi dalle sorelle, visto che abitavano tutti in una stessa dimora (stranamente però, bisogna dire, poiché le ragazze nella Palestina di 2000 anni fa si sposavano molto presto, a meno che non fossero affiliati agli esseni, come alcuni esegeti sostengono).

Quel che di sicuro sappiamo è che condividevano l’operato politicamente eversivo di Gesù, essendo pienamente consapevoli della sua necessità di tenersi in clandestinità per sottrarsi alla cattura. Sapevano anche molto bene dove lui, coi suoi discepoli più stretti, si nascondeva, e quando sentono ch’era arrivato, non aspettano che lui entri a Betania, ma sono loro che gli vanno incontro, uscendo dalla località. Solo dopo essersi convinto che a Betania nessuno l’avrebbe denunciato, decide di entrarvi. Ciò significa che quanti erano andati a consolare Marta e Maria della morte di Lazzaro, potevano essere considerati degli alleati potenziali di Gesù. Non a caso fu in questa cittadina che si decise di compiere l’ingresso trionfale a Gerusalemme.

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6.15) Il ruolo di Giuda

Molti anni fa, traendo una conclusione sbagliata dal rifiuto di Cristo di diventare re e di marciare su Gerusalemme per occuparla, come gli chiedevano i 5.000 zeloti della Galilea sul Tabor, pensai che Giuda avesse iniziato a opporsi a Gesù, proprio perché essendo un estremista, sperava in una soluzione sbrigativa dell’occupazione romana (una liberazione nazionale accettata più o meno supinamente dal Sinedrio e dalle classi aristocratiche e sacerdotali della Giudea). Cioè per Giuda rifiutare una proposta come quella zelotica sarebbe stato da folli. In sostanza non aveva capito che per Gesù occorreva anche l’appoggio di buona parte dei Giudei, altrimenti contro la ritorsione delle legioni stanziate in Siria sarebbe stato impossibile resistere.

Poi, leggendo bene il racconto in cui Maria, la sorella di Lazzaro versa il profumo su Gesù, destando la riprovazione etico-economica di Giuda, mi sono ricreduto. Perché Giuda aveva detto che lo si sarebbe potuto vendere e il ricavato darlo ai poveri in un momento in cui Gesù stava per compiere l’insurrezione a Gerusalemme? Proprio perché non era sicuro che Gesù avrebbe vinto. Uno zelota non avrebbe avuto questo dubbio. Lui l’ebbe perché non era uno zelota ma uno che proveniva dagli ambienti farisaici progressisti. Probabilmente era un discepolo di Nicodemo, poiché la sua figura inizia ad apparire solo dopo l’incontro di Gesù con questo discepolo occulto, che si scusa con lui per la mancata adesione del suo partito all’occupazione del tempio. Giuda era convinto che senza l’appoggio del partito farisaico, l’insurrezione sarebbe di sicuro fallita. Insomma nutro dei dubbi che il suo soprannome (Iscariota) associ l’apostolo al partito dei sicarii, cioè in sostanza all’ideologia zelotica.48

La sorella di Lazzaro versò su Gesù un profumo molto costoso proprio perché aveva capito che Gesù sarebbe entrato a Gerusalemme per continuare gli ideali di liberazione nazionale di Lazzaro, e dava per scontato che Gesù, col consenso che aveva, avrebbe vinto. In pratica aveva anticipato con quel profumo la sua vittoria politica.

Insomma, un Giuda estremista che tradisce perché Gesù non voleva fare l’insurrezione democratico-popolare, è una tesi che non sta in piedi. Può essere giusta in riferimento al fatto che Gesù sul Tabor rifiutò di marciare su Gerusalemme per compiere un colpo di stato. Ma non può andar bene in riferimento all’ultima pasqua, proprio perché l’insurrezione Gesù voleva farla.

Per me Giuda ha tradito perché, pur essendo un fariseo che non sopportava più l’attendismo del suo partito (egli infatti entra in scena dopo la fallita epurazione del Tempio), non era mai stato un estremista o un violento. Ed era rimasto convinto che senza l’appoggio dei farisei non si sarebbe potuto far nulla in Giudea, perché qui i farisei avevano un grande consenso contro i sadducei. E io penso che quando Gesù gli disse “Ciò che devi fare, fallo presto”, voleva appunto dire di sondare se i farisei erano pronti per occupare la fortezza Antonia.

Secondo molti esegeti Giuda avrebbe tradito perché Gesù, una volta entrato a Gerusalemme, non volle imporsi subito con la forza, ma preferì parlamentare coi partiti lì presenti. Quindi egli tradì perché, a sua volta, si sentiva deluso nelle sue aspettative messianiche.

Ora però, se davvero le cose fossero andate in questi termini, perché il “democratico” Gesù affidò proprio a lui, presunto estremista, l’incarico più importante in quella fatidica notte, in cui si sarebbe dovuta compiere l’insurrezione? Giuda con chi doveva parlare? Gli zeloti, in quel momento, erano già al seguito di Gesù, e probabilmente anche molti esseni o battisti. Egli non aveva bisogno di convincere questi partiti.

Secondo me Gesù voleva sapere se i farisei erano davvero disposti a mantenere le loro promesse. Tramite Giuda aveva lanciato loro un ultimatum: o con noi o contro di noi. Non si poteva essere incerti in un momento così cruciale.

Giuda era un fariseo, progressista quanto vogliamo, ma non un estremista come uno zelota. Non aveva intenzione di tradire, ma lo fece quando vide che il suo partito non aveva intenzione di appoggiare l’operato del movimento nazareno. E probabilmente si fece promettere che non avrebbero consegnato Gesù ai Romani, ma l’avrebbero tenuto nelle carceri giudaiche. Senonché i farisei tradirono Giuda, i sadducei tradirono i farisei (consegnando immediatamente Gesù a Pilato) e Giuda s’impiccò. Questa fu la seconda volta che i farisei tradirono Gesù: la prima era stata nel corso dell’occupazione del Tempio, all’inizio della sua carriera politica.

Poi i farisei si rifecero la verginità con Paolo e altri leader (Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea, Gamaliele...), abbracciando la tesi petrina della resurrezione e della parusia imminente. Ma senza questa parusia l’idea stessa d’insurrezione non aveva più senso, per cui anche Pietro andava messo in minoranza. Ecco perché il cristianesimo si basa soprattutto sulla teologia paolina più che petrina.

In ogni caso chi sostiene, assurdamente, che Gesù conosceva già le intenzioni di Giuda, finisce con l’accettare la tesi del vangelo di Giuda, secondo cui Gesù voleva essere tradito per fare la parte di chi rispetta la volontà del Dio-padre, che chiedeva il sacrificio del figlio per riconciliarsi con l’umanità peccatrice. Così Giuda appare come l’unico apostolo che l’aveva davvero capito. Una tesi mostruosa.

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6.16) Il ruolo di Pilato

Tutti sappiamo dalle Antichità Giudaiche che il prefetto Pilato massacrò alcuni Samaritani sul monte Garizim, perché secondo lui erano armati e si stavano preparando a una rivolta popolare.

Secondo Giuseppe Flavio un sedicente profeta samaritano aveva proclamato che sul monte Garizim erano stati sepolti i vasi del (primo) Tempio e lui li aveva dissotterrati. Pilato aveva interpretato la cosa come pericolosa, per cui aveva fatto intervenire la cavalleria per disperdere i dimostranti, facendo giustiziare i più eminenti fra gli arrestati. Di qui la denuncia a Vitellio, il governatore della Siria (di rango senatorio), da cui Pilato (di rango equestre) dipendeva.49

Siccome i Samaritani fornivano truppe ausiliarie ai Romani, odiando a morte i Giudei, la delegazione ottenne immediatamente che il prefetto di Giudea e Samaria venisse inviato a Roma presso Tiberio (Vitellio non aveva il potere di nominare il successore di Pilato). Era l’anno 36, l’ultimo di Pilato in Palestina.50 Che fine abbia poi fatto nessuno lo sa con certezza. Si sa solo che uscì per sempre dalla scena politica.

Ora però ci si può chiedere. Se Pilato è davvero quello descritto dai vangeli, che manda a morte un innocente solo per fare un favore all’aristocrazia laica e religiosa (sadducei, anziani e sommi sacerdoti), nonché a una parte della popolazione strumentalizzata da queste autorità colluse col potere romano, perché il movimento nazareno non ha mandato una delegazione a protestare dal governatore della Siria?

Evidentemente perché sapeva che non avrebbe trovato soddisfazione. E perché? È semplice: tutti sapevano che Gesù costituiva una grave minaccia per le autorità romane, e nessun funzionario superiore a Pilato avrebbe potuto dargli torto. Quindi la frase che nel IV vangelo fanno dire a Gesù: “Tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse stato dato dall’alto”, non ha alcun senso, sia che si riferisca a Dio (come vogliono i credenti), sia che si riferisca a Cesare, in quanto Pilato rappresentava il cane da guardia degli imperatori e se voleva mandare a morte qualcuno per una causa di sedizione politica e armata, poteva farlo tranquillamente, senza neanche un processo farsa come per Gesù, troppo popolare per giustiziarlo come gli altri due zeloti.

Pilato non aveva bisogno di chiedere il permesso a nessuno, poiché aveva il compito di gestire l’ordine pubblico, dal punto di vista sia militare che giudiziario.51 A meno che ovviamente il condannato non avesse la cittadinanza romana (cosa che Paolo ben sapeva). Neppure gli zeloti mandarono una delegazione a protestare in Siria, anche perché Pilato, volendo, poteva comminare sentenze capitali senza processo: gli bastava il crimen laesae maiestatis.

Insomma resta poco spiegabile che l’atteggiamento remissivo nei confronti dei Giudei, assunto da Pilato durante il processo, sia così nettamente in contrasto con la descrizione che di lui dà Filone. Si ha cioè l’impressione che l’antigiudaismo dei vangeli da una parte e il filogiudaismo filoniano dall’altra, abbiano prodotto due raffigurazioni entrambe falsate. Cioè pur avendo un medesimo intento, quello di rimarcare il lealismo nei confronti dell’impero romano, l’ebreo Filone accusa Pilato di non permettere agli ebrei di essere leali come vorrebbero, mentre gli evangelisti presumono di dimostrare d’essere molto diversi dagli ebrei, che fecero compiere a Pilato una cosa spregevole.

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6.16.1) Pilato cristiano?

Che senso ha che Pilato venga considerato, a partire dal VI sec., un testimone e martire di Cristo dalla Chiesa copta d’Egitto? Alla luce di ciò che scrissero di lui Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, pare cosa davvero assurda.

Nel suo Legatio ad Gaium Filone lo descrive come una persona corrotta, violenta, abituata a rubare, offendere, maltrattare e condannare a morte senza processo.52 Rispetto a Giuseppe Flavio calca molto la mano, al punto che tutto questo disprezzo sembra in realtà essere un cliché ch’egli usa nei confronti di qualunque nemico di Israele. Infatti, se davvero Pilato fosse stato così (come gli altri procuratori venuti dopo di lui), non sarebbe di sicuro durato un decennio, un periodo insolitamente lungo per un prefetto.

Non bisogna inoltre dimenticare che le popolazioni sottoposte ai Romani potevano sempre denunciare i funzionari di Cesare, e a Roma, dove il diritto aveva un certo valore, si ascoltavano le denunce esposte dagli ambasciatori dei Paesi colonizzati.

Anche Flavio Giuseppe lo descrive negativamente, ma fino a un certo punto. In un evento Pilato aveva intenzione di massacrare quei Giudei che si fossero opposti alla sua provocazione di trasferire a Gerusalemme alcune insegne dell’imperatore (contravvenendo alla norma ebraica di non introdurre raffigurazioni iconiche nella città), ma poi, vedendo che i Giudei non si preoccupavano affatto di dover morire, alla fine desistette.

L’altro episodio in cui Pilato deve rinunciare ai suoi proposti è quello di costruire un acquedotto per Gerusalemme usando i fondi del Tempio. Aveva dalla sua il consenso dei sadducei, ma la popolazione non ne volle sapere e fu disposta persino a farsi ammazzare. In un altro episodio egli volle ordinare di appendere nella reggia di Erode il Grande a Gerusalemme alcuni scudi aurei, aniconici, col nome del dedicante, Pilato, e di colui cui erano dedicati. Gli Ebrei però ricorsero all’imperatore Tiberio, che gli ordinò di mettere gli scudi nel tempio di Augusto a Cesarea.

Ciò dimostra che Pilato era anche disposto a mediare. Cosa che non seppero o forse non vollero fare i suoi successori. E il motivo è semplice: negli anni 50-60, finite le contese politiche interne per la gestione dell’impero, lo Stato romano era diventato più forte e tendeva a ridurre il peso delle autonomie locali. Non costava nulla ai procuratori da Felice (52-50) a Floro (64-66) essere molto più repressivi e intransigenti. Volevano chiaramente la guerra e, con varie provocazioni o pretesti, a un certo punto la ottennero. E siccome contavano sul fatto che gli ebrei erano divisi tra loro, sia a livello socio-politico che etnico-tribale, la vinsero abbastanza facilmente. I circoli di potere giudaici non si misero mai dalla parte del movimento di resistenza popolare.53

È però evidente che se si esula dalle suddette fonti ebraiche e ci si basa soltanto su quelle cristiane (canoniche e apocrife), il ritratto che si ottiene di Pilato è del tutto diverso. Egli non è più il “mastino” dell’imperatore in una delle colonie dell’impero, ma un magistrato formalmente corretto, giuridicamente equo, che viene raggirato dai “perfidi Giudei” e indotto a compiere una cosa vergognosa, che, se fosse dipesa da lui, non avrebbe mai fatto.

Il vangelo matteano (27,19ss.) su questo è chiaro: Pilato (già informato dalla moglie di non intromettersi nelle faccende di Gesù), si lava le mani davanti alla folla, dichiarandosi innocente di quella esecuzione che non avrebbe voluto compiere, e i Giudei gli rispondono di accettare che il sangue versato da Gesù debba ricadere su di loro e sui loro figli. Siamo dentro alla leggenda più pura, come spesso succede in Matteo, ma siamo anche dentro un marcato antisemitismo.

In ogni caso, se si fanno proprie le tesi dei vangeli, e ad esse si uniscono le informazioni (anch’esse antisemitiche) che ci giungono dai testi apocrifi e leggendari, diventa inevitabile considerare Pilato un santo, se non addirittura un martire cristiano (che finì decapitato). Sarebbe stato sufficiente dipingerlo come un “pentito”, come una persona che aveva preso a disprezzarsi per la propria pusillanimità, per il proprio opportunismo, per il timore che qualcuno potesse inviare a Tiberio un rapporto a lui sfavorevole.

Sappiamo di certo che Pilato cadde in disgrazia quando a Tiberio successe Caligola, l’imperatore megalomane che voleva installare una propria statua nel Tempio di Gerusalemme e obbligare i Giudei a prestargli un culto come fosse una divinità. Persino i pretoriani, che lo assassinarono dopo quattro anni di governo, si erano resi conto ch’era totalmente pazzo.

In ogni caso dopo il decennio di Pilato i governatori romani divennero in Palestina molto intolleranti, per cui la guerra totale fu inevitabile. E il destino degli ebrei fu segnato, poiché dopo il Cristo nessun leader ebbe la sua lungimiranza politica, la sua capacità strategica. Gli ebrei si sono distrutti con le loro stesse mani.

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6.16.2) La moglie di Pilato

Da notare che la moglie di Pilato, Claudia Procla (o Procula), non viene considerata santa solo dai copti ma anche da tutti gli ortodossi.

Non si capisce perché l’abbiano fatto: si sono basati unicamente su Mt 27,19, in cui lei chiede al marito di non impicciarsi del caso Gesù, poiché teme conseguenze nefaste, oppure perché il suo nome (Claudia) coincide con quello della seconda lettera paolina a Timoteo (4,21), in cui appare come una cristiana di origine pagana? I primi riferimenti alla sua conversione risalgono solo alla fine del II sec. con Origene (185-254).

In realtà di lei non si sa nulla: ci sono testi che la vedono separata dal marito, altri invece la vedono sepolta (e addirittura martirizzata) insieme a lui. Stando al periodo in cui visse (puramente leggendario: 6-81 d.C.), non morì martire ma di vecchiaia. La sua presenza è attestata in numerosi luoghi del Mediterraneo.

La sua dichiarazione riportata nel vangelo matteano è in realtà un tropo già presente nei testi di Giuseppe Flavio, là dove si citano donne pagane di stirpe nobile simpatizzanti per il giudaismo.

Di lei si parla ampiamente negli apocrifi Lettere di Procula e Vangelo di Nicodemo (Atti di Pilato). In quest’ultimo i Giudei mettono in guardia Pilato dal non credere all’affermazione della moglie, in quanto secondo loro Gesù era capace di stregoneria e poteva benissimo aver inviato a Procla un sogno a suo favore (!).

La cosa curiosa è che nella Chiesa cattolica non è mai stata canonizzata, semplicemente perché il suo sogno su Gesù, rivelato al marito, fu interpretato come proveniente dal “demonio”, che voleva impedire la “salvezza” del genere umano in virtù dell’autoimmolazione del Cristo. Così la pensavano Rabano Mauro, Beda, Bernardo di Chiaravalle. Ma anche Lutero. Altri invece (Agostino, Girolamo, Calvino), pur non avendo sostenuto l’origine divina del sogno, la ritenevano una santa.

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6.17) La questione del nome di Barabba

Per me può essere attendibile che Pilato, avendo a che fare con un leader molto popolare come Gesù, abbia cercato degli escamotage per farlo fuori senza scatenare una protesta popolare. Da notare ch’egli non è mai stato denunciato per aver liberato un condannato a morte. Certo, uno può pensare che non sia scattata la denuncia, perché in realtà lui non fece mai una cosa del genere, che in effetti per un magistrato romano sarebbe stata impensabile. È fuor di dubbio, tuttavia, che se qualcuno l’avesse denunciato, lui si sarebbe difeso dicendo che l’aveva fatto per ottenere un risultato ancora più grande, e che in definitiva sarebbe stato in grado di riprendere Barabba piuttosto facilmente, mentre non avrebbe potuto dire la stessa cosa di Gesù. In tal caso difficilmente un suo superiore l’avrebbe contestato. I Romani sapevano essere anche molto pratici.

Nel corso del processo farsa Pilato scelse tre escamotage fondamentali, in ordine cronologico: il primo è quello di fingere di non sapere nulla di Gesù, cioè della sua pericolosità eversiva, della sua intenzione di diventare “re d’Israele” (che fu poi il titulus crucis, un titolo falso non perché Gesù non fosse un leader politico, ma perché non aspirava a diventare re)54; il secondo è quello di far scegliere al popolo chi liberare (una prassi giudiziaria molto strana, ma che si può accettare considerando l’alta pericolosità di un detenuto che andava giustiziato seduta stante); il terzo è quello della pesante fustigazione, decisa in considerazione del fatto che i Giudei, dopo aver scelto come leader politico Barabba, che in quel momento per loro dava maggiore affidamento contro Roma, non avrebbero avuto problemi a vedere l’altro leader in condizioni tali per cui non sarebbe stato in grado di fare alcuna insurrezione neanche se fosse stato liberato.

In questa maniera Pilato poteva sempre far vedere che non era stata solo la dittatura romana a farlo fuori, ma anche, in ultima istanza, la democraticità degli ebrei. Cioè in nome della democrazia (per acclamationem) gli ebrei avevano punito il leader più democratico (quello che il prefetto considerava molto più pericoloso), nella convinzione, del tutto erronea, che per lui fosse più pericoloso l’estremista Barabba.

Da tempo sappiamo che “Barabba” vuol dire “figlio del padre”, quindi non è un nome proprio di persona.55 Gli evangelisti hanno usato questa fittizia denominazione semplicemente per nascondere il vero nome. Perché l’han fatto? Secondo me perché in questa maniera sarebbe stato impossibile capire che l’alternativa a Gesù era un leader politico di origine galilaica o addirittura di livello nazionale, non meno importante di Gesù.

Mettiamoci nei panni dell’evangelista. Se censuro il nome di un leader zelota posso ottenere due vantaggi considerevoli: il primo è quello di far vedere che Gesù non aveva alcunché di politico; il secondo è quello di far vedere che gli ebrei erano così “maledetti” che al posto di un uomo dalla natura divina, che aveva solo fatto del bene a chiunque, preferirono un assassino, un comune criminale. In questa maniera veniva pienamente soddisfatto il loro netto antisemitismo.56

In tal senso Mauro Pesce, che non sopporta l’idea che i vangeli vengano considerati dei testi antisemitici, ritiene che l’intera vicenda di Barabba sia del tutto inventata. Altri però (p.es. J. Gnilka, R. E. Brown…) la ritengono plausibile. R. Bultmann pensa invece che la grazia a Barabba sia stata ispirata a un episodio realmente accaduto anni dopo la vicenda di Gesù e utilizzato dagli evangelisti per fini apologetici.

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6.18) La flagellazione del Cristo

Due parole sulla flagellazione. Secondo il resoconto di Giovanni (manipolato da qualche redattore filoromano), Pilato lo fece flagellare non solo per dare soddisfazione ai notabili ebrei che lo accusavano, ma anche per impietosire il popolo giudaico, sperando di poterlo liberare. Tuttavia i sacerdoti non si accontentarono e la folla, da essi sobillata, continuò a chiedere a gran voce la sua condanna a morte, che Pilato infine concesse.

In merito alla flagellazione di Gesù, gli evangelisti riportano differenti resoconti: Lc 23,16-26 parla di “fustigazione” (una pena meno grave in cui di sicuro non si frustava l’intero corpo) e la pone a metà processo, senza evidenziare che tale pena sia poi stata applicata; Gv 19,1-17 parla invece di “flagellazione” (pena più severa, in cui si colpiva il condannato con un flagello, cioè una frusta, fatto di lacci di cuoio aventi in punta schegge d’ossa, piombi e pungiglioni) e la pone, come Luca, a metà processo; Mc 15,15-16 e Mt 27,26-27 fanno invece riferimento a una flagellazione a processo terminato, senza capire che non si trattava affatto di un atto formale. Inoltre, mentre in Giovanni la flagellazione fu fatta dentro il pretorio, invece in Marco e Matteo fu fatta fuori (il che è assurdo, poiché chiunque si sarebbe accorto che non sarebbe stata una flagellazione regolare, né avrebbero tollerato tutte le torture e gli scherni fatti dai militari a Gesù). Quindi si può legittimamente sostenere che l’unico testimone di questo processo fu l’apostolo Giovanni, il cui resoconto venne però manomesso da mani antisemitiche.

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6.19) La morte di Gesù

Perché si è fatto ammazzare come Spartaco, come uno schiavo ribelle? Non poteva dire a Pietro: “Ora ti faccio vedere con 12 legioni di angeli cosa sono in grado di fare”? Quando sulla croce gli han detto: “Salva te stesso se ci riesci”, perché non è sceso, facendo sbigottire i suoi nemici? Quando sulla croce si lamentava d’essere stato abbandonato, perché nessuno è insorto? O perché Jahvè non è intervenuto?

Voleva forse assaporare la sofferenza sino al massimo livello? Chi lo obbligava a farlo? Era forse un folle che voleva fare del proprio supremo sacrificio un esempio da imitare? Era forse convinto che gli uomini, se non vedono esempi così cruenti, non riescono a convincersi della verità delle cose? Voleva forse dimostrare che quanto più si soffre, tanto più si ha ragione sul piano degli ideali o dei valori? O voleva forse far capire che da quando gli uomini han rifiutato il “paradiso terrestre” non hanno più la possibilità di rientrarvi con le loro forze o capacità?

Può un leader che ha sempre predicato la democrazia e l’uso della libertà di coscienza, imporsi con un colpo di stato militare? Davvero sulla croce è stato sconfitto lui e non invece l’idea di “partecipazione popolare” o l’idea di “autonomia decisionale” che devono avere i seguaci di un movimento democratico?

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6.19.1) Gesù e la democrazia giudaica

Noi dovremmo riflettere su una cosa molto sconcertante. Al tempo di Gesù Cristo la Palestina era dominata da due dittature: quella romana (che pur non aveva ancora conquistato Galilea e Perea, gestite da Erode Antipa, amico dei Romani) e quella dei sadducei, che gestivano il Tempio e il cui sommo sacerdote veniva scelto dai Romani.

Indubbiamente Gesù fu fisicamente eliminato da queste due dittature, ma chi lo consegnò nelle loro mani fu buona parte del popolo ebraico. Cioè la principale responsabile della sua morte non fu la dittatura ma la democrazia!

I tentativi insurrezionali furono due, uno contro il Tempio, l’altro contro la fortezza Antonia. Fallirono entrambi per colpa della indecisione dei farisei, che erano stati eversivi solo al tempo di Erode il Grande, quand’erano alleati con gli zeloti, e che al tempo di Gesù erano circa in 6.000, stando a Giuseppe Flavio. Dopo il 70 sostituirono i sadducei, completamente distrutti, e una parte creò il cristianesimo, con Paolo, che proseguì sul misticismo impostato da Pietro dopo la morte di Gesù, con la sua teoria della morte necessaria voluta dalla prescienza divina. L’altra parte sviluppò l’ebraismo in tutto il mondo, cioè il giudaismo rabbinico.

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6.19.2) La data della morte di Gesù

È davvero importante sapere quando è morto Gesù? Sì, perché il IV vangelo dimostra di essere più preciso dei Sinottici.

Gesù è stato crocifisso venerdì 14 di Nisan (e non il 15), verso mezzogiorno (e non verso le 9, come vuole Marco). Il giorno successivo era il sabato pasquale (cioè in quell’anno la pasqua cadeva di sabato). Giovanni nega che l’ultima cena sia stata una cena pasquale ebraica.

Tra gli anni 26 e 36, quelli del mandato di Ponzio Pilato, vi sono solo i seguenti giorni in cui il 14 di Nisan è caduto di venerdì. Usando il calendario giuliano, si hanno:

- 22 marzo 26: da escludersi perché troppo lontana dalla predicazione del Battista e troppo a ridosso dalla nomina di Pilato e di Caifa;

- 7 aprile 30: data molto probabile e coincidente con la data delle due monetine coniate da Ponzio Pilato nel 29/30, cioè nell’anno XVI dell’imperatore Tiberio, trovate sulle palpebre del Cristo della Sindone; è inoltre compatibile con gli anni di Gesù: 33; ed è in accordo con l’ipotesi dell’inizio del ministero nel 28 e con gli accenni in Giovanni delle tre pasque;

- 3 aprile 33: anche questa è una data probabile;

- 30 marzo 36: da escludersi perché troppo recente, troppo coincidente con la rimozione di Pilato e di Caifa.

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6.19.3) Ai piedi della croce

Noi non sapremo mai se ai piedi della croce c’era davvero la madre di Gesù o se dietro il suo nome si celi un’altra donna. Che ci faceva Maria a Gerusalemme? Non viveva in Galilea? Oppure ha sempre vissuto in Giudea? Era forse entrata nel movimento nazareno e aveva seguito il figlio nell’ultimo ingresso pasquale? Ma Gesù non le aveva detto che poteva essere pericoloso, in quanto andava a fare un’insurrezione con un movimento armato?

Di più: se anche lei fosse stata presente in quel momento, che senso aveva affidarla a Giovanni? Gesù non aveva forse altri quattro fratelli e almeno due sorelle? Non sarebbe stato meglio farla assistere a un parente più prossimo? Lo dico anche nel caso in cui non fossero stati fratelli e sorelle carnali. Per gli ebrei di allora i rapporti tra consanguinei erano molto importanti. O forse Gesù era davvero figlio unico e non sapeva davvero a chi affidare la propria madre?

Insomma che cosa voleva dimostrare? Che Giovanni era il suo vero successore, avendo avuto la richiesta di assistere sua madre, la quale avrebbe dovuto accoglierlo come se fosse stato suo figlio? Oppure il contrario, e cioè che, essendo Giovanni di carattere troppo debole per prendere le redini del movimento nazareno, sarebbe stato meglio che si fosse occupato di una donna anziana? Gli esegeti pensano che l’abbia assegnata a Giovanni perché era il più giovane e l’unico non sposato tra gli apostoli (e non intenzionato a farlo); inoltre coi parenti Gesù non andava molto d’accordo (basti pensare che chi gestisce la comunità dopo la parentesi di Pietro, è un suo fratello o fratellastro o cugino, Giacomo il Giusto, che del Cristo non aveva capito niente, in quanto voleva continuare sulla scia di tutte le tradizioni giudaiche).

Che ci sia la Maddalena dietro il nome di Maria? Che Gesù abbia voluto dire ai suoi due migliori discepoli di mettersi insieme e di fare qualcosa di politicamente utile per il loro Paese? Aveva forse chiesto a loro di sposarsi, visto che la Maddalena, che nutriva un debole sentimentale per Gesù, non aveva potuto farlo a causa del voto di nazireato che lui aveva pronunciato al tempo in cui frequentava il Battista? Non vi è dubbio infatti che la Maddalena era presente ai piedi della croce: infatti sa benissimo in quale sepolcro vanno a mettere il cadavere. E lo sa anche Giovanni, tant’è che non ha bisogno, mentre corre insieme a Pietro, che sia la Maddalena ad accompagnarli.

Sappiamo soltanto che quanto Gesù ha detto sulla croce è molto strano. Peraltro le due affermazioni paiono nettamente tautologiche: dire “Figlio, ecco tua madre” o dire “Madre, ecco tuo figlio” (Gv 19,26s.), è dire la stessa cosa. È vero che questi rafforzativi che danno enfasi a decisioni importanti non sono rari nel linguaggio semitico, ma non è da escludere, visto che la tradizione (inclusa quella pittorica) presenta sempre Giovanni e le due Marie ai piedi della croce, che Gesù abbia chiesto ai tre soggetti di restare insieme.57

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6.20) Ha senso parlare di "Cristo risorto"?

Anche dando per certo che Gesù sia “risorto”, cioè abbia compiuto qualcosa di straordinario per un essere umano, è assolutamente ingenuo pensare che solo per questa ragione ci si debba sentire autorizzati a credere ch’egli in vita abbia compiuto tutti i prodigi o abbia detto tutte quelle frasi mistiche che i vangeli gli attribuiscono. Per una qualunque esegesi un minimo critica la base di partenza è quella di considerare Gesù un semplice uomo, che non fece e non disse nulla che andasse oltre le umane capacità di realizzazione e di comprensione. E se anche con la sua morte si poté constatare qualcosa di anomalo nella tomba, va tassativamente escluso che il suo corpo sia stato rivisto vivo. Come d’altra parte va considerata arbitraria l’idea di costruirci sopra un’ideologia religiosa che attribuisca al Cristo una natura divina nei confronti della quale si debba assumere atteggiamenti reverenziali. Noi siamo tenuti a liberarci da soli dei nostri problemi relativi a giustizia e libertà. Non siamo autorizzati ad andare oltre questo suo semplice insegnamento.

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6.20.1) Nascita e morte non spiegabili

Supponiamo che la Sindone sia vera, un reperto autentico di duemila anni fa, e che l’immagine impressa sia quella di Gesù Cristo: cosa c’impedisce dal credere che, come una morte è avvenuta in maniera strana (per noi inspiegabile), così è stato anche per la sua nascita?

Supponiamo che Gesù sia una specie di “extraterrestre”. Generalmente nella nostra fantascienza questi soggetti vengono raffigurati in maniera negativa, come individui pericolosi, intenzionati a dominare il mondo e con criteri o metodi per noi incompatibili. Spesso ci comportiamo così, nel nostro immaginario collettivo, perché siamo abituati a vedere che chi dispone di potere politico, militare, economico, lo fa senza rispettare i diritti altrui, per cui applichiamo agli alieni quegli stessi atteggiamenti che abbiamo noi quando disponiamo di un certo potere.

Oppure ce li rappresentiamo in maniera altamente negativa, perché così chi ha più potere nel nostro pianeta, può pretendere cieca obbedienza per poterli combattere. Parliamo di “oggetti non identificati” proprio perché i potenti della Terra vogliono essere ben “identificati” come soggetti dal potere assoluto, come gli unici veri “salvatori” (che nei fumetti vengono chiamati “supereroi”).

Più in astratto potremmo dire che noi abbiamo una percezione preoccupata, anzi allarmata degli alieni, non solo perché siamo condizionati dai film di fantascienza, ma anche perché ci sentiamo appartenere esclusivamente al nostro pianeta, cioè non ci sentiamo “figli dell’universo”. Sulla Terra abbiamo la sensazione di sentirci abbandonati, sperduti nel cosmo, un puntino insignificante rispetto alla sua vastità infinita, vincolati a una galassia fra le miliardi esistenti. Forse in origine non avevamo questa convinzione: ci sentivamo in sintonia con tutto il cosmo osservabile, come parte organica di un tutto infinitamente più grande di noi.

L’extraterrestre Gesù non era però un “alieno”, ma un “essere umano”. Per dimostrare ch’era come noi, si è per così dire “incarnato”, nascendo da una donna qualunque. Se non avesse avuto una natura umana, avrebbe potuto nascere in maniera diversa, come uno dei tanti animali del pianeta o come nessuno di loro. Cioè avrebbe potuto avere sembianze molto diverse dalle nostre, oppure avrebbe fatto in modo di assumere le nostre in forma apparente, per non intimorirci (come in quella serie televisiva americana chiamata “Visitors”, della metà degli anni ’80).

Tuttavia, se fosse stato molto diverso da noi, chi gli avrebbe creduto? Chi l’avrebbe seguito in un progetto di liberazione nazionale? Come sarebbe stato possibile parlargli tranquillamente? Doveva per forza avere le nostre stesse sembianze e mantenerle quotidianamente, senza soluzione di continuità, altrimenti ci saremmo spaventati, o quanto meno sentiti in imbarazzo. Avremmo sempre potuto pensare che l’alieno aveva un secondo fine, a noi ignoto, e che l’avrebbe manifestato solo dopo aver acquisito un certo consenso popolare.

Bisogna anche dire che Gesù non era esattamente come noi, altrimenti sarebbe nato in maniera normale, attraverso un uomo e una donna, benché di questa strana nascita nessuno fosse consapevole, se non sua madre, che però non era stata in grado di spiegarsene le modalità.

Supponiamo quindi che Gesù sia nato soltanto da una donna, per “partenogenesi”, senza alcun intervento maschile, secondo una procedura che ci è del tutto ignota. Ha dovuto farlo per dimostrare ch’era umano come noi, anche se non lo era del tutto.

Ora chiediamoci: aveva a disposizione un’altra maniera per dimostrare che in lui c’era qualcosa in più, che a noi sfugge? Evidentemente no. Infatti se fosse nato da due persone comuni e poi avesse dimostrato d’essere una persona virtuosa, affidabile, in grado di diventare un leader per il suo popolo, cosa si sarebbe pensato? Che Dio l’aveva scelto tra tanti uomini, l’aveva cioè “adottato”, predestinandolo a un ruolo di spicco, autorevole, come già aveva fatto col Battista. In questo modo si sarebbe dovuta ammettere l’esistenza di un Dio d’importanza superiore a quella di Gesù, e quest’ultimo sarebbe apparso come una sorta di “figlio” prescelto dall’imperscrutabile volontà divina.

In fondo l’antica eresia adozionista diceva questo. La si sostenne sin dal tempo degli ebioniti, avversi alla teologia paolina, e ci si credette per molto tempo, anche da parte di persone influenti, come p.es. Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia di Siria dal 260 al 272. Apparentemente sembrava una teoria ateistica, in quanto toglieva al Cristo qualunque aspetto “sovrumano”, ma nella realtà affermava il più tradizionale teismo, che noi invece oggi non possiamo assolutamente accettare. Infatti con la propria incarnazione umana Gesù ha dimostrato che non esiste alcun “Dio” che gli sia superiore. Per questo dobbiamo considerare Gesù un “ateo”.

È vero, a quel tempo in Palestina chi voleva fare politica l’associava sempre alla religione. Ma siccome in questo modo era impossibile ottenere l’unità di Giudei, Galilei, Samaritani, Idumei contro i Romani, a meno che un partito non s’imponesse con la forza, come fecero gli zeloti durante la guerra giudaica, ritengo che il Cristo avesse scelto apposta la soluzione atea o comunque laica, indifferente alla religione, mettendo le questioni politiche in primo piano e lasciando sullo sfondo quelle ideologiche.

Certo, Gesù è scomparso dal sepolcro in maniera strana, come mai prima nessuno aveva fatto, e sulla base di questa scomparsa chi l’ha tradito dopo morto, cioè anzitutto Pietro, ha inventato una nuova religione, meno politicizzata dell’ebraismo ma più universalista. E se anche supponiamo che sia nato in maniera strana nel ventre di una donna, bisogna comunque ammettere che tutto quanto di straordinario ha compiuto in vita va considerato falso o inventato. Nel senso che dalla nascita alla morte in croce non fece mai nulla per apparire diverso da noi. Tutti i racconti di miracoli e di guarigioni strabilianti e tutti i racconti di riapparizione del suo corpo redivivo vanno considerati una pura e semplice mistificazione, al punto che si è quasi costretti ad ammettere che i miticisti (o mitologisti) han tutte le ragioni di questo mondo a sostenere che un Cristo del genere non può assolutamente essere esistito. Detto altrimenti: anche ammettendo che Gesù sia scomparso in maniera strana o innaturale, non per questo si devono accettare tutti i miracoli che ha compiuto (come han fatto i redattori evangelici). Questa inferenza che si presume “logica”, è in realtà del tutto arbitraria.

Secondo noi, piuttosto che pensare all’esistenza di un Dio-padre che invia sulla Terra un Dio-figlio (in grado di compiere qualunque prodigio), è preferibile credere che non esista alcun “Dio” superiore al Cristo e che Cristo era, tutto sommato, un uomo come noi (o comunque non dimostrò neanche una volta che in sé vi erano aspetti che potevano trascendere la natura umana). Se non fosse stato così, riconoscersi tranquillamente in lui sarebbe stato impossibile. Qualunque aspetto di natura mistica o fideistica presente nei vangeli va reinterpretato in chiave laica.

Immaginiamo per un momento se i racconti di miracoli siano stati scritti per dimostrare ch’egli aveva una natura divina. Se davvero li avesse fatti, avrebbero profondamente intimorito i testimoni oculari (e reso ancora più scettico chi faceva fatica a credere nelle sue parole: non a caso nei vangeli lo consideravano un “indemoniato”). È puerile pensare che un leader politico si possa far valere esibendo i propri poteri sovrumani, schiacciando la libertà di coscienza dei propri seguaci, che invece devono sempre essere lasciati liberi di credere o di non credere in lui, nelle sue parole e nelle sue azioni.

Di fronte a una persona dai poteri straordinari chiunque poteva legittimamente pensare che Gesù avrebbe potuto fare qualunque cosa se solo avesse voluto. E così saremmo rimasti dei bambini, che devono sempre ricorrere all’aiuto di una persona più grande per risolvere i problemi più difficili, quelli che appaiono irrisolvibili. Alla fine, poi, non ci saremmo assunti alcuna responsabilità per il modo in cui l’hanno ammazzato. Avremmo sempre potuto dirgli: “Se davvero pensi d’avere poteri speciali, scendi dalla croce e fai vedere chi sei”.

Di sicuro, non esistendo alcun Dio onnipotente e onnisciente, dobbiamo scartare a priori la teoria secondo cui Dio-padre avrebbe inviato sulla Terra il proprio figlio unigenito per compiere un’opera redentiva, di cui il genere umano aveva bisogno sin dai tempi del cosiddetto “peccato originale”, quella colpa che ci ha fatti uscire dall’Eden (la foresta paradisiaca) e piombare nella savana, per andare poi a fondare delle società urbanizzate nei luoghi paludosi del pianeta, dove i fiumi esondano periodicamente. È tutta assurda l’idea che, siccome ci è impossibile tornare al comunismo primitivo, Dio-padre ci avrebbe inviato il figlio per non farci disperare, cioè per farci credere che dobbiamo conservare la speranza di tornare a essere normali in un’altra dimensione, di tipo “ultraterreno”. Della teologia paolina non possiamo salvare nulla.

Dobbiamo invece credere che l’operato di Gesù era finalizzato a ricreare sulla Terra ciò che abbiamo perduto e quasi dimenticato quando, circa seimila anni fa, siamo passati dal comunismo primordiale alle prime società schiavistiche. Egli si era “incarnato” nel momento in cui esisteva ancora una possibilità concreta per invertire il cammino intrapreso, una possibilità che avrebbe potuto essere realizzata dal popolo ebraico, se solo avesse seguito le sue indicazioni di metodo e di contenuto. Più che a “redimere” moralmente chi si sentiva peccatore, più che a “giudicare” chi aveva la pretesa di non sentirsi peccatore di nulla, Gesù era venuto per “liberarci” dalla schiavitù fisica, materiale. Si poneva come leader di un movimento di liberazione sociale e politico, ed è solo in questa maniera che possiamo riattualizzarlo.

Certo, ci possiamo chiedere perché abbia tardato così tanto a intervenire: in fondo lo schiavismo era nato 4.000 anni prima in Mesopotamia e in Egitto. È che gli uomini devono prima misurarsi con le loro forze. È giusto aspettare di vedere fin dove possono arrivare da soli. Anche noi lo facciamo coi nostri figli.

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6.20.2) Una morte da reinterpretare

Anche supponendo che il Cristo sia davvero risorto, per quale ragione un credente deve arrivare a dire che di tutto quello ch’egli ha fatto e detto in vita, questa è stata la cosa più significativa? Cioè perché vincere la morte va considerato assolutamente più importante che costruire una società più libera e giusta?

Si rendono conto i credenti che Gesù Cristo avrebbe potuto infischiarsene dei gravi problemi sociali della Palestina, oppure affrontarli solo in chiave etico-religiosa, cioè in maniera astratta, ancorché universalistica, per poi morire di vecchiaia e risorgere ugualmente? Se si fosse comportato così, sarebbe stato apprezzato nella stessa identica maniera? Se per loro la cosa più importante è la resurrezione, che bisogno aveva Gesù di farsi ammazzare?

È vero, i credenti danno molta importanza alla morte violenta in croce, oltre che alla resurrezione, ma proprio quel tipo di morte indica ch’egli era un politico, non un semplice profeta morale.

Chiediamoci: se la resurrezione era inevitabile, e lui avesse trionfato politicamente, che interpretazione avrebbero dato i credenti alla sua vita? Come avrebbero potuto darne una di tipo religioso, visto che lui in vita non si era comportato come un credente ma come un ateo? Cioè il fatto che risorgesse dalla morte andava per forza interpretato in chiave mistica? Perché invece non chiedersi se questo tipo d’interpretazione non riflette una concezione alienata della vita? Per quale motivo facciamo così tanta fatica ad ammettere che l’essere umano non è semplicemente un ente di natura ma anche un ente universale? Ente universale vuol dire che la dimensione terrena e quella extraterrena non sono incompatibili o irriducibili o incomunicabili. La loro coesistenza andrebbe vissuta come una dimensione presente. È soltanto in una percezione alienata della realtà che appaiono separate.

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6.20.3) Perché un Cristo divino viola la coscienza?

Supponendo che il Cristo fosse davvero stato il figlio unigenito di Dio, cioè supponendo che avesse una natura divina in via esclusiva (non in forma allegorica o metaforica) e avesse in qualche modo cercato di dimostrarlo con guarigioni e miracoli al di là delle capacità umane, non avrebbe forse, in tal modo, violato immediatamente la libertà di coscienza degli esseri umani, che vanno lasciati liberi di credere o di non credere? Quando esistono forzature o evidenze che inducono a credere in qualcosa (tanto più in qualcosa di sovrannaturale), gli esseri umani non vengono forse inevitabilmente ridotti a marionette o ad animali da addestrare?

Si noti peraltro che nei vangeli si parla sempre di un “maschio” nato da un altro “maschio”, senza alcuna presenza femminile ben distinta, se non quella vaga della “ruah” ebraica, poi trasformata in “pneuma” dai redattori cristiani. Non è forse questa una patente violazione del principio dell’uguaglianza di genere?

*

Certo, uno può chiedersi il motivo per cui un uomo, in grado di risvegliarsi nella tomba, non abbia cercato di evitare una morte così dolorosa e umiliante come quella della croce. Ma l’idea ch’egli l’abbia accettata per riconciliare Dio-padre in collera col genere umano peccatore, facendo cioè vedere, col proprio sacrificio a nostro favore, che, nonostante tutto, l’umanità meritava ancora di esistere, non è un’idea più nobile di quella che laicamente egli voleva dimostrare, e cioè che gli uomini devono liberarsi da soli delle loro contraddizioni: non possono aspettare che qualcuno lo faccia per loro.

Non è singolare che nella teologia cristiana si dica che il sacrificio di Cristo ci ha definitivamente salvati dall’ira divina, quando proprio il fatto di non aver accettato la sua proposta di liberazione ci ha condannato a vivere un’esistenza infernale? Perché i cristiani dicono che non potrà più esserci un sacrificio più grande del suo, quando in questi ultimi due millenni la stragrande maggioranza dell’umanità ha sempre compiuto sacrifici inauditi per sopravvivere, cioè per non estinguersi di fronte alle proiezioni di potenza delle varie civiltà antagonistiche? Davvero il Cristo era destinato a essere trasformato da liberatore a redentore? da politico a teologico? da umano a divino? Perché, se non lo fosse stato, non l’avremmo comunque considerato una persona eccezionale? degna d’essere imitata, facendo cose anche più grandi delle sue?

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Anche supponendo che Gesù Cristo sia stato un extraterrestre dai poteri sovrumani, di sicuro, a contatto con gli umani, non avrebbe potuto esibirne neanche uno. A meno che non avesse voluto violare la libertà umana di credere o di non credere.

Tutto quanto di straordinario ha compiuto, che va ben oltre le capacità umane, dipende dal fatto che i redattori avevano accettato l’interpretazione petrina della tomba vuota come resurrezione. È evidente che se uno da morto è in grado di tornare in vita, allora da vivo sarebbe stato in grado di fare qualunque cosa. Ecco perché tutto quanto ha compiuto di straordinario va considerato inventato. Spesso anzi viene utilizzato per mistificare eventi realmente accaduti.

E se Gesù fosse stato un essere umano come noi, seppur proveniente da una dimensione cosmica che al momento ci è ignota; se fosse venuto semplicemente a dirci come eravamo in origine, prima che iniziassimo a odiarci a partire dalla nascita dello schiavismo58; se non esistesse nessun “regno” da costruire, poiché non vi è nessun “sovrano” cui obbedire; se l’unico compito che abbiamo, sul nostro pianeta e nell’universo, è quello di essere umani e naturali, di vivere in pace con gli altri, di rispettare la libertà di tutti; se ci accorgessimo che non esistono religioni o ideologie che demandano ad altri questo compito o che lo regolamentano con leggi scritte; se scoprissimo che l’unico vero miracolo dell’universo siamo noi stessi e che non ha alcun senso essere credenti o non credenti in qualcosa che non esiste o che pensiamo debba per forza esistere. Se tutto questo fosse vero, come ci comporteremmo? Continueremmo a restare divisi, fermi nelle nostre convinzioni? Cosa penseremmo? Che è morto per niente, tanto noi continueremo a restare le bestie di sempre? E che se non è lui a imporsi, noi non smetteremo di essere delle bestie?

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Le tesi evangeliche (canoniche e apocrife) sono stereotipate, poiché Gesù appare come un profeta che predica un regno non per questo mondo. Tutti i redattori, sulla base della teologia petro-paolina, han trasformato il Cristo politico liberatore in un Cristo teologico redentore.

Queste cose dovrebbero essere pacifiche. Invece dai commenti che leggo in vari gruppi di Facebook dedicati al Cristo, mi sembra ancora di essere all’età della pietra. Non si discute sulle idee, ma si comincia subito a dire che quel reperto non è autentico, che quel redattore o apostolo ha un nome fittizio, che le date sono tutte fasulle, che non abbiamo certezza di niente, che Gesù Cristo non è mai esistito e altre amenità del genere, come se tutti noi fossimo di professione storici o archeologi, biblisti, filologi, conoscitori di tutte le lingue antiche, in grado di spaccare il pelo in quattro come fanno gli esegeti tedeschi, i migliori al mondo.

Sembra che tutti abbiano letto la monumentale opera di Pesch sul protovangelo o quella di Bultmann sul IV vangelo. Quindi perché non usare più attenzione alle proposte di discussione, lasciando perdere le prime obiezioni che ci vengono in mente e concentrandosi su ciò che ipoteticamente potrebbe contenere un qualche elemento di attendibilità?

Insomma lo vogliamo rivalutare questo Gesù Cristo, eliminando le incrostazioni mistiche che si sono formate in 2.000 anni di falsità, oppure preferiamo buttare via l’acqua sporca col bambino dentro? Ha senso iscriversi a questi gruppi soltanto per essere confermati nelle idee che già si hanno?

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6.20.4) L'esigenza di un aldilà

Sarà capitato a chiunque, soprattutto se ha una certa età, di veder morire un parente stretto molto molto caro. E di desiderare di rivederlo vivo. Magari non proprio così come se ne è andato, ma più giovane o più bello o più sano, o con un carattere più dolce, più sereno. Anzi, quanto più l’evento è stato recente, tanto più si è sperato di poterlo rivedere. Magari per chiedergli scusa di qualcosa, o per fargli qualche domanda importante, rimasta senza risposta. E si è sperato di poterlo fare in un rapporto a tu per tu, o anche da lontano, o in un sogno. E si è pianto, anche tanto. E ci si è immaginati di vedere un corpo non esattamente uguale al nostro, ma qualcosa di etereo, di impalpabile, con cui però poter comunicare tranquillamente.

Tutti questi desideri o queste sensazioni ci fanno capire che non esiste un aldilà e un aldiquà, ma un’unica dimensione in due forme diverse. Siamo esseri terreni e allo stesso tempo universali.

Ma perché tutti questi desideri sono rimasti insoddisfatti? Proprio perché un abisso li separa dalla realtà. Ed è un bene soprattutto per noi, perché moriremmo di paura se rivedessimo i nostri cari. Se ci apparissero in momenti inaspettati, il cuore non reggerebbe l’emozione, ci prenderebbe una sensazione di panico. Anche il solo pensiero che potrebbero farlo, ci farebbe sentire costantemente angosciati. Oppure vorremmo morire anche noi per raggiungerli.

In ogni caso la nostra coscienza verrebbe subito violata, perché penseremmo d’essere continuamente sorvegliati, anche nei nostri pensieri, nelle nostre intenzioni. Ad ogni problema di una certa gravità chiederemmo un aiuto ultraterreno. Smetteremmo di crescere, di assumerci delle responsabilità personali. Ci vanteremmo di avere un rapporto speciale con un’entità divenuta extraterrestre.

Questo spiega il motivo per cui tutti i racconti evangelici di riapparizione di Gesù sono pie invenzioni. Come lo fu l’apparizione di Gesù a san Paolo. Come lo sono tutte le apparizioni della Vergine nei vari luoghi di culto. Un abisso invalicabile separa noi da loro, come giustamente disse Luca nella parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone.

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6.20.5) I racconti di riapparizione del Cristo

Un credente pensa che i racconti di riapparizione del Cristo siano autentici. Un laico invece li ritiene inventati e non li prende neanche in considerazione. Dove sta la verità in queste due posizioni estreme. Nel mezzo, dicevano i latini.

Per capirci prendiamo il secondo finale del IV vangelo, cioè il cap. 21, scritto da un anonimo molto vicino a Giovanni perché conosce bene la sua rivalità con Pietro.

Facendo credere che Gesù è risorto ed è riapparso, l’autore mostra d’aver accettato, seppur a malincuore, la teologia paolina, per cui può pensare che il suo racconto supererà il vaglio della censura. Però dietro questa finzione letteraria (che implica anche l’impronunciabilità del nome di Giovanni) vuol dire lo stesso qualcosa di scomodo.

Anzitutto dice che i discepoli più importanti erano 7 e non 12, e tra loro spiccavano Pietro il galileo e Giovanni il giudeo. Nessuno di loro era stato capace di raggiungere l’obiettivo del messaggio insurrezionale di Gesù (non pescano nulla). Pietro neppure lo riconosce: dev’essere Giovanni a farglielo capire.

Quando finalmente anche Pietro lo riconosce, si vergogna della propria spavalderia (la nudità), si mette una veste e cerca di raggiungerlo. Ma il dialogo tra i due mostra tutti i limiti di Pietro. Infatti Gesù gli dice: “Quand’eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18).

Che cosa voleva dire? Due cose: 1) di fronte alla tomba vuota passò l’interpretazione petrina della resurrezione, con cui si chiedeva al movimento nazareno di attendere passivamente il ritorno immediato e trionfale del Cristo; 2) a causa della mancata parusia, fu la teologia di Paolo a prevalere su quella di Pietro.

Per ben tre volte Gesù, rivolgendosi a Pietro, è costretto a chiedergli se è disposto davvero a seguirlo di nuovo nell’istanza politica originaria, quella di liberare Israele dai nemici che lo schiavizzano. Pietro si pente di ciò che ha fatto e decide di ricominciare tutto da capo. Poi però chiede a Gesù perché non ha rivolto la stessa domanda a Giovanni. La risposta è molto chiara: lui non aveva tradito. Per questo il redattore anonimo dice che Giovanni non sarebbe mai morto.

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Perché tutti i racconti evangelici di riapparizione del Cristo sono falsi o pie invenzioni?

Per due motivi: o Gesù non è mai morto sulla croce ed è stato rianimato nel sepolcro; o non era lui a essere stato crocifisso.

Se invece diamo per scontato ch’era proprio lui e ch’era proprio morto, allora la motivazione è un’altra.

1- Il discepolo deve assumersi le sue responsabilità: se non sei stato capace d’impedire la crocifissione, che diritto hai di rivedere vivo il crocifisso?

2- Anche supponendo che Gesù volesse perdonare coloro che non sapevano cosa facevano, non avrebbe comunque potuto manifestarlo.

Lui aveva semplicemente rappresentato una buona occasione per liberarsi di un nemico esterno (i Romani) e di un nemico interno (i collaborazionisti). Una volta rifiutata la proposta, gli uomini devono arrangiarsi da soli a cercarne un’altra. Se l’avessero rivisto, sarebbero stati indotti a credere che su questa Terra non è possibile realizzare alcuna società libera e giusta.

Che cos’è quindi il cristianesimo? È una forma etico-religiosa di stoicismo, in cui il credente si sforza di essere virtuoso in attesa di poter ottenere come premio un paradiso ultraterreno.

Quindi per recuperare il vero messaggio umano e politico del Cristo, bisogna anzitutto superare il cristianesimo.

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6.20.6) Le contraddizioni nel Cristo redivivo

I racconti di riapparizione sono un controsenso anche perché sono uno diverso dall’altro.

Nel vangelo originario di Marco non esiste nulla di questo genere, in quanto Mc 16,1-8 (influenzato dalla teologia petrina) termina con la fuga timorosa delle donne che trovano il sepolcro vuoto (a testimonianza che l’idea di interpretarlo come “resurrezione” fu solo di Pietro). Nella seconda chiusura (influenzata dalla teologia paolina) Gesù appare alla Maddalena, che però non viene creduta, come neppure altri due apostoli dopo di lei. Alla fine si manifesta agli Undici, che finalmente si convincono. Devono però andarsene dalla Palestina (poiché l’assunzione del Cristo lo esige) e predicare il vangelo nel mondo.

In Matteo (che, come al solito, copia da Marco) gli apostoli devono tornare in Galilea, dove lui li attende sul Tabor: qui alcuni di loro credono, altri dubitano. La missione è comunque quella di predicare il tutto il mondo: col che si rinuncia definitivamente all’idea petrina di parusia immediata e trionfale. Di suo, l’autore aggiunge che le autorità giudaiche corrompono finanziariamente i soldati romani, i quali devono sostenere la versione secondo cui i discepoli di Gesù avevano trafugato di notte il suo corpo per far credere ch’era risorto.

In Luca le apparizioni avvengono solo a Gerusalemme e nei dintorni. Protagoniste sono prima di tutto tre donne (Maddalena, Giovanna e Maria di Giacomo), che dichiarano di aver visto due uomini angelicati nei pressi del sepolcro vuoto, ma gli Undici non credono nella versione della resurrezione. Pietro però, unico tra gli apostoli, vuole sincerarsi da solo, e nel sepolcro vede le bende per terra (di cui non si spiega la natura) e resta stupito. La presenza di Giovanni è stata rimossa e con lui anche quella della sindone. Nel racconto, aggiunto successivamente, dei discepoli di Emmaus, questi lo chiamano Gesù il Nazireo (24,19), lasciando così credere che la provenienza da Nazareth non c’entrasse nulla con l’appellativo che lo identificava.59 Questi discepoli avvisano gli Undici, i quali affermano che Gesù è apparso a Pietro (infatti è lui a parlare per primo di “resurrezione” contro la tesi del “trafugamento”). Luca però sostiene che non tutti gli apostoli credettero a Pietro (di sicuro non Giovanni e forse neppure il fratello Giacomo, in quanto dovevano aver capito che con la parola “resurrezione” si sostituiva la parola “insurrezione”).60 In ogni caso Luca fa passare gli scettici nei confronti di Pietro per dei miscredenti, per ottusi che negano l’evidenza. Chi crede invece dovrà predicare in tutto il mondo, partendo da Gerusalemme, dove gli Undici tornano a frequentare il Tempio (!) e da dove potranno andarsene solo dopo la Pentecoste: sia questa che l’ascensione di Gesù sanciscono, secondo Luca, la fine dell’idea petrina di parusia immediata (gli Atti sono scritti secondo le direttive della teologia paolina, avversa persino a quella petrina).

In Giovanni le tradizioni leggendarie sono due: una è radicata a Gerusalemme, dove Gesù appare alla Maddalena, che pensa al trafugamento, anche se in un altro racconto sembra che la tesi sulla resurrezione sia stata elaborata da lei, non da Pietro. Bisognerebbe però fare dei distinguo: una cosa infatti è credere nel Cristo risorto come “ideale simbolico” per continuare il suo progetto di liberazione nazionale; un’altra, molto diversa, è credere in una resurrezione fisico-realistica, e in virtù di essa attendere passivamente che il Cristo torni in maniera trionfale, portando a compimento ciò che aveva iniziato.

In un altro racconto il IV vangelo fa vedere che Tommaso non crede alla versione petrina. E in un altro ancora si colloca un’apparizione sul lago di Tiberiade, dove gli apostoli sono sette e forse non tutti facenti parte dei Dodici. Il primo a riconoscerlo è Giovanni, mentre Pietro è l’ultimo, poiché gli viene fatta fare la parte di uno che di Gesù (politicamente inteso) non aveva capito niente, per cui deve tornare alla sua sequela.

Il vangelo apocrifo di Tommaso parteggia per Giacomo il Minore contro quella tradizione giovannea che attesta il primato di Pietro alla guida degli apostoli dopo la morte di Gesù (un primato che però lo stesso Giovanni, quello autentico, non quello manipolato, sconfessava apertis verbis).

Questi racconti sono tutti falsi, ma servono a far capire che per credere nel Cristo risorto bisogna rinunciare alla ragione ed entrare nel mondo della fede. Il movimento cristiano sostituì la politica con la religione, e in effetti l’artefice principale di questa operazione mistificante fu Pietro: di qui il suo “primato”.

Si badi, non è che qui si voglia accusare Pietro d’essere stato un traditore tanto quanto Giuda. Probabilmente di fronte a una sconfitta così ingloriosa del proprio leader, è abbastanza naturale che un discepolo s’inventi delle cose mai esistite o non dimostrabili, semplicemente per rendere meno tragici gli avvenimenti, per rendere più sopportabile, sul piano etico, lo svolgimento dei fatti. La tesi della resurrezione può anche essere servita per giustificare la propria pusillanimità, le proprie vantate sicurezze, la propria ostentata spavalderia. In fondo siamo tutti esseri umani e sarebbe assurdo mettersi qui a fare i giudici, quando nessuno di noi può effettivamente calarsi nei panni di personaggi vissuti due millenni fa e, per di più, in situazioni politicamente esplosive.

Tuttavia, se proprio non si voleva fare alcuna autocritica, si sarebbe dovuto evitare di far credere che tutto era stato previsto dalla prescienza divina, ovvero che Gesù era morto secondo un imperscrutabile disegno divino: un disegno rassicurante, con cui Dio padre poteva perdonare le colpe di tutti i discepoli del proprio figlio, anche di quelli più timorosi e un po’ vigliacchi61, facendo vedere che il figlio, pur ingiustamente condannato, ha voluto mostrarsi di nuovo vivo, senza che nessuno lo obbligasse a farlo.

Che senso aveva falsificare le cose in termini così assurdi? Per non darla vinta ai sacerdoti giudaici? Che senso aveva affermare che a un “dio” l’odio del mondo si può riservare qualunque trattamento sul piano fisico, tanto alla fine tornerà sempre vivo, più forte di prima, in grado di vincere e di giudicare chiunque? Una tale impostazione della tragedia del Cristo risente di troppe influenze pagane per essere vera. Infatti esistono molti miti precristiani che parlano di dèi morti e risorti, sia nel mondo egizio che in quello greco e in altri ancora. Ciò che della teologia petrina non si può perdonare è l’aver fatto della tesi della resurrezione un mezzo per dimostrare che, siccome dal male può anche nascere il bene, l’entità del male va assolutamente ridimensionata. La storia invece si è incaricata di dimostrare che quella fu una grave occasione perduta, con cui si procrastinò per alcuni secoli il crollo dell’impero romano.

Insomma, se davvero Gesù fosse ricomparso ai suoi discepoli più stretti, avrebbe anzitutto detto di non creare nessuna nuova religione, poiché non era stato certamente per questo che Pilato l’aveva giustiziato. A quel tempo l’impero, Roma e tutte le altre città pullulavano di infiniti culti religiosi.

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6.20.7) Gesù e la Maddalena

Quel “Noli me tangere” in Gv 20,17 mi ha sempre un po’ turbato, soprattutto nel suo originale greco, che dovrebbe essere tradotto letteralmente: “non continuare a toccarmi” o “smetti di stringerti a me”. La CEI naturalmente ha preferito l’espressione più pudica: “Non mi trattenere”. Haptô è un verbo molto particolare: non vuol dire solo toccare in senso sessuale, ma anche accendere, infiammare, aderire strettamente...

Chi ha inventato di sana pianta quel racconto doveva conoscere la Maddalena molto bene e sapere del suo debole sentimentale per Gesù, che lui non poteva ricambiare, avendo fatto il voto di nazireato. Il racconto è strano anche perché appare molto intimistico, al punto da risultare fuori luogo in un vangelo così politicizzato come il IV (almeno nella sua versione originaria).62

Far dire a Gesù una frase del genere sembra addirittura presumere che lei fosse autorizzata a “toccarlo” quand’era vivo. Ma nei vangeli l’unica donna che può pretendere una tale confidenza è la sorella di Lazzaro, quando usa il vasetto profumato, in un frangente così tragico che lui finì per commuoversi.

Dunque le due Marie coincidevano? Una giudea di Betania e l’altra galilea di Magdala? Se erano due persone diverse, allora forse il racconto vuol soltanto dire che la Maddalena avrebbe voluto “toccarlo”, cioè sposarlo, senza però riuscirvi.

L’identificazione delle due Marie è stata esplicitamente rigettata dalla Chiesa cattolica solo nel 1969, durante il Concilio Vaticano II.

Per il resto sappiamo che nei Sinottici, a differenza del IV vangelo (dove viene esaltata), la figura della Maddalena è spesso messa in cattiva luce: è addirittura paragonata a una prostituta, se non a una super indemoniata.

Quindi si può presumere che tra lei e Pietro ci sia stata una forte incompatibilità di carattere o una rottura di tipo ideo-politico, come risulta in alcuni vangeli apocrifi (p.es. in quello della Maddalena, dove la protagonista viene detestata non solo da Pietro ma anche da Andrea). Non è però da escludere che tale antagonismo fosse soltanto una rappresentazione simbolica della forte rivalità esistente tra le varie comunità cristiane.

D’altra parte già al tempo di Paolo non esistono più i Dodici. In Gal 1,18s. egli incontra a Gerusalemme solo Pietro e Giacomo il Minore. Al Concilio di Gerusalemme, oltre a loro due, vede anche Giovanni Zebedeo, che però non dice una sola parola. Praticamente vent’anni dopo la morte di Gesù il movimento nazareno non esisteva più e quello “cristiano”, guidato da Pietro, Giacomo fratello di Gesù e Paolo, era tutta un’altra cosa: il primo sognava una riscossa del Gesù redivivo contro Romani e sadducei e non si spiegava la mancava parusia; il secondo cercava solo un compromesso coi sadducei e farisei e non aveva ambizioni eversive antiromane; il terzo era sì disposto a cercare un compromesso con Roma, ma non con l’establishment giudaico, per cui preferì rivolgersi ai pagani, posticipando la parusia alla fine dei tempi.

Da ultimo vorrei sapere che cosa ha frenato l’autore del IV vangelo dal citare il nome della donna che accompagnò la Maddalena al sepolcro. Secondo i Sinottici dovrebbe essere o Salome o Maria di Cleofa, madre di Giacomo il Minore (Mt 28,1; Mc 16,1). Non ha citato quest’ultima perché se avesse scritto ch’era la sorella di Maria, madre di Gesù, avrebbe forse dovuto negare la tradizione petropaolina che considerava Giacomo non un cugino ma proprio un fratello di Gesù?

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6.21) Racconti natalizi

Solo Luca e Matteo sostengono che Gesù sia nato a Betlemme (il paese nativo di Davide), e solo Luca ne spiega la ragione chiamando in causa il censimento di Quirinio.63 Giuseppe Flavio però non menziona un censimento fatto durante il regno di Erode il Grande (che morì nel 4 a.C.), ma parla di un censimento fatto da Quirinio nel 7 d.C. Ora, siccome i Romani facevano censimenti ogni 14 anni, è probabile che Gesù sia nato nel 7 a.C., prima che Quirinio fosse governatore della Siria (cosa che diventò solo nel 6 d.C.). In tal caso sarebbe esclusa la morte a 33 anni: semmai a 36-37.

Mt 2,22s. sostiene che Maria e Giuseppe lasciarono Betlemme per Nazareth perché avevano paura di Archelao, successore di Erode il Grande. E motiva questo dicendo ch’era stato predetto dai profeti, ma non si sa da dove abbia preso la citazione del v. 23 (“giunto in Galilea, abitò in una città detta Nazareth, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti: Egli sarà chiamato Nazareno”). Di Nazareth in realtà non si sa nulla fino al IV sec.: non viene mai citata né da Giuseppe Flavio né dalla letteratura talmudica.64

Mt 2,6 riporta a modo suo una frase di Michea 5,1: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele”. In realtà Michea scrive: “Sei la più piccola delle tribù di Giuda” e da te uscirà un messia politico-militare (5,5), che “calpesta e sbrana” (v. 7).

Mc 6,1 definisce esplicitamente Nazareth come “patria” di Gesù. Ma Marco riflette la posizione fortemente antigiudaica di Pietro. Il che di per sé non esclude che Giuseppe non fosse un galileo. Di sicuro però non lo era Maria, strettamente imparentata con Elisabetta e Zaccaria.

Le circostanze del viaggio a Betlemme (riportate da Matteo e Luca) sono del tutto inverosimili: Maria era ormai prossima a partorire e non avrebbe avuto senso fare un viaggio così lungo. Inspiegabile inoltre la mancanza di posto in albergo, e incredibile (in una società in cui i figli erano considerati una “benedizione divina”) l’indifferenza della gente nei confronti di una donna incinta. La fede dei pastori e dei magi è del tutto mistica (in Matteo il bambino-Gesù non viene accettato da Israele ma solo dal mondo pagano: i re magi; in Luca non viene accettato dai potenti ma solo dagli umili: i pastori).

Sino al IV sec. è esistito, proprio sul posto consacrato oggi al ricordo della natività, un santuario dedicato alla nascita di Adone, il signore dei culti orientali di salvezza (altri dèi sono nati in una grotta: Dioniso, Ermes, Oro, Zeus, Mitra). La basilica della natività risale ai tempi di Giustiniano. È stato proprio Girolamo a scrivere che la grotta venne scoperta intorno al 400!

Giovanni, che avrebbe potuto dire una parola definitiva sulla nascita di Gesù, si rifiutò di farlo, oppure fu censurato per non contraddire la versione marciana sull’origine galilaica di Gesù. È vero ch’egli afferma che Giuseppe era di Nazareth (1,45) e mette in bocca a Natanaele la convinzione che Gesù fosse originario di questo villaggio (1,46). Ma di Natanaele non si sa nulla e la sua frase scettica viene detta in un contesto semantico di tipo mistico: il che fa pensare che sia stato tutto inventato. In ogni caso per gli ebrei contava soprattutto, per la questione del sangue, la nascita da parte della madre, anche se, essendo una società patriarcale e maschilista, si guardava chi era il padre. Senza poi considerare che il IV vangelo è stato profondamente manipolato in senso antigiudaico.

Inoltre Giovanni spiega che l’opinione comune riteneva Gesù un galileo, in quanto in Galilea egli aveva trascorso gran parte della sua vita (7,40ss.). Ma questo non vuol dire che fosse nato in Galilea, tant’è che in 4,43 Giovanni dice chiaramente che andò a vivere in Galilea dopo la fallita epurazione del Tempio. Durante il viaggio come profugo politico, dopo che la samaritana lo riconosce come giudeo dalla parlata, in Galilea il funzionario di Erode, Cuza, lo contatta perché sa che viene dalla Giudea.

Di sicuro a Giovanni non interessa la tesi secondo cui il messia doveva nascere a Betlemme. Il che però non vuol dire che Gesù sia un galileo. Sarebbe tranquillamente potuto nascere a Gerusalemme, visto che Maria era imparentata con Elisabetta, madre del Battista. In ogni caso se lo si fa vivere a Nazareth, si favorisce la convinzione ch’egli non avesse alcuna caratteristica politica.

Quando in Gv 7,52 i farisei rimproverano duramente Nicodemo di non credere nella necessità che il messia nasca in Giudea, l’autore non vuole per forza sottintendere che Gesù fosse galileo, ma evidenziare quanto fossero razzisti i Giudei nei confronti dei Galilei. Gli stessi zeloti cominciarono a non sopportare più la posizione politica del Cristo, non perché lui voleva un appoggio da parte delle “alte sfere”65, ma perché voleva l’appoggio dei Giudei e dei Samaritani. In tal senso non è affatto vero che dopo la morte del Battista la predicazione di Gesù diventa più moderata. Semplicemente cambia il luogo ove esercitarla: dalla Giudea alla Galilea. E la nuova autorità politica da cui deve cercare di guardarsi molto bene è quella di Erode Antipa, che aveva già giustiziato, senza tanti problemi, il Battista.

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6.21.1) L'idea di partenogenesi

Se diamo per buona l’ipotesi della partenogenesi di Maria (pur insensata sul piano scientifico quando riferita agli umani), dobbiamo altresì ammettere che l’unica persona dei vangeli che sia stata capace di verificarla con certezza non può che essere stata lei stessa, la quale però non poteva essere in grado di spiegarsene la ragione.

È quindi possibile, se era in procinto di sposarsi, che lei, essendo ancora vergine, non abbia raccontato nulla a Giuseppe (che sicuramente non l’avrebbe capita) e che lui non si sia accorto di nulla.

Il che spiegherebbe il motivo per cui il vangelo marciano (redatto nel 68-70) non parli minimamente di questa cosa. E se consideriamo che i racconti natalizi di Matteo e Luca sono del tutto mitologici (in quanto influenzati da religioni pagane), si spiegherebbe anche il silenzio del IV vangelo.

Tuttavia se questa tesi è vera, contraddice quella evangelica, secondo cui lei fu costretta ad avvisare Giuseppe, il quale, pur con molta riluttanza, decise di non esporla al pubblico disprezzo. In fondo era rimasta vergine, che per gli ebrei maschi è ciò che conta.

In ogni caso se gli ha raccontato qualcosa e Giuseppe non l’ha ripudiata, è difficile credere che Giuseppe non abbia preteso di fare altri figli, sulla legittimità dei quali non avrebbe nutrito alcun dubbio. È difficile pensare a una moglie che, per difendere la propria illibatezza, si oppone alla volontà del marito (che peraltro l’aveva salvata dall’ignominia). Stando ai vangeli i due sposi ebbero almeno altri sei figli. Il che, per una famiglia ebraica di allora, era del tutto normale (le ragazze si sposavano molto presto). Quindi il dogma cristiano secondo cui Maria rimase vergine prima, dopo e durante il parto, non avrebbe davvero alcun senso. Né che i fratelli di Gesù fossero in realtà suoi cugini o fratellastri avuti da Giuseppe in un precedente o successivo matrimonio.

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Supponiamo che io sia un ebreo di 2000 anni fa e di dovermi sposare con una ragazza ancora vergine. I rapporti prematrimoniali erano vietati. Lei decide la data delle nozze: diciamo una settimana dopo la fine del proprio ciclo. Il ciclo però non ce l’ha. Non mi dice niente. Al massimo rimanda la data di un’altra settimana. Io la sposo, ho un rapporto completo, mi accorgo che è ancora vergine. Secondo i miei calcoli il figlio mi nasce prematuro di 15-20 giorni, ma perché dovrei sospettare che lei mi abbia tradito? Lei non mi ha mai raccontato nulla. Io non mi sono accorto di una stranezza davvero importante.

I racconti natalizi sono tutti inventati, probabilmente nati in Egitto, forse derivati dal protovangelo apocrifo di Giacomo, conosciuto anche come “Natività di Maria”. La domanda è: perché li hanno scritti? Cosa devo pensare? Che si erano trasferiti in Galilea per non dover rispondere a domande imbarazzanti? Ma allora perché i Sinottici definiscono Gesù come “figlio di Maria” e non di “Giuseppe”? Quella era una società patriarcale, anche se era il sangue della madre a decidere l’ebraicità di una persona.

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Certo che Maria avrebbe anche potuto dire a Giuseppe: “Sono incinta e ancora vergine. Lo so, è una cosa assurda, ma se non ci credi, puoi chiedere a un’ostetrica di tua fiducia di venirmi a controllare. Dopodiché sarai tu a decidere. Io posso solo dirti che non so come mi trovo in questa situazione”.

Naturalmente sappiamo che una vergine che partorisce (sottinteso: un essere “più che umano”) non era un leitmotiv sconosciuto alla mitologia pagana. Praticamente non c’è mitologia che non lo preveda. Ma è anche vero che se nel sepolcro del Cristo è avvenuto qualcosa di molto strano, non si capisce perché non sarebbe potuto accadere anche per la sua nascita.

Nascita e morte sono collegate. Se la Sindone è un falso medievale o se l’immagine raffigurata non è quella di Gesù Cristo, e quindi lui non è scomparso misteriosamente (cioè non è “risorto”, usando la terminologia cristiana), ma si è ridestato dopo un certo tempo dal coma o da uno svenimento, ed è stato poi curato; oppure se effettivamente il suo corpo è stato trafugato per far credere che non era mai morto completamente e definitivamente, allora diventa naturale pensare ch’egli sia nato da una relazione adulterina o extraconiugale, o che Maria sia stata circuita o violentata da qualcuno, oppure che abbia avuto Gesù in maniera naturale da Giuseppe, e che poi gli evangelisti abbiano costruito sopra una versione mitologica dei fatti, traendo spunto da qualche mito pagano.

Se invece la Sindone corrisponde al lenzuolo che ha avvolto il cadavere di Gesù, allora una partenogenesi è possibile.66 Ma in nessuno dei due casi si può dare una spiegazione razionale, per cui sarebbe meglio tacere.

D’altronde a noi non interessa trovare alcuna spiegazione, ma soltanto rispondere a una domanda: Gesù ha utilizzato quella parte della sua natura non esattamente in linea con quella della specie umana per indurre a credere in lui come un essere divino o sovrumano? Detto altrimenti: c’è forse stato un momento, in tutta la sua vita, in cui egli abbia fatto vedere che aveva qualcosa in più degli esseri umani? La risposta è negativa. Finché non è morto, nessuno si era mai accorto di nulla.

Gli unici due momenti in cui si è dovuta constatare una stranezza sono stati la nascita e la morte. Questo vuol dire che tutto quanto ha detto o fatto di mistico o di miracoloso va considerato inventato. Cioè se da un lato possiamo ammettere, in via del tutto ipotetica, un’anomalia; dall’altro dobbiamo escludere categoricamente ch’egli abbia usato i suoi poteri per violare la libertà di coscienza o il libero arbitrio di chi lo frequentava da vicino o comunque lo ascoltava.

Quindi la stragrande maggioranza dei racconti evangelici è falsa, frutto di un’impostura ben orchestrata. E la conseguenza che dobbiamo trarre da questa affermazione è molto semplice: la trasformazione del movimento gesuano o nazareno in un movimento cristiano, secondo la teologia petro-paolina, costituisce un tradimento politico non meno grave di quello di Giuda e dei farisei, che nel momento decisivo vennero meno alla promessa di partecipare alla liberazione nazionale.

Martin Dibelius afferma nel suo Iesus: “Nel momento decisivo, quando Gesù fu catturato e giustiziato, i discepoli non nutrivano alcuna attesa di una risurrezione. Essi fuggirono e dettero per finito il caso di Gesù. Dovette quindi intervenire qualcosa che in poco tempo non solo provocò il cambiamento radicale del loro stato d’animo, ma li portò anche a un’attività del tutto nuova e alla fondazione della Chiesa. Questo ‘qualcosa’ è il nucleo storico della fede di Pasqua”.

È vero, i discepoli non si aspettavano che risorgesse (quindi tutte le anticipazioni fatte da Gesù sul suo destino vanno considerate puramente redazionali). Tuttavia noi non sappiamo affatto che cosa fecero i discepoli dopo la sua morte. Gli Atti degli apostoli parlano solo di Pietro per metà e per l’altra metà parlano di Paolo, il quale s’innesta sull’interpretazione petrina della tomba vuota come resurrezione e la porta alle sue estreme conseguenze antigiudaiche e filoromane. La fondazione della “Chiesa” è il principale prodotto della teologia petro-paolina, quindi è un tradimento della politica gesuana. Noi non possiamo sapere in alcun modo (dalle fonti in nostro possesso) se ci furono solo dei martiri per difendere tale Chiesa e non dei martiri nella lotta attiva contro l’impero romano.

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6.21.2) Il paganesimo nei racconti natalizi

Paolo, che pur ha trasformato il Cristo politico in un Cristo teologico in senso letterale, non parla mai di concepimento verginale, né di intervento miracoloso dello Spirito santo. Il che fa pensare che della modalità di tale nascita nessuno sapesse nulla.

I racconti natalizi di Matteo e Luca sono tardivi, influenzati dal paganesimo (egizio e greco in primis). Ma questo, di per sé, non può escludere la presenza di una stranezza. Cioè voglio dire: ogni cosa fantastica che gli uomini possono immaginare, non potrà mai esserlo così tanto da non avere una qualche veridicità neppure sul piano ipotetico.

Se io penso a un ippogrifo, lo penso sulla base di componenti che sono reali. È solo nel momento dell’assemblaggio che l’oggetto diventa fantastico. Un’ipotesi non è mai campata per aria in via assoluta, proprio perché all’essere umano è data facoltà di poter formulare qualunque scenario. È piuttosto la realizzazione dell’ipotesi che dipende da fattori concreti, circostanziali, i quali comunque nella realtà umana non sono mai così strettamente vincolanti da impedire una qualche facoltà di scelta. Non siamo determinati come gli animali, ma soggetti alla mutevolezza del libero arbitrio.

Cioè in teoria, se si è in presenza di una certa volontà, si può realizzare qualunque ipotesi, tant’è che siamo soliti dire, di fronte a qualunque problema: “tutto è possibile”. Lo diciamo soprattutto da quando abbiamo scoperto le potenzialità illimitate della tecnoscienza o quelle dell’organizzazione collettiva finalizzata a un ribaltamento politico del sistema dominante. Tuttavia noi ancora non sappiamo fin dove possa spingersi la natura umana, presa in sé e per sé, a prescindere dalle applicazioni dell’intelletto alla scienza o alla politica.

Essendo noi umani parte di una “divinità”, ci viene istintivo fantasticare su tutte le possibili forme d’esistenza. La partenogenesi, l’ermafroditismo, l’autoriproduzione sono fenomeni esistenti in natura. È solo l’abitudine che ci porta a considerarli innaturali negli esseri umani (al massimo parliamo di “gravidanza isterica”). Ma noi non possiamo sapere a priori fino a che punto la materia è in grado di spingersi.

La materia contiene aspetti energetici la cui natura non ci è del tutto chiara, anche perché il rapporto tra materia ed energia è biunivoco: sono elementi che si condizionano continuamente a vicenda. Ed entrambi vengono considerati inesauribili, in quanto soggetti a perenni trasformazioni. Noi non possiamo conoscere tutte le forme che può assumere la materia energetica dell’universo. Sappiamo soltanto che non possono esistere forme incompatibili con l’essenza umana universale. Noi dobbiamo poterci riconoscere in ciò che è al di fuori di noi e che non dipende dalla nostra volontà.

Noi abbiamo soltanto consapevolezza di appartenere a un universo dove le possibili combinazioni per creare oggetti sono praticamente illimitate. Di limitato c’è solo il fatto che il processo e il risultato finale devono rispettare la legge etica fondamentale dell’intero universo: il rispetto della libertà di coscienza. Nulla può avvenire violando la libertà altrui.

Maria era “promessa sposa” di Giuseppe: non aveva scelto di rimanere “vergine”. L’incarnazione non violava una sua precedente decisione. Andare oltre nel parlare di ciò è inutile e fuorviante. Sappiamo soltanto che Giuseppe non raccontò niente a nessuno e che non ripudiò Maria, né in segreto né in pubblico. Quindi per poter raccontare qualcosa di lei, solo lei era in grado di farlo, e può averlo fatto in punto di morte, quando ormai non aveva più nulla da temere o da perdere.

L’unica cosa controversa è la seguente: Giuseppe ha avuto altri figli da lei? Secondo Marco sì: i maschi erano almeno quattro e le femmine almeno due. Se è così, resta inspiegabile il motivo per cui Gesù abbia affidato a Giovanni la propria madre. Oltre a ciò si può affermare che il vangelo marciano (che in questo esprime il pensiero petrino) detesta Maria e tutti i suoi parenti. Infatti nel vangelo ostacolano il ministero messianico di Gesù, al punto che questi è costretto a dire che i suoi veri parenti sono i suoi stessi discepoli: un’affermazione piuttosto scandalosa per la mentalità patriarcale di allora, per la quale i rapporti parentali erano sacri.

Quindi l’unico che poteva sapere qualcosa intorno al tema dell’incarnazione del Cristo era l’apostolo Giovanni, che però può aver detto qualcosa solo dopo la morte di Maria.

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6.22) È possibile riattualizzare Gesù Cristo?

Il principale insegnamento che bisognerebbe trarre dai vangeli e che permetterebbe di reinterpretarli completamente, riattualizzando l’operato del Cristo, è che i responsabili della sua morte non sono stati solo i sadducei, gli anziani, gli scribi, i sommi sacerdoti e naturalmente gli erodiani e i Romani, ma anche e soprattutto i farisei. Non è stata soltanto la dittatura che da sempre gli era apertamente nemica e che di sicuro lo voleva morto, ma anche e soprattutto la democrazia, quella formale, fittizia, quella che lo appoggiava solo di nascosto, quella che non rispettava i patti, non manteneva le promesse.

Oltre che dalla democrazia formale è stato tradito anche dall’estremismo degli zeloti, i quali, durante il processo farsa di Pilato, non sono stati capaci di scatenare alcuna sommossa popolare, loro che in 5.000, sul Tabor della Galilea, avevano detto a Gesù che l’avrebbero fatto diventare un monarca se avesse marciato su Gerusalemme per cacciare i Romani dalla fortezza Antonia e i sadducei dal Tempio. Un partito estremista della Galilea che, per far credere d’essere migliore, più affidabile, più rivoluzionario dei farisei, ha lasciato cadere sui Giudei tutta la responsabilità della morte di Gesù.

Non si spiega forse così il motivo per cui il soggetto principale della successiva guerra giudaica furono proprio gli zeloti? E non si spiega così il motivo per cui il cristianesimo, una religione che Gesù non avrebbe mai creato, fu una sorta di compromesso tra due forme di pentimento, quello zelotico di Pietro e quello farisaico di Paolo?

Tralasciamo poi qui di dire che Gesù fu tradito dai suoi stessi discepoli, che non ebbero il coraggio d’insorgere durante il processo-farsa orchestrato da Pilato.

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6.22.1) Senza Cristo politico vincono i miticisti

Ci rendiamo conto che se Cristo non avesse avuto una caratterizzazione politica, a quest’ora, in presenza di una così forte secolarizzazione della fede e di una così grande corruzione del clero, gli esegeti mitologisti, con la loro idea di un Gesù mai esistito, avrebbero vinto su tutti i fronti? Sono loro quegli esegeti radicali che neppure si rendono conto che i primi a negare un’esistenza storica a Gesù son stati proprio i cristiani, quando hanno elaborato l’immagine di un Cristo mistico o teologico.

Invece con la politica si riesce per così a riattualizzarlo. Non basta togliere storicità al Cristo teologico per tornare a farlo vivere nella sua politicità. Ci vuole uno sforzo di ricostruzione ipotetica, altrimenti andiamo a perdere anche le cose positive, umanamente accettabili, che ha detto e fatto.

Ma per fare questo occorrono dei credenti disposti a rimettersi in discussione, e questo non è facile. Come non è facile trovare dei non credenti disposti ad andare oltre la rappresentazione tradizionale del Cristo, che contestano sulla base dei loro schemi anticlericali. Questo perché temono sempre di dover fare delle concessioni alla Chiesa.

Bisogna andare oltre la fede cieca e oltre la ragione che nega a priori. È indubbiamente una questione di predisposizione interiore che determina una riformulazione del linguaggio.

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6.22.2) Quali insegnamenti recuperare?

Gesù Cristo ci ha insegnato cose di altissimo valore, valide ancora oggi, perché in un certo senso non hanno tempo: la libertà di coscienza (riguardo soprattutto all’atteggiamento da tenere nei confronti delle convinzioni religiose); la necessità di ribellarsi, anche con le armi in mano, agli invasori di una nazione e ai loro collaborazionisti interni; l’idea di una società democratica (non voleva costruire una monarchia di tipo davidico); l’idea di una uguaglianza sociale, con cui eliminare lo sfruttamento di chi non possiede i mezzi produttivi; l’idea di una uguaglianza di genere, con cui porre fine al maschilismo imperante nella società ebraica.

Non ha mai sopportato la superiorità che i Giudei vantavano sui Galilei e sui Samaritani, anzi tendeva a mettere sullo stesso piano etico ebrei e gentili. Né ha mai considerato i rapporti parentali o di sangue superiori a quelli basati su un ideale da realizzare. Non ha mai predicato in maniera astratta, filosofica o semplicemente morale o giuridica, ma ha sempre cercato di dare un risvolto politico alle sue parole, proprio perché sapeva bene che l’obiettivo principale era la liberazione nazionale. Voleva far capire agli esseri umani che devono risolvere da soli i loro problemi: non possono aspettare, come al tempo di Mosè, la manna dal cielo. Ecco perché è assurdo parlare di parusia trionfale. La verità oggettiva o assoluta deve maturare in un processo autonomo della coscienza umana, sia essa individuale o collettiva.

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6.23) Il ruolo di Paolo di Tarso

Non capisco perché avercela con Paolo quando si chiamava Saulo. Perseguitava giustamente i cristiani, in quanto negavano la possibilità di liberarsi dei Romani con le sole forze del popolo. Quelli predicavano la parusia imminente e trionfale del messia crocifisso e risorto... Ma in questa maniera infondevano speranze illusorie, demoralizzavano chi voleva combattere senza aspettarsi un segno dal cielo.

Che poi lui, fariseo, facesse il poliziotto con l’autorità dei sacerdoti, sadducei, che spesso erano avversari politici dei farisei, dovrebbe farci riflettere. Davvero i sadducei volevano liberarsi dei Romani? O chiedevano a lui di perseguitare i cristiani, perché non sopportavano che nessuno li criticasse per aver permesso a Pilato di far fuori un potenziale messia politico liberatore? Volevano rifarsi una verginità agli occhi del popolo insofferente dell’oppressore straniero e dei suoi collaborazionisti interni, tra i quali soprattutto gli stessi sadducei?

Insomma perché Paolo si lasciava strumentalizzare così facilmente dal potere costituito? Voleva fare una qualche carriera prestigiosa (in quanto non gli bastava il mestiere di commerciante di tende)? Oppure era in buona fede e pensava che i cristiani andassero perseguitati per il bene di Israele? Ma secondo Paolo qual era questo bene? Compiere una insurrezione popolare come avrebbe voluto fare Gesù, oppure limitarsi a dei compromessi con Roma per salvare il salvabile, come appunto facevano i sadducei?

Quando Paolo perseguitava i cristiani (seguaci di Pietro), lo faceva forse per difendere la strategia eversiva del Cristo (a prescindere dal mandato sacerdotale ricevuto per incarcerarli)? Ma allora siamo sicuri che Paolo non abbia mai conosciuto quel che Gesù aveva fatto e detto in vita? Siamo sicuri che lo stesso Paolo, perseguitando i seguaci della teologia petrina, non abbia cercato di restituire dignità politica al partito farisaico, che aveva tradito il tentativo insurrezionale del Cristo?

Paolo perseguitava i cristiani perché con Pietro avevano iniziato a predicare la parusia imminente di un messia risorto. Li perseguitava perché facevano assumere al popolo ebraico una posizione attendista, mentre per lui bisognava pensare a come opporsi ai Romani: cosa che i farisei, a differenza dei sadducei, non avevano mai smesso di fare.

Quindi non aveva tutti i torti a fare il cacciatore di taglie. Semmai doveva chiedersi il motivo per cui erano stati proprio i farisei a tradire Gesù nei suoi due tentativi insurrezionali: il primo contro il Tempio, all’inizio della sua carriera politica (e qui però Nicodemo gli chiederà scusa), e il secondo contro la fortezza Antonia. Diciamo che con Paolo una parte dei farisei si rifà nei confronti di Gesù la verginità, anche se in realtà lo fa accettando l’interpretazione petrina della tomba vuota come resurrezione, usata contro l’idea di insurrezione.

Per me appare impossibile che Paolo non sapesse nulla del tradimento che il suo partito aveva operato nei confronti del Cristo. È stato Giuseppe d’Arimatea, un fariseo, discepolo occulto dei nazareni, a organizzare la sepoltura di Gesù. E nel IV vangelo un redattore (non Giovanni) ha voluto inserire sulla scena un altro fariseo che in segreto appoggiava Gesù: Nicodemo. L’ha fatto mentendo, ma in questa maniera ha fatto capire che per la costruzione della Chiesa cristiana molti ex-farisei contribuirono in maniera decisiva. Tra i seguaci di Giacomo il Minore vanno annoverati molti ex-farisei, i quali, evidentemente, dovevano sentirsi in colpa per la fine ingloriosa del Cristo. Loro stessi si erano sentiti traditi dai sadducei, che non mantennero la promessa di non consegnare Gesù a Pilato.

Purtroppo però siamo costretti a procedere per ipotesi, in quanto le fonti o sono state irrimediabilmente censurate o manomesse o sono nate proprio per dare una versione distorta dei fatti. Si può soltanto sostenere che se Giuda fosse stato un esseno (o un seguace del Battista), il IV vangelo l’avrebbe detto; e se fosse stato uno zelota, forse l’avrebbero fatto capire i Sinottici. Ma siccome era un fariseo, e molti farisei, al seguito di Giacomo il Minore (e altri, al seguito di Paolo), costruirono il neonato movimento cristiano (con la loro idea di resurrezione), dirlo esplicitamente sarebbe stato imbarazzante.

Anche quando Pietro si sentì un traditore delle aspettative messianiche del movimento nazareno, parlando di un’imminente parusia del Cristo, i redattori del N.T. lo faranno uscire di scena, scavalcato dalla forte personalità di Paolo, assai più intellettuale di lui.

Se vogliamo, anche la figura di Giacomo il Minore, pur essendo, dopo la morte di Gesù, molto più importante di quelle di Pietro e di Paolo, in realtà scompare di scena dopo il 70. Il vero fondatore del cristianesimo è Paolo di Tarso: giustamente il cristianesimo viene chiamato “paolino”. Ciò gli è stato riconosciuto dai cristiani di origine pagana, i quali di tutte le tradizioni giudaiche non vorranno sapere nulla, meno che mai della loro pervicace resistenza alla politica romana e alla cultura ellenistica e latina.

La svolta di Paolo avvenne quando nessuna parusia imminente si era verificata. Fu allora ch’egli mise in minoranza Pietro (incidente di Antiochia), facendo capire che Israele era destinata a restare sotto i Romani. Per lui Gesù era risorto non autonomamente ma perché unico figlio di Dio in via esclusiva, incarnatosi per riconciliare la divinità incollerita con l’umanità peccatrice sin dai tempi di Adamo (di qui l’idea di Gesù come nuovo Adamo). La parusia ci sarebbe stata solo alla fine dei tempi. Lo schiavo Onesimo doveva essere rimandato allo schiavista Filemone. La battaglia non era più contro la carne e il sangue ma contro le potenze dell’aria. Ecco perché diciamo che il cristianesimo si basa sulla teologia petro-paolina. Che però è del tutto diversa dalla politicità gesuana.

Dunque, è solo studiando Paolo che si entra pienamente nella rete del cristianesimo primitivo, poiché la sua corrente risultò dominante, vittoriosa su tutte le altre. Con lui si esce definitivamente dalla politica eversiva e si entra nella teologia politica, fautrice di un compromesso vergognoso (o, se si preferisce, “disperato”) con le autorità romane, salvo il fatto che si chiedeva la separazione di Chiesa e Stato, con cui i cristiani avrebbero potuto evitare a se stessi di credere nella divinizzazione degli imperatori. Il che era sufficiente per perseguitarli. E loro, proprio in virtù di tali persecuzioni, cominciarono a sentirsi dei martiri, delle vittime convinte di avere ragione su tutti i fronti.67

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C Tesi esegetiche

7.1) Preferisco l'esegesi alla storiografia

Mi rimproverano di fare solo dell’esegesi e di non capire nulla di storiografia (in merito al cristianesimo primitivo). Come se non si sapesse che – come dice James Dunn – “La perdita di fiducia nel metodo storico in ambienti postmoderni è completa. E per quel che riguarda la ricerca sul Gesù storico, i risultati di questa, in particolare se vi si annoverano i vari Gesù della ricerca neoliberale, semplicemente confermano il fallimento della metodologia storica tradizionale. Il fatto semplice e piuttosto sconvolgente è stato che gli studiosi dei vangeli e del Gesù storico non sono riusciti a produrre risultati sui quali vi sia accordo”.68 Il che ovviamente non vuol dire che dobbiamo ritenere come “storicamente non accaduto” ciò che è “storicamente non dimostrabile”.

In effetti la storiografia del cristianesimo primitivo non m’interessa molto (salvo quella di Ambrogio Donini e di Karlheinz Deschner).69 I miei studi vertono sulla figura del Cristo politico: il cristianesimo successivo è in fondo solo una “teologia” o, al massimo, una “teologia politica”. D’altra parte chi s’interessa di cristianesimo primitivo tende spesso a escludere che Gesù fosse un leader politico. La Chiesa ha così influenzato gli studi su se stessa, che anche chi dice di non frequentarla, conserva dentro di sé alcuni fondamentali parametri interpretativi.

Mi chiedono continuamente di citare le fonti delle mie tesi esegetiche, quando in realtà, più che andare per ipotesi, non possiamo fare. Tutte le fonti che abbiamo a nostra disposizione sono o false o inventate o mistificate. Persino quelle non ebraiche e non cristiane. Se ci si appoggia alle fonti ufficiali, rischiamo di ripetere le interpretazioni dominanti della Chiesa romana. Che sono peraltro ben poca cosa rispetto a quelle protestantiche (assolutamente dominanti nelle tre ricerche storiche sul Cristo). Qui possiamo citare al massimo i testi esegetici di cui ci serviamo, non delle fonti coeve ai fatti narrati. È dai tempi di Reimarus che si giudicano i vangeli delle mistificazioni belle e buone.70 Per fortuna oggi possiamo dirlo tranquillamente, perché lui, p.es., pur essendo un grande linguista, non ebbe il coraggio di farlo.

Mi dicono che la storia si fa coi documenti e che i quattro vangeli canonici ne costituiscono solo una minima parte. Mi obiettano che il pregiudizio di falsità delle fonti è un artificio troppo comodo per fantasticare come più ci piace.

Come se non si sapesse che la storia non è una scienza!71 Nessuna fonte è insindacabile, incontrovertibile. Anche se Gesù Cristo avesse scritto una propria biografia, ci sarebbero state lo stesso una montagna di interpretazioni opposte. La storia di per sé non è più vera dell’interpretazione dei fatti storici. Non ha senso farne un totem da adorare. È assurdo pensare che chi non fa “storiografia” tende a dire tutto e il contrario di tutto. Gli esegeti non sono delle banderuole.

Scrive giustamente John Meier: “Lo si chiami pregiudizio, tendenza, visione del mondo o posizione di fede, chiunque scrive sul Gesù storico scrive da qualche punto di vista ideologico; nessun critico ne è esente. La soluzione a questo dilemma non è pretendere un’assoluta oggettività che non può avere, né vagare in un totale relativismo. La soluzione è ammettere onestamente il proprio punto di vista...”.72 Il che però non può voler dire che un linguaggio laico possa attribuire una qualche verità al linguaggio mistico. Il misticismo è una falsificazione aprioristica, cioè indipendente dalle intenzioni dell’esegeta. E lo si può trovare anche nelle pieghe di taluni linguaggi laici, come p.es. in quello di Heidegger o di Wittgenstein. Non c’è alcun bisogno d’essere credenti dichiarati per essere affetti da tendenze mistiche: anche la “mano invisibile” di Adam Smith va considerata come il frutto di un retaggio mistico (medievale).

Peraltro le tre ricerche storiche su Gesù Cristo non le han fatte su documenti al di fuori del Nuovo Testamento (anche perché le fonti di Tacito e Svetonio non valgono nulla e quelle di Filone e Giuseppe Flavio van prese con le pinze). I testi di Qumran (una parte) sono stati esaminati solo nell’ultima ricerca sul Cristo. Quelli egizi di Nag Hammadi solo in misura molto limitata. La Sindone mai presa in esame (che per me invece è un reperto antico come gli altri). In genere i testi apocrifi son poco considerati, perché troppo favolistici. Usando strumenti non storici ma linguistici, gli esegeti han capito che Matteo e Luca copiavano da Marco solo alla fine del XIX sec. Bultmann disse che non avrebbe messo la mano sul fuoco neppure su un versetto dei vangeli, non perché avesse altre fonti, ma semplicemente perché le cose mistiche gli parevano inattendibili. Brandon arrivò a parlare del Cristo teopolitico esaminando il vangelo marciano (e utilizzò Flavio solo per ricostruire la storia dell’ultimo ebraismo). E sulla sua scia si situa tutta la teologia della liberazione e il cristianesimo per il socialismo.

Io stesso mi sento discepolo di Brandon, perché sono partito da lui alla fine degli anni ’70, e l’ho portato alle conseguenze più logiche, cioè meno religiose possibili. Le fonti storiche (canoniche e apocrife) le ho lette tutte, ma sui testi gnostici non ho mai nutrito particolari trasporti, perché non vedo nulla che riguardi il Cristo politico: se mi fosse piaciuta la gnosi, mi sarebbe bastato esaltare il IV vangelo, dove però la gnosi è stata usata proprio per negare al Cristo un’identità politica. Negli anni ’70 simpatizzavo per Giulio Girardi (cristiani per il socialismo) e la teologia della liberazione di Fernando Belo, Leonardo Boff, Gustavo Gutiérrez e altri, pur frequentando Comunione e liberazione, la cui casa editrice Jaca Book pubblicava testi molto interessanti. Mi piaceva anche il Cristianesimo primitivo di Karl Kautsky.

Poi sono approdato all’idea di un Cristo sostanzialmente ateo e politicamente antiromano. Quando son venuti fuori gli studi scientifici sulla Sindone, ho letto una valanga di libri e mi sono convinto che sia un reperto autentico, anche se per me non dimostra la verità dei vangeli ma la smentisce. E di fronte a questo reperto voglio pormi in maniera distaccata, non come un fanatico credente che la ritiene vera per confermare la propria fede, o come un fanatico ateo che la ritiene falsa per fare il contrario. Se un giorno troveranno una prova ultraconvincente della sua autenticità, non mi voglio sentire imbarazzato per aver sempre sostenuto una posizione negazionista. Non voglio fare dell’ateismo una nuova religione. Ecco perché mi limito a interpretarla in maniera esclusivamente politica, considerandola l’unica fonte pienamente attendibile di tutto il Nuovo Testamento.

Insomma questo per dire che alle fonti storiche per lo più fantasiose e mistificanti preferisco di gran lunga le interpretazioni degli esegeti. Con loro almeno si può discutere. Forse possiamo accettare i testi di Qumran, da cui provengono gli aspetti sacramentali del cristianesimo. Ma le fonti cristiane apocrife non valgono nulla rispetto a quelle canoniche, che pur contengono aspetti non meno falsi.73 Di quelle canoniche le uniche che davvero contano sono il vangelo di Marco, testimone della teologia prima petrina poi paolina, e soprattutto il vangelo di Giovanni, che si oppone a Marco, salvo le parti manomesse a favore dello gnosticismo. Il miglior interprete del IV vangelo resta Bultmann.

Ritengo di nessun valore persino le esegesi della patristica sui vangeli, perché troppo viziate da presupposti teologici. Potrei spezzare una lancia a favore della teologia del cristianesimo pauperistico medievale. Ma per me l’esegesi critica inizia con Reimarus74, procede poi con la Sinistra hegeliana e arriva sino al Jesus Seminar.75 Dovrebbero trovare il vangelo originario di Giovanni per farmi ricredere sull’importanza delle fonti.

Non esistono fonti oggettive o incontrovertibili da nessuna parte, non solo per quanto riguarda la figura di Gesù Cristo e la storia del cristianesimo. Tutto è soggetto a interpretazioni. Gli stessi vangeli vanno considerati delle interpretazioni su ciò che Gesù ha veramente detto e fatto. Non si può avere un atteggiamento magico o fideistico nei confronti delle fonti, ritenendo che alcune siano assolutamente false e altre assolutamente vere. Lo stesso Pietro, quando vide la tomba vuota, non si limitò a dire ch’era accaduta una strana scomparsa del cadavere, ma parlò proprio di “resurrezione”, pur non avendo mai rivisto Gesù redivivo, come documenta peraltro lo stesso vangelo marciano, se preliminarmente privato della chiusa posticcia.

Certo, la Donazione di Costantino è un falso patentato, eppure proprio quel falso ci ha fatto capire come sia nata nell’ambito della Chiesa romana l’ambizione a trasformarsi da Chiesa di stato a Stato della chiesa, contrapponendosi al basileus bizantino e al Patriarcato di Costantinopoli.

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7.1.1) Questioni fondamentali di metodo esegetico

Ha senso dire che Gesù Cristo non può essere considerato un personaggio storico, stando al racconto dei vangeli, e che al massimo può essere considerato un mito? Solo perché i suoi miracoli (o gli eventi fantastici inerenti alla sua persona) sono al di fuori delle capacità umane, al di là di qualunque concezione razionale dell’esistenza?

Qui si potrebbero facilmente muovere alcune obiezioni.

1- Anzitutto noi non sappiamo dove possono arrivare le capacità umane. Se guardiamo lo sviluppo della scienza e della tecnica, l’umanità ha prodotto dei risultati che se potessero vederli le persone esistite duemila anni fa, direbbero che sono assolutamente fantastiche. Certo, le nostre opere sono tangibili e si basano su calcoli matematici, nonché sull’uso di materiali molto particolari, ma si tratta appunto dell’applicazione dell’intelletto alle risorse della natura, cioè a qualcosa di esterno a noi. La nostra cultura tecnoscientifica non può sapere fin dove arrivano le capacità umane che si concentrano solo in se stesse, su ciò che esse possiedono di natura. Talune guarigioni, per es., ci sono parse strabilianti, ma solo perché siamo abituati a una medicina chimica, di sintesi.

2- In secondo luogo, il fatto che un personaggio storico venga presentato in maniera mitologica non appartiene solo al periodo schiavistico o alle culture religiose, ma riguarda anche il nostro attuale capitalismo e la sua cultura laicistica. Cambiano le forme, i contenuti di queste forme, ma l’intenzione di presentare la realtà in maniera travisata è la stessa. La mistificazione è una caratteristica delle società o civiltà basate sull’antagonismo sociale, di classe o di ceto o di casta.

3- Il paganesimo ha prodotto migliaia di miti, ma ad un certo punto ha trionfato il cristianesimo. Si trattava solo di un mito superiore a tutti gli altri? Non aveva altre caratteristiche che lo rendevano qualitativamente superiore al paganesimo? E queste qualità provenivano tutte da una concezione mitologica della realtà o avevano qualche attinenza con la realtà effettiva? A partire dal cristianesimo (ma potremmo dire a partire dall’ebraismo) abbiamo a che fare con soggetti disposti a morire per un ideale religioso, che in fondo viene considerato come un ideale di vita. È difficile incontrare nel paganesimo qualcuno disposto a morire per un proprio mito religioso. Magari si era disposti a farlo per un principio etico, per un certo stile di vita o per una convinzione politica, e poi successivamente si veniva mitizzati per questo dall’immaginario popolare. Ma il paganesimo non ha mai costruito dogmi su di sé, né ha mai preteso un regime di separazione dalla politica degli Stati; anzi, in genere si lasciava facilmente strumentalizzare per le esigenze di potere del sovrano di turno. Viceversa, ebrei e cristiani si lasciavano ammazzare per le loro convinzioni religiose. Il che fa pensare che vi credessero come se fossero basate su elementi assolutamente veritieri. Certo, uno può essere suggestionato da cose che in realtà non sono mai esistite, ma resta il fatto che nell’ambito dell’ebraismo e del cristianesimo persistono fenomeni di massa in cui i fedeli si giustificano a vicenda, e i cui comportamenti non possono essere liquidati con analisi superficiali.

4- Il fatto che nei vangeli Gesù Cristo venga presentato in maniera fantastica o mitologica non può portare a credere che, solo per questa ragione, il soggetto in questione non sia mai esistito. Sarebbe una conclusione arbitraria, impropria. Semmai dovremmo chiederci quale altro discorso si può ricavare dietro una costruzione mitologica. Il mito (ma anche la favola o la fiaba o una qualunque descrizione volutamente esagerata o fantastica) può essere usato per nascondere una realtà scomoda o imbarazzante, che non può essere detta esplicitamente o integralmente. Per cercare di capire i motivi per cui gli autori dei vangeli non si sono limitati a raccontare i fatti senza ricorrere a rappresentazioni che appaiono inverosimili, bisognerebbe partire da alcuni presupposti storici che sul piano umanistico possono essere accettati tranquillamente, non violando alcuna legge di natura, alcuna prassi storica. Per es. che Gesù Cristo sia stato crocifisso da un’autorità romana, la quale ha usato una sentenza capitale che in genere veniva applicata per i reati di sedizione politica, dovrebbe essere accettato come un dato di fatto. Non vi sono motivi plausibili per negarlo. Se non si accetta neanche questo presupposto storico, in fondo così minimalista, è inutile procedere nell’indagine.

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7.1.2) Strauss e il mitologismo

David Friedrich Strauss (1808-74) nella sua Vita di Gesù non si rende conto che il mito di Cristo, riportato nei vangeli, non può essere paragonato ai miti pagani. Nel mondo greco-romano la gente era molto campanilistica, divisa in città-stato. Gli dèi erano prevalentemente locali. Nessuno andava in giro a dire che gli dèi della sua città erano migliori di quelli di un’altra città: l’avrebbero linciato (come rischiò di esserlo Paolo a Efeso, in At 19,28ss.). Quando si proponeva il culto di divinità diverse da quelle locali, non si pretendeva di rivendicare un’assoluta unicità.

Certo, quando si formava un impero, superando i limiti delle città-stato, i sovrani tendevano a imporre degli dèi universali, validi per tutti (p.es. il culto di Mitra in quello romano), ma nessuno si sognava di considerare falsi gli dèi locali. Quando ci provò il faraone Akhenaton, fu subissato dalle critiche dei vari sacerdoti delle città-stato, al punto che il suo sacerdote Mosè se ne andò dal Paese, creando un monoteismo col popolo ebraico.

La religione pagana serviva per cementare l’appartenenza comune a un contesto urbano o rurale, ma non svolgeva il ruolo di un’ideologia totalizzante, che negava valore alle altre religioni. Quando Paolo disse all’Areopago (At 17,16ss.) che esisteva un solo Dio e che suo figlio era resuscitato, smisero subito d’ascoltarlo, non tanto perché aveva parlato di “resurrezione”, quanto perché l’aveva attribuita a un soggetto che vantava d’essere figlio esclusivo di un Dio-padre superiore a tutti, in quanto unico esistente.

Per il resto, tutto quanto poteva dire Paolo, i pagani l’avevano già sentito: il suo Cristo era un dio “salvatore” del mondo, figlio di un dio supremo, aveva subìto una passione che l’aveva portato a morire, ma poi era risorto e avrebbe prima o poi trionfato sui suoi nemici. Persino la nascita verginale era un tema già noto. Eppure nessun pagano pensava che il proprio dio fosse realmente esistito, e in ogni caso non si metteva a costruire una teologia dogmatica intorno alla storia del proprio dio. Erano dèi che rispondevano a esigenze psicologiche dovute alla frustrazione sociale, ma nessun credente si sarebbe fatto ammazzare per difendere il proprio dio.

Gli ebreo-cristiani erano unilaterali, intransigenti: da un lato ammettevano l’esigenza di avere un dio universale, dall’altro però negavano che potessero esistere degli dèi diversi dai propri. Questa sicurezza gli era data dal fatto che per loro il Cristo crocifisso era risorto in maniera reale (e non fittizia, come nei miti pagani). E sulla base di questa idea crearono una “chiesa”, cioè una struttura sociale quasi autosufficiente, dedita all’assistenzialismo sociale e sanitario, all’istruzione, all’accaparramento di terre e immobili, tramite lasciti e donazioni: una Chiesa in grado di competere coi servizi dello Stato. Gli adepti non venivano soltanto consolati, assicurando loro che dopo morti avrebbero risolto tutti i loro problemi, ma fruivano di un parziale riscatto già in questo mondo.

Quello che non capiscono i miticisti o mitologisti è che l’ebreo-cristianesimo non fu una pura e semplice operazione intellettuale. Le narrazioni dei vangeli non sono miti tendenti a rappresentare in modo fantastico l’identità di finito e infinito, ossia l’immanenza del divino nell’umano. Il mito cristiano non rappresentava soltanto una verità simbolica. Anzi all’inizio i seguaci del Cristo erano convinti che la parusia sarebbe stata imminente, poiché per loro non avrebbe avuto senso parlare di un uomo risorto che non fosse tornato in maniera trionfale. Semmai è stato dopo il crollo della Palestina che è subentrata totalmente la rassegnazione sul piano politico. Il cristianesimo ha surclassato il paganesimo quando ormai non aveva più nulla della politicità ebraica, salvo l’esigenza di vivere l’esperienza della fede in un contesto fortemente socializzato, quello appunto della comunità cristiana.

È quindi giusto separare il Cristo della fede da quello della storia – come fa Strauss –, ma a condizione di accettare l’idea che il primo è una conseguenza del fallimento del progetto politico di liberazione antiromana. Cioè non si può partire dal mito, come presupposto euristico, e poi sostenere l’inattendibilità storica delle vicende raccontate dai vangeli. Questa metodologia è astratta, poiché parte da un pregiudizio di fondo: considera tutto quanto appare di sovrannaturale nei vangeli come qualcosa di “inventato”, non come qualcosa che ha coperto in maniera mistificata qualcosa di reale. Anche perché alla fine, con una ermeneutica del genere, si arriva ad accettare sul piano storiografico solo ciò che fecero le comunità cristiane post-pasquali. Cioè si finisce dentro la storia del cristianesimo senza rendersi conto che la storia del movimento nazareno era ben altra cosa. Da tempo (anche grazie a Strauss) sappiamo che i vangeli rappresentano un avvenimento talmente trasformato dalla predicazione della Chiesa da risultare impossibile raccontare la vita di Gesù basandosi sul loro contenuto. Ma non si può trarre la conclusione che tutto quanto raccontano sia falso.

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7.1.3) La democraticità del Cristo

Nel complesso condivido l’idea di chi pensa che il Gesù storico, culturalmente giudaico, sia stato inserito dagli evangelisti in una tradizione ellenistica favorevole a un’etica universalistica e spiritualistica; posso anche accettare l’idea che tale tradizione si sia sovrapposta persino alla mistificazione petropaolina.

Quel che non posso assolutamente condividere è l’idea che il Cristo si ponesse come leader messianico-davidico. Si badi: non perché non fosse un politico, né perché non avesse intenti eversivi e rivoluzionari (sia contro i sacerdoti del Tempio che contro l’usurpatore romano), ma perché, se fosse stato solo questo, non si sarebbe distinto in nulla dagli altri leader zelotici, ch’erano fondamentalmente estremistici, se non terroristici nella loro variante sicaria.

Gesù voleva compiere un’insurrezione popolare e nazionale (interetnica e/o intertribale) usando metodi il più possibile democratici, che avrebbero previsto l’uso delle armi solo come soluzione difensiva, come extrema ratio. Quindi gli erano estranei i concetti di “colpo di stato”, di occupazione militare e quindi violenta di una città, di violenza gratuita e terrorizzante (cioè di uso sproporzionato della forza), di esecuzioni capitali o di punizioni esemplari, di uso della tortura per estorcere confessioni, e cose analoghe.

Con Gesù si può dire che siano nati sia il concetto di democrazia sostanziale che di socialismo democratico: due valori che ancora oggi non siamo riusciti a realizzare in nessuna parte del mondo. Forse le uniche vere esperienze democratiche e socialiste sono quelle delle tribù rimaste incontattate da tutte quelle civiltà antagonistiche sviluppatesi a partire dallo schiavismo.

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7.1.4) Il valore di Bultmann

Rudolf Bultmann capì perfettamente che, allo stato attuale delle fonti, è impossibile scrivere una vita di Gesù. Ma siccome era un teologo, si chiese anche se fosse possibile individuare quali potevano essere le parole che Gesù di sicuro poteva aver detto: di qui la sua ermeneutica del kerygma primitivo, basata più che altro su una filosofia esistenziale di derivazione heideggeriana.

Naturalmente, essendo un docente universitario in facoltà teologiche luterane, non poteva esprimersi liberamente. Ciononostante arrivò lo stesso a dire che tra il Gesù di Nazaret e il Cristo del kerygma vi era una totale discontinuità. Questo sulla base di tre elementi: 1) la costruzione del kerygma primitivo e della letteratura evangelica è fatta mediante sistemi letterari e categorie teologiche che hanno prodotto una figura mitizzata del Cristo, definito “Figlio di Dio”. S’impone quindi una demitizzazione del linguaggio biblico per comprendere la valenza etica del kerygma originario (cosa che poi non riuscì mai a trovare nella sua purezza concettuale, in quanto la storia nei vangeli è già, sin dall’inizio, non tanto una storia “morale” quanto piuttosto “religiosa”); 2) mentre la predicazione di Gesù proclama la venuta imminente del regno, la Chiesa primitiva predica il Cristo morto per i nostri peccati e risorto. Il predicatore è quindi divenuto il “predicato” (tuttavia Bultmann non arriverà mai a delineare un Cristo politico intenzionato a compiere un’insurrezione antiromana); 3) mentre Gesù parla dell’obbedienza incondizionata al Padre, il kerygma parla dell’obbedienza alla Chiesa (per noi la prima parte di questa affermazione non ha senso, in quanto appartiene già alla mistificazione teologica della Chiesa).

Resta il fatto che per Bultmann la fede cristiana inizia con un kerygma che si sostituisce al Gesù della storia: quest’ultimo diventa il presupposto della teologia evangelica senza esserne il fondamento.

Quel che appare strano in questa interessante analisi è che Bultmann non sia mai arrivato alla conclusione radicale secondo cui un Cristo storico coincide con un Cristo politico. E di conseguenza non è mai arrivato a pensare che il Cristo non fosse solo un politico eversivo, ma anche un intellettuale ideologicamente ateo. Un Cristo del genere non poteva predicare un astratto (in senso escatologico) “regno di Dio”, come se questo regno dovesse essere realizzato da Dio in persona e non dagli stessi uomini (soprattutto da quelli che non credono in nessun dio e non si aspettano una salvezza piovuta dall’alto). Bultmann è rimasto prigioniero della cosiddetta “teologia liberale” di matrice hegeliana, per la quale il Cristo era soltanto una persona eticamente irreprensibile, sicché tutti gli aspetti sovrannaturali che hanno fatto da cornice alla sua esperienza vanno considerato inventati.

Detto altrimenti: non credo sia molto logico sostenere che siccome del Cristo storico non possiamo dir niente, dobbiamo allora limitarci a un kerygma primitivo, seppur spogliato del suo misticismo. Noi dobbiamo anche rischiare, almeno a livello ipotetico, una possibile ricostruzione politica della vita di Gesù, poiché è fuor di dubbio che la mistificazione teologica è subentrata proprio per censurare un’istanza di tipo politico, la cui natura è attestata dal tipo di esecuzione capitale (un evento piuttosto imbarazzante per i primi cristiani). Pilato non avrebbe mai giustiziato un filosofo o un predicatore itinerante privo di un esercito popolare armato, né avrebbe mandato sul Getsemani un’intera coorte per catturarlo, né avrebbe scritto nel titolo della croce che il crocifisso era (secondo l’opinione dominante) il “re dei Giudei”. Non avrebbe fatto tutto ciò solo per fare un favore ai sadducei, col rischio d’essere denunciato all’imperatore e di avere la carriera rovinata.

Se non ci si azzarda in una ricostruzione del genere, si finisce nella gabbia della “storia del cristianesimo”, che è tutt’altra cosa rispetto alla “storia del movimento nazareno”. Non va tolto di mezzo qualunque riferimento alla Chiesa ma anche a Dio.

Purtroppo la generazione post-bultmanniana non capì quasi niente del suo maestro, semplicemente perché non portò le sue tesi alle più logiche conseguenze, ma approfittò di certe antinomie nella sua esegesi per ribadire il valore del misticismo. Si temette soprattutto che una valorizzazione eccessiva del kerygma originario (contrapposto alla ricerca storica sulla vita del Cristo) finisse col togliere addirittura al Cristo stesso la possibilità di un’esistenza personale. Nel senso che se tutto ruota attorno a un’idea primitiva, diventa irrilevante chi questa idea l’abbia formulata. Al limite quindi Gesù Cristo potrebbe anche non essere mai esistito.

In sostanza non si era capito che il Cristo dei vangeli o della fede se non era un’invenzione di sana pianta, era di sicuro una falsificazione o una mistificazione operata dalla teologia petropaolina, e che quindi bisognava ripartire da zero per attribuirgli una nuova identità.

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7.2) La manipolazione delle fonti

Ci si meraviglia dell’assenza di Gesù Cristo nelle fonti non cristiane. Perché Trotsky che fine fece nella Russia stalinista? Il suo nome veniva usato solo per condannare i dissidenti. Di ciò che lui scrisse non si seppe più nulla nell’URSS fino ai tempi di Gorbačëv. Era stato rimosso perfino dalle fotografie scattate quando Lenin era ancora vivo. Eppure era stato un protagonista fondamentale della rivoluzione bolscevica.

Questo per dire che quando si vuole compiere un’opera censoria, non si può essere superficiali: bisogna andare sino in fondo. Stalin manipolò persino il testamento politico di Lenin, e ancora oggi vi sono degli storici che non vi credono. Anche l’apostolo Giovanni subì un trattamento analogo a quello di Trotsky. Dopo aver fatto scomparire ogni riferimento alla sua persona nel IV vangelo, questo fu completamente stravolto.

È infatti evidente che per il cristianesimo primitivo l’unico apostolo che conta è Pietro, sulle cui tesi interpretative dell’intera vicenda di Gesù si colloca Paolo, che ne radicalizzò il contenuto in senso revisionistico, cioè anti-giudaico, anti-politico, ecc. Paolo sta a Gesù Cristo come Stalin sta a Lenin: in mezzo alle due coppie si colloca Pietro nella prima e Trotsky nella seconda. Sia Pietro che, e soprattutto, Paolo si scontrarono con Giacomo il Minore, che aveva la pretesa di riportare tutto l’operato di Gesù entro l’alveo del classico giudaismo.

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7.2.1) La speranza di nuove fonti

Dobbiamo convincerci di una cosa: non si può più pensare che possa esistere da qualche parte una fonte inedita che ci convinca una volta per tutte della falsità dei vangeli. Le ultime trovate a Qumran e Nag Hammadi non ci hanno offerto rivelazioni sensazionali sul Cristo politico. Ci hanno soltanto fatto capire da dove viene buona parte della teologia petro-paolina.

Non ha alcun senso pensare d’essere costretti ad accettare la rappresentazione che del Cristo danno i vangeli canonici solo perché non si hanno fonti che dimostrino il contrario. E tanto meno ne ha la tesi di chi sostiene che siccome il Cristo degli attuali vangeli (canonici e apocrifi) non è attendibile, allora è meglio pensare che non sia mai esistito, ovvero che sia soltanto il frutto di un mito più o meno pagano.76

È vero, qualsiasi fonte a nostra disposizione, sia essa canonica o apocrifa, non avvalora la tesi del Cristo politico, anche perché una tesi del genere sarebbe stata troppo impegnativa per la comunità che l’avesse formulata. Quanto meno infatti avrebbe implicato un qualche coinvolgimento della comunità in un’attività politica eversiva, avversa alla dominazione romana.

È anche vero però che questo non può in alcun modo voler dire che il Cristo non fosse un leader politico antiromano, come invece conferma il tipo di esecuzione cui dovette sottostare. Semmai vuol dire che il suo messaggio fu trasformato da politico a teologico, affinché la comunità redazionale potesse meglio convivere con la strategia oppressiva degli imperatori romani. Insomma, per capire che il Cristo fu un politico e non un sacerdote o un semplice profeta itinerante, le fonti a nostra disposizione possono essere considerate sufficienti. Si tratta soltanto di decostruirle, cioè di smontarle e di ricomporle diversamente.

Detto altrimenti. Bisogna fare attenzione a non dare troppa importanza al fatto che i vangeli non sono testi storici, ma apologetici, agiografici, tendenziosi… Questo perché qualunque testo storico non può essere considerato un testo scientifico, assolutamente oggettivo. Essendo prodotto da intellettuali al servizio dei poteri dominanti o comunque legati in qualche modo a ideologie più o meno prevalenti, un testo storico presenta sempre aspetti di parzialità più o meno marcati o evidenti. Persino un testo cosiddetto “scientifico”, in quanto basato su prove sperimentali, da laboratorio, o su ragionamenti di tipo matematico, può contenere un’ideologia sottintesa. Non è questo il problema.

Semmai bisogna cercare di capire, esaminando i vangeli, in che modo si è sviluppata la tendenziosità. Essendo stati scritti due millenni fa, quando ancora la religione aveva un certo peso, deve essere parso piuttosto naturale ai redattori mischiare fatti realistici con altri del tutto fantasiosi. Il che non vuol dire che oggi siamo immuni da questo rischio. Semplicemente, quando accade, troveremo che l’associazione non sarà più tra storia e ideologia religiosa, ma tra storia e ideologia laica.

Il problema è sempre quello di cercare di capire quanto l’uso del misticismo arrivi a deformare in maniera inaccettabile la realtà dei fatti. Che poi tale misticismo sia di natura laica o religiosa non cambia niente. Ci vuole un’analisi della realtà sociale, con tutte le sue contraddizioni economiche, i suoi bisogni insoddisfatti per la grande maggioranza della popolazione, i suoi conflitti di ceto e/o di classe (sempre molto evidenti nelle società basate sugli antagonismi irriducibili, non risolvibili o non mediabili in maniera equa, soddisfacente per tutti)… Bisogna inoltre cercare di capire in quale considerazione venivano tenuti il valore della democrazia (se sostanziale o semplicemente formale) e il valore dell’uguaglianza (sociale, interetnica e di genere).

Dopo aver compiuto un lavoro così complesso, ci si deve convincere che non si raggiunge mai la verità assoluta. In particolare è da abbandonare l’illusione che, nello scrivere su Gesù Cristo, i credenti abbiano una precomprensione e i non credenti invece siano esenti da ogni pregiudizio. Possiamo soltanto ammettere che una qualunque rappresentazione meramente teologica o anche teopolitica del Cristo presenta un vizio di fondo da cui ci si deve liberare. Il Gesù della fede è oggettivamente falso, a prescindere da qualunque esegesi si possa fare dei vangeli. Gesù Cristo appartiene agli atei, ma, detto questo, si è posta solo una premessa generica, che va declinata sul piano etico e politico.

Chi pensa che, se si prescinde dalla fede in Dio non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesù storico tout court, poiché di quanto viene detto nei vangeli non resterebbe assolutamente niente, ebbene costui del Cristo politico non ha capito nulla, per cui diventa solo una perdita di tempo mettersi a discutere con soggetti del genere.

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7.2.2) Storicità del Cristo o della fede in lui?

Sono abbastanza stucchevoli le tesi di chi sostiene che il cristianesimo non può mostrare nulla di storico a favore di Gesù Cristo. Se ci pensiamo bene, non è affatto importante sapere quali fatti sono realmente accaduti, ma quali erano le convinzioni che portarono a credere che certi fatti erano realmente accaduti. Se ci si limita a contestare i fatti, dopo un po’ il discorso muore, poiché ognuno resta delle sue idee. Se invece ci si confronta sulle convinzioni, forse qualcuno col tempo potrà ricredersi. Nella vita è del tutto naturale che le idee cambino. L’incoerenza non è sempre un disvalore ma un segno di maturità.

Certo, qualcuno può sostenere che le motivazioni per cui uno crede nel Cristo dei vangeli non siano molto diverse da quelle di chi credeva in Zeus o Jahvè. Il problema però è che nel Cristo credono miliardi di persone (come anche in Maometto) e detengono anche un certo potere politico ed economico. Bisogna smontare delle certezze e di sicuro non è facile: se si parte dalla non esistenza dei loro dèi, si parte già col piede sbagliato. E non è che possiamo dare per scontato che gli uomini sono folli di natura a credere in un “amico immaginario”. Anche perché non è detto che questo amico immaginario debba per forza essere una divinità religiosa. La cosiddetta “mano invisibile” che regola il mercato capitalistico di che sostanza è fatta? E la “natura” spinoziana?

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7.2.3) Il valore delle fonti extracanoniche

Usare i testi di Giuseppe Flavio o di Filone Alessandrino per contestare le versioni dei vangeli canonici può avere un senso molto limitato. Il fatto che in essi tutta l’attività di Gesù sia ridotta al minimo o addirittura non appaia per nulla, non può certo voler dire ch’egli non è mai esistito o che, se lo è stato, non ha fatto nulla di eclatante o di significativo.

Qui abbiamo a che fare con autori ebrei che non sono mai diventati cristiani: che interesse avevano a guardare le cose con obiettività? E poi i loro testi, come tanti altri, sono stati necessariamente revisionati dai cristiani al potere.

Prendiamo Filone Alessandrino. La sua filosofia proviene da quella platonica e neoplatonica ed è vicina a quella essenica, essendo totalmente ostile a quella zelotica. Che interesse aveva a esaltare il Cristo, che con gli esseni del Battista aveva rotto sin dalla tentata occupazione del Tempio? Filone cercava un sincretismo religioso pacifista che Roma incoraggiava per riunire tutte le nazioni dell’impero sotto un unico dio. Anche se non era sul libro paga di qualche imperatore, faceva comunque, oggettivamente, gli interessi della loro politica.

Morto nel 55, Filone non poteva aver copiato dal IV vangelo la sua idea di Logos. Semmai è stato il contrario. Tuttavia l’operazione che si compie nel Prologo (attribuito falsamente a Giovanni) non è così astrattamente mistica come quella di Filone. Il Logos del IV vangelo è una persona reale con natura divinoumana; quello di Filone è un concetto puramente metafisico. Non è da escludere che gli autori cristiani del vangelo abbiano scritto il Prologo proprio per contestare Filone. Infatti gli gnostici cristiani d’Egitto diranno che Cristo non era esattamente umano come gli esseri umani, ma lo era solo in maniera apparente. Il che è falso.

Quella gnostica è una letteratura che non serve a niente per capire il Cristo politico. Si può forse sostenere che dalla filosofia gnostica di Filone sia nata, successivamente, la teologia cristiana? Secondo me no, salvo forse le parti che possono apparire più liturgiche o sacramentali (ma questo lo si è già capito esaminando i testi essenici).

La teologia cristiana non è una semplice filosofia religiosa di qualche intellettuale, né un’esperienza di tipo esclusivamente monastico (basata su autoconsumo, beni essenziali, proprietà comune ecc.). È invece l’espressione di una comunità sociale urbanizzata, che chiedeva agli imperatori di separare le questioni politiche da quelle religiose. Quindi aveva in sé una connotazione eversiva, la quale, anche se appariva di molto inferiore a quella della politica gesuana, costituiva comunque un elemento di disturbo per i poteri costituiti dello Stato romano, sufficiente per indurli a perseguitare chi la professava (cosa che fu fatta per ben tre secoli!).

I soggetti cui Filone si riferisce sono i Terapeuti d’Egitto, vissuti sulle rive del lago di Mareotide, intorno ad Alessandria, i quali di “politico” non avevano nulla, neppure quella visione apocalittica e messianica così ben presente a Qumran, e continueranno a restare apolitici anche quando passeranno dal giudaismo al cristianesimo.

Far discendere Cristo da questi Terapeuti è come dire che la gnosi è a fondamento del cristianesimo, il che non è. Il fatto che il cristianesimo petropaolino sia una mistificazione del movimento nazareno e della politica gesuana, non implica affatto che la fonte di tale mistificazione sia di tipo gnostico. Gli ebrei che hanno stravolto il messaggio politico di Gesù non avevano bisogno di rifarsi alla filosofia gnostica: al massimo possono aver utilizzato tale filosofia per avvalorare il loro revisionismo.

Semmai è stato il contrario: la cristianizzazione della gnosi pagana può essere considerata una conseguenza della revisione mistica dell’operato del Cristo, una revisione iniziata a partire dal momento in cui si è interpretata la tomba vuota come “resurrezione”, rinunciando a qualunque “insurrezione” popolare.

Scrive Larry W. Hurtado:

“La venerazione di Gesù come figura divina esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico continua ad attribuire la venerazione per Gesù come figura divina all’influenza decisiva della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente e graduale... Con tutta la diversità del primo cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesù era incredibilmente comune. Le ‘eresie’ del primo cristianesimo postulavano largamente l’idea della divinità di Gesù. Non è questo in discussione. Il punto problematico, piuttosto, era se vi fosse spazio per un Gesù autenticamente umano”.77

Anch’io ritengo che la tesi mistificante sulla resurrezione sia stata formulata da Pietro praticamente appena uscito dalla tomba vuota. E l’ha formulata guardando la sindone, in virtù della quale ha escluso la tesi del trafugamento del corpo sostenuta dalla Maddalena. Poi, siccome la sindone avrebbe potuto essere contestata, in quanto la sagoma visibile a occhio nudo era inspiegabile, e nessuno ha più rivisto il corpo del Cristo redivivo, Pietro ha preferito non parlare del lenzuolo, ma solo di aver fede in qualcosa che aveva voluto la prescienza divina. Quindi ha mentito due volte: la seconda per sostenere la prima. Ciò porta inevitabilmente a concludere che del cristianesimo petropaolino non si possa accettare assolutamente nulla, proprio perché – in questo ha involontariamente ragione Hurtado – la “falsificazione” è iniziata subito!

Non basta limitarsi a constatare che tra il Gesù dei vangeli e il Cristo di Nicea e Calcedonia vi è di mezzo un abisso, poiché vi sarà sempre qualche teologo che dirà che il Cristo “maturo” dei concili ecumenici era già tutto racchiuso nel “germe” dei vangeli. Bisogna anche chiarire sino in fondo che qualunque considerazione teologica sull’evento Gesù va considerata ampiamente falsa o quanto meno fuorviante. Tutta la teologia che si è costruita sul Cristo non serve assolutamente a nulla per comprendere il lato politico della sua attività. È proprio una questione linguistica, relativa al modo d’intendere il significato delle parole.

Al di fuori di questa considerazione basilare ci si deve limitare a sostenere che i princìpi gnostici erano già stati assorbiti dagli ebrei nell’esperienza monastica dell’essenismo (e gli ebreo-cristiani li presero da qui). Certo, c’è dell’essenismo gnostico anche nel IV vangelo, ma in una forma cristianizzata che deriva dalla teologia paolina, la quale, essendo itinerante e missionaria, mirava a cristianizzare l’intero impero. È vero che il IV vangelo rappresenta uno sviluppo spiritualistico di tale teologia (che arriva persino a staccarsi dagli aspetti più propriamente ecclesiologici e rituali-sacramentali del cristianesimo urbanizzato), ma è anche vero che il IV vangelo (manipolato) di Giovanni non mette mai in discussione la natura divina del Cristo, anzi l’accentua ancora di più, come solo dei redattori monastici avrebbero potuto fare. La vera contestazione alla teologia paolina, in questo vangelo, va individuata solo in quei passi non pesantemente stravolti in cui si palesa una politicità eversiva del Cristo.

I testi gnostico-cristiani sono stati censurati dalla Chiesa cristiana statalizzata non perché contenessero aspetti imbarazzanti sul piano politico, che avrebbero potuto mettere in discussione il valore mistico dei vangeli canonici, ma perché contenevano delle “eresie religiose” che avrebbero potuto far deviare dall’ortodossia ufficiale, mirante a costruire, attraverso i Concili ecumenici, una certa uniformità interpretativa del Cristo teologico. Non c’è nulla di politico in quei testi, o comunque nulla che possa aiutarci a capire la vera politicità del Cristo.

Certo, uno può obiettare che se non ci aiutano in questo, allora vuol dire che l’idea di un Cristo politico è completamente sbagliata. In realtà la politicità eversiva del Cristo è desumibile proprio dai vangeli canonici e, in particolar modo, dall’ultimo. Bisogna solo individuarla tra le tante mistificazioni, falsificazioni e invenzioni. Il che, ovviamente, non può essere considerata un’operazione ermeneutica semplice, ma in quasi tre secoli di esegesi critica si sono fatti passi da gigante.

Tutto questo discorso vale anche per Giuseppe Flavio, un fariseo della Giudea che dopo la catastrofe del 70 si vendette all’ideologia dell’impero romano. I suoi testi, oltre che essere stati pesantemente manipolati nelle pochissime parti riguardanti Gesù Cristo (e non solo in queste), non hanno nulla che ci possano aiutare a comprendere il lato eversivo della politicità del Nazareno, anche perché sono del tutto avversi al lato rivoluzionario degli zeloti. E non perché Gesù fosse uno zelota, ma proprio perché Giuseppe Flavio rifiuta a priori qualunque rivendicazione politica di una indipendenza nazionale. Sono testi a favore di un compromesso vergognoso con l’impero romano, esattamente come i vangeli canonici, per cui non ha senso sperare di trovare in questo scrittore qualcosa che possa aiutarci a capire le incongruenze o le assurdità del cristianesimo primitivo.78

A partire dalla svolta teodosiana, che ha fatto del cristianesimo l’unica religione lecita, la censura cristiana ha compiuto una mistificazione eccellente, che ha costretto l’esegesi critica a limitarsi a un’operazione di smontaggio dei testi ufficiali, senza poter avere fonti alternative: un’operazione che ha dovuto limitarsi più all’ambito linguistico-filologico che non a quello storiografico. Le scoperte dei rotoli di Qumran e dei papiri di Nag Hammadi hanno offerto qualche contributo in più per demistificare le cose, ma non hanno affatto avvalorato la tesi del Cristo politico. Molto di più ha fatto l’indagine scientifica della Sindone, ma questo è un altro discorso che non è il caso di affrontare qui.

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7.2.4) Le fonti di Giuseppe Flavio

Il cosiddetto Testimonium Flavanium non sembra un testo manipolato da qualche copista cristiano (che, se l’avesse fatto, avrebbe dovuto avere l’approvazione di un proprio superiore), ma piuttosto un testo aggiunto di sana pianta, cioè interamente interpolato, frutto di una manipolazione concertata da un’autorità significativa, collegiale, o comunque non contestabile, in quanto di grande livello culturale. Qui infatti non si tratta di una “variante sul tema”, ma di un’aggiunta totale, che doveva tener conto del contesto storico-linguistico di Giuseppe Flavio e delle sue Antichità giudaiche. Quindi un’operazione abbastanza complessa, ben congegnata per quell’epoca, non estemporanea, dovuta all’iniziativa non di un singolo copista e/o del suo superiore, ma di una mente eccellente, che non avrebbe potuto essere contestata da nessuno.

Alcuni esegeti79 pensano a Eusebio di Cesarea (265-340), principale consigliere di Costantino, il maggiore intellettuale cristiano del tempo80, protagonista del Concilio di Nicea, dove apparentemente rinunciò al proprio filo-arianesimo (mutuato da Panfilo e Origene), e che poi riprese dopo il Concilio, in quanto aveva tutto l’appoggio dello stesso imperatore, il quale aveva capito perfettamente che con l’arianesimo, che poneva Cristo inferiore a Dio, la Chiesa doveva restare subordinata allo Stato in tutto e per tutto.

Probabilmente Flavio non parlò affatto di Gesù. Essendo egli un fariseo e membro del Sinedrio, e sapendo ch’erano stati proprio i farisei a tradire il messia, si sarebbe vergognato a parlare di lui. E in ogni caso, per quale ragione, parlandone bene, avrebbe dovuto fare un favore ai cristiani, suoi rivali sul piano ideologico? Chi si sarebbe accorto di tale lacuna storiografica, visto e considerato che Gesù fece solo dei “tentativi” rivoluzionari, senza riuscire a metterli in atto?

Per es. per i Sinottici è fondamentale l’epurazione del Tempio, che collocano, sbagliando, alla fine della carriera politica di Gesù (che di “politico” non ha più nulla), mentre per il IV vangelo è un episodio centrale del rapporto tra Gesù e il Battista. Nelle suddette Antichità non vi è neanche un accenno.81 Questo perché per Flavio sarebbe stato sconveniente mostrare la grande corruzione del Tempio. Il suo intento era quello di far vedere che tra i partiti ebraici ve n’erano alcuni (zeloti, sicarii), il cui estremismo portò alla rovina dell’intera nazione. Non era quello di far capire che i sadducei erano profondamente corrotti e che la nazione fu in realtà distrutta per colpa loro, in quanto principali oppositori del movimento nazareno. La sua tesi è molto semplice: se non ci fossero stati gli zeloti, i Romani non avrebbero distrutto Israele. E per combattere la corruzione dei sadducei, sarebbe stato sufficiente l’impegno dei farisei. Con ciò egli non capisce assolutamente che la nazione era già “distrutta” dai Romani e che se non ci fosse stata un’insurrezione nazionale, il suo destino era segnato. Flavio resta avverso non solo al movimento cristiano della teologia petro-paolina, ma anche al movimento nazareno del Cristo politico. E lo è proprio in quanto “fariseo”, i principali responsabili del tradimento politico nei confronti del Cristo.

Peraltro, se davvero avesse apprezzato il movimento nazareno, ne avrebbe parlato nella Guerra giudaica, scritta nel 75, non nelle Antichità giudaiche, scritte nel 93. E avrebbe dovuto dire che le “filosofie” ebraiche non erano quattro ma cinque, poiché il movimento nazareno era qualcosa di diverso dai farisei, sadducei, esseni e zeloti (che poi questi ultimi avessero una loro “filosofia” o “ideologia politica” diversa da quella farisaica è tutto da dimostrare: diverso, semmai, era il modo di applicarla, più estremistico negli zeloti, più moderato nei farisei).

Il Testimonium quindi va considerato falso nel suo insieme, anche perché, se avesse qualche parte autentica, sarebbe inspiegabile il motivo per cui Flavio non l’abbia successivamente approfondita. Infatti, che senso ha parlare di “opere sorprendenti”, senza citarne neppure una? Che senso ha parlare di “molti Giudei e molti Greci” che condividevano ciò che Gesù diceva e faceva, senza dire una parola su questi discepoli e sui discorsi e gesta di lui? Sembra che Flavio non sappia niente né del movimento nazareno né di quello cristiano: il che è davvero incredibile.

Quindi o non voleva dire nulla, oppure tutto quello che ha scritto è stato rimosso e, al suo posto, è stato inserito qualcosa di molto sintetico e del tutto insignificante rispetto ai vangeli. L’autore o gli autori che hanno creato il Testimonium non erano neppure di origine ebraica, ma greca, anche perché il testo è scritto in greco, una lingua che in Europa occidentale era conosciuta da pochi intellettuali, in quanto la Chiesa romana la boicottava in tutte le maniere. Ma lo si capisce anche dal fatto che i “Greci” vengono messi sullo stesso piano dei “Giudei”.

Il manipolatore (singolo o collettivo) mente sapendo di mentire, poiché non risulta da nessuna parte che Gesù avesse “molti Greci” (o “Gentili”) tra i suoi seguaci. Inoltre egli ripete un cliché fondamentale dei vangeli canonici, secondo cui Gesù fu giustiziato da Pilato perché era stato accusato dalle autorità giudaiche. Non vengono neppure spiegate le accuse; e si fa passare Pilato per uno che esegue senza discutere sentenze capitali su richiesta dei capi giudei. Quindi l’antisemitismo è analogo! Infine non viene mai detto che Gesù era per i discepoli il “figlio di Dio”. Infatti per Eusebio questa definizione era controversa: se considerata la figliolanza in via esclusiva, avrebbe dovuto accettare l’idea di “consustanzialità divina” tra Padre e Figlio, che invece rifiutava, sulla scia di Ario. Sarà solo nel Concilio di Costantinopoli del 381, convocato da Teodosio, che si supererà definitivamente l’arianesimo.

Il fatto straordinario della “resurrezione” di Gesù (almeno per come viene raccontato dagli evangelisti) viene liquidato in una riga, quando invece avrebbe necessitato di una trattazione più ampia, poiché è proprio da quello che nasce il movimento cristiano della teologia petro-paolina. Flavio è prolisso su molte altre cose di minore importanza. L’uso poi, stranissimo, della parola “tribù” per indicare gli appartenenti alla Chiesa cristiana, fa pensare che il testo sia stato scritto in un’epoca in cui le tribù barbariche cominciavano a stanziarsi all’interno dei confini dell’impero romano.

Inutile qui ricordare che il Testimonium non è citato da alcun apologeta cristiano anteriore a Eusebio. Già Origene si lamentava del fatto che Flavio non avesse detto niente di Gesù. Anche Ireneo e Tertulliano non sanno nulla. Il testo viene citato da Isidoro e Sozomeno, che però si rifanno a Eusebio. Infatti Fozio, esaminando i testi di Flavio, pur sapendo dell’esistenza del Testimonium, di fatto non lo trova.

Certo, esiste la versione riportata in un codice tratto dalla Historia universalis di Agapio di Mabbug, autore arabo-cristiano melchita del X sec. (morto nel 941), il quale si rifà a una più antica cronaca in siriaco scritta da Teofilo di Edessa (morto nel 785). Qui si parla di “un uomo saggio chiamato Gesù”, senza lasciar pensare che avesse una natura divina, in quanto era soltanto un soggetto “virtuoso”, la cui condotta era “buona”. Quando si parla di “resurrezione”, l’autore non la considera un fatto, ma una rappresentazione degli apostoli, una loro convinzione personale, in forza della quale ritennero Gesù un “probabile” messia. Cioè i discepoli di Gesù credevano nella sua messianicità non mentre era in vita ma solo dopo averlo visto risorgere! Il che è assurdo. Questo fa pensare che tale versione costituisca una variante della versione già creata da Eusebio. Come lo è quella di Michele il Siro.

*

Su Giuseppe Flavio si deve dire un’altra cosa. La lettura dei suoi testi ha convinto molti esegeti italiani, fondamentalmente atei, dell’ultima generazione (p.es. Donnini, Cascioli, Tranfo, Salsi, Esposito, Troisi ecc.), ad attribuire al Cristo un’origine galilaica o comunque delle caratteristiche di tipo zelotico. Si tratta però di una specie di “effetto alone” ingiustificato.

Duemila anni fa gli zeloti in Galilea erano sicuramente dei sovversivi sul piano politico, non meno del Cristo. Ma esistevano differenze fondamentali. Gesù non aveva una strategia di tipo teologico-politico. Non voleva costruire un “regno” con tanto di “monarca”, né ambiva a connotarlo sul piano religioso. Temeva anzi che le questioni teologiche avrebbero potuto dividere le etnie, le tribù, le popolazioni presenti nell’intera Palestina. Gli stessi vangeli fanno capire chiaramente l’odio ideologico che scorreva a fiumi tra Galilei, Giudei e Samaritani (cui si sarebbero potuti aggiungere anche gli Idumei). E per capire che una qualunque istituzione monarchica si sarebbe rivelata disastrosa per il popolo ebraico, così geloso della propria autonomia locale, bastava prendere atto della loro storia passata. Il meglio di sé gli ebrei l’avevano dato al tempo di Mosè e Giosuè, quando erano ancora divisi in tribù, non al tempo delle monarchie di Saul, Davide e Salomone.

Gesù era un leader politico della Giudea, più vicino ai farisei che non agli zeloti. Sicuramente era più rivoluzionario dei farisei, che pur avevano avuto una tradizione di resistenza di non poco conto, anche a fianco degli zeloti. È infatti impossibile non sostenere che Gesù rifiutò decisamente la proposta zelotica dei 5.000 Galilei sul Tabor di marciare su Gerusalemme per compiere un colpo di stato contro i sacerdoti del Tempio e la guarnigione romana nella fortezza Antonia. Preferiva una stretta collaborazione tra tutte le etnie e i gruppi politici della Palestina, anche perché sarebbe stato impossibile fronteggiare le legioni romane stanziate in Siria e in Egitto (come poi i fatti dimostrarono al tempo di Tito e Vespasiano).

In tal senso gli sembrava più utile trovare un rapporto di collaborazione col partito farisaico, di cui sicuramente stimava maggiormente l’impegno politico urbano, rispetto all’impegno sociale desertico degli esseni e dei battisti. Questo perché, pur non disprezzando affatto lo stile di vita comunitario degli esseni e dei battisti, lo riteneva inadeguato ai fini della liberazione della Palestina dai Romani e dai collaborazionisti dell’aristocrazia laica e religiosa.

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7.2.5) Letteratura canonica e apocrifa

Vuoi che la proto-ortodossia del cristianesimo primitivo, confluita poi nel canone del N.T., non avesse ragione a eliminare tutta quella letteratura bislacca su Gesù Cristo, oggi denominata come gnosticismo, docetismo, ebionismo ecc.?

Oggi l’esegesi laica denuncia la trasformazione del Cristo politico in Cristo teologico, ma se si esamina ciò che è rimasto di quella letteratura apocrifa si resta abbastanza sconcertati di quante assurdità sia capace la fantasia umana.

E tuttavia bisogna ammettere una cosa: è stato un errore aver eliminato quella letteratura, poiché uno deve esercitarsi da solo a discernere il grano dal loglio. Solo che questa consapevolezza è maturata tardi, e non grazie al cristianesimo, ma con lo sviluppo della secolarizzazione, che non soltanto ha laicizzato i contenuti della religione cristiana (come ha fatto gran parte della filosofia occidentale), ma è anche arrivata a dire che, a fronte della liberazione sociale e politica, una religione vale l’altra, in quanto tutte profondamente limitate.

In ogni caso se non s’interpretano i vangeli in maniera politica, restano solo due strade: quella confessionale piena di assurdo misticismo e quella negazionista, che ritiene Gesù un mito. Due facce della stessa medaglia, poiché con entrambe è impossibile discutere. I mitologisti, quando vogliono negare un’esistenza storica al Cristo, non si rendono conto che i primi a farlo sono stati gli stessi cristiani. Capisco che bisogna combattere l’idea che il Cristo teologico abbia una pretesa di storicità, ma non possiamo buttar via l’acqua sporca col bambino dentro.

Chi pensa che “interpretare” voglia dire “inventarsi le cose”, è solo uno sciocco. Anche i vangeli sono un’interpretazione di ciò che fece e disse Gesù. Tutto è interpretazione. Anche Pietro, pur non avendo mai più rivisto vivo Gesù, interpretò la tomba vuota come resurrezione. Una parola con cui sostituì un’altra ben più impegnativa: insurrezione. Per trovare qualcosa di autentico nei vangeli bisogna anzitutto eliminare tutto il loro misticismo, cioè considerare la teologia una sovrapposizione mistificante della politica. E che questa teologia sia ecclesiastica, gnostica, apocalittica ecc., non fa alcuna differenza.

Ritenere che nei vangeli sia tutto inventato è assurdo, è qualunquistico, è anarcoide. Anche perché quello che conta non sono le persone ma le interpretazioni che si danno agli eventi. Non ha nessuna importanza che i personaggi siano reali o fantastici. Polifemo è esistito? No, però esprime un passato preschiavistico, che Omero ha voluto rendere mostruoso per far vedere che la civiltà schiavistica rappresentata da Ulisse era migliore. Quindi ciò che Polifemo rappresentava era reale? Sì. E Omero è responsabile della fake news caricaturale.

L’esegesi è da sempre uno scontro di interpretazioni. Ci sono già stati, negli ultimi secoli, tre filoni storici di ricerca sulla vera identità del Cristo. Se gli esegeti avessero potuto lavorare su testi scritti da Gesù, forse avrebbero capito qualcosa di più, ma lui, di suo, non ha lasciato che la Sindone, che gli esegeti però, invece di vederla come una smentita dell’immagine stereotipata del Cristo pacifista ad oltranza, vanno a cercare in essa delle conferme evangeliche. Ma se la Sindone è vera, i vangeli mentono spudoratamente.

E poi ho i miei dubbi che se Gesù avesse scritto qualcosa, le interpretazioni al suo testo sarebbero state univoche. La scrittura, proprio in sé e per sé, fossilizza il pensiero, lo rende dogmatico rispetto alla continua mutevolezza della realtà.

*

Due parole aggiuntive sui testi cristiani apocrifi.

Anzitutto bisogna dire che raramente vi si trovano cose più sensate di quelle dette nei canonici, anche perché quasi sempre sviluppano, in maniera inverosimile, situazioni o personaggi già presenti in questi ultimi. Già coi canonici abbiamo a che fare con mistificazioni a non finire. Mettersi a dover analizzare quelle ancora più grandi degli apocrifi, è davvero una perdita di tempo. È semplicemente ridicolo servirsi di questi testi per contestare i canonici.

La loro connotazione esoterica, a sfondo gnostico o manicheo, è qualcosa di assolutamente fuorviante, utile al massimo per interpretare gli esordi del cristianesimo petropaolino, ma senza alcuna utilità per la ricostruzione ideale del Cristo politico.

Tuttavia è stato un errore bollare come “eretici” i loro autori, meritevoli d’essere espulsi dalla Chiesa ufficiale. Ireneo di Lione, che li condanna duramente in Contro le eresie (Adversus Haereses), non è esente dal dire sciocchezze non meno gravi, come p.es. che nel N.T. non vi sono dottrine gnostiche.

Della filosofia o teologia gnostica è difficile sopportare il rifiuto della materia a tutto vantaggio dello spirito e la necessità di vivere questo spirito in forma esclusivamente interiorizzata; ma anche l’idea aristocratica di un sapere intellettualistico riservato agli eletti (e quindi nascosto ai più); nonché l’idea di un nazionalismo politico-religioso a favore degli ebrei (contrapposto non solo all’universalismo altrettanto religioso del cristianesimo, ma anche a una politicità estranea alla religione), sono aspetti esiziali.

Insomma gli apocrifi sono più che altro dei testi di gossip, d’intrattenimento, elaborati in ambienti ebraico-ellenici prevalentemente egizi. Abbelliscono la vita di Gesù (soprattutto i due periodi dell’infanzia e dell’ultima pasqua) con elementi fantasiosi e leggendari, le cui falsificazioni si percepiscono a vista d’occhio. Tuttavia ritenere che i loro contenuti siano falsi al 100% e che, di conseguenza, vadano considerati attendibili solo quelli canonici, è un’affermazione priva di senso. Siamo solo in presenza di due diversi tipi di falsificazione.

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7.2.6) Quali tradizioni letterarie nei vangeli?

Con Rudolf K. Bultmann (1884-1976), teologo evangelico tedesco, si acquisì definitivamente che la storia della tradizione evangelica, nata nell’alveo giudeo-cristiano della Palestina, si era successivamente sviluppata nelle nuove comunità cristiane che vivevano nell’ambiente ellenistico.

Lo si capisce anche dal fatto che i vangeli danno un’eccessiva importanza al genere favolistico dei miracoli, incluse le straordinarie guarigioni. A un ebreo non sarebbe importato nulla che un messia fosse anche un guaritore. Anzi, avrebbe visto con sospetto uno che, per acquisire un consenso politico, si serve di propri poteri taumaturgici, anche nel caso in cui li avesse usati per guarire dei malati cronici.

I miracoli sono forme d’ingenuità che s’incontrano spessissimo nei miti pagani, come nelle fiabe e nei racconti fantastici che si raccontano ai bambini.82 Anche il IV vangelo, pur nato in ambiente giudaico, è stato costretto a subire tale influenza ellenistica. In questo vangelo poi il Cristo che parla come un dio disceso in terra, che molto difficilmente avrebbe potuto essere capito da un interlocutore reale, fa parte proprio di un Sitz im Leben ellenistico.

Semmai ci si potrebbe chiedere se il forte antisemitismo presente nei vangeli provenga più da una tradizione ebreo-cristiana o ellenico-cristiana. Probabilmente è nato nella prima ed è stato accentuato nella seconda. Prendiamo sempre il IV vangelo. Vi sono alcune pericopi che non sembrano proprio antisemitiche: parlano di discepoli occulti tra i farisei, di dissenso tra farisei e sadducei, di rapporti speciali di Gesù con alcuni Giudei, come Lazzaro e le sue sorelle, ecc. Eppure ci sono molte altre pericopi che non lasciano adito a dubbi, quelle in cui la parola Giudei viene usata intendendo l’intero popolo, senza fare distinzioni tra i vari partiti e neppure tra popolo e autorità religiose. Sinceramente parlando si rimane abbastanza sconcertati leggendo un vangelo così profondo.

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7.2.7) Varianti nei manoscritti del N.T.

Bart Ehrman, in Gesù non l’ha mai detto, ha calcolato che le parole cambiate dai copisti cristiani relativamente all’intero N.T. siano state tra le 200.000 e le 300.000 o forse più. Ci sono più differenze tra i manoscritti giunti a noi che parole nel N.T. Nessuna copia coincide perfettamente con un’altra. E ce ne sono arrivate 5.400, totali o parziali, in greco (da minuscoli frammenti di una riga a tomi che contengono tutti i 27 libri).

Ogni scriba riproduce gli errori degli scribi precedenti e ne aggiunge di propri. Non possediamo alcun originale dei libri del N.T., ma neppure copie eseguite direttamente sugli originali. I manoscritti più antichi delle lettere di Paolo risalgono all’incirca al 200, cioè quasi 150 anni dopo che lui le scrisse. Manoscritti completi di tutto il N.T. ne abbiamo solo a partire dal IV sec., alla fine del quale si decise il canone.

Non fa un po’ ridere quando qualcuno, vedendo interpretazioni esegetiche difformi da quelle ufficiali, si mette a chiedere “dove sono le fonti”? Non ha senso dividere le interpretazioni in ortodosse ed eretiche, come non ne aveva all’inizio della formulazione della teologia petro-paolina, che portò alla nascita del cristianesimo.

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7.3) Esegesi di Destro e Pesce

Affermano Adriana Destro e Mauro Pesce (qui in sintesi): bisogna distinguere il messaggio e l’operato di Gesù non solo dall’interpretazione che ne diedero i suoi seguaci, ma anche da quella che ne diedero le autorità giudaiche e romane. Che queste ultime abbiano percepito Gesù come un pericolo per l’ordine sociale e politico, e ne abbiano (entrambe) ritenuto opportuna la morte per questo motivo, e che il messaggio di Gesù avesse un contenuto politico, sono aspetti che non implicano affatto che il suo intento fosse politico, in particolare rivoluzionario.

La predicazione gesuana, orientata a una radicale trasformazione della società del tempo in vista dell’imminente avvento del regno, fu percepita dalle autorità come pericolosa e come potenzialmente rivoluzionaria, sebbene Gesù non avesse esercitato direttamente un’azione politica o rivoluzionaria, ritenendo egli che l’imminente irruzione del regno si doveva esclusivamente a Dio.83

Quindi Gesù sarebbe stato un mistico (o un profeta) che credeva, come un apocalittico (io aggiungo “allucinato”), che l’unica possibilità di creare a livello mondiale un regno democratico (di pace, giustizia, libertà...) solo Dio avrebbe potuto realizzarla. Quindi Gesù era un inetto sul piano politico o comunque uno disinteressato ai metodi della politica eversiva. E chi lo accusava (Pilato e Caifa in primis) di lui non avevano capito proprio nulla. L’hanno ammazzato per un malinteso, cioè perché lo ritenevano un individuo pericoloso sul piano istituzionale, quando invece non lo era. Voleva riformare il giudaismo soltanto spiritualmente, non rivoluzionarlo politicamente. E per riformarlo spiritualmente bisognava avere un respiro universale, che non riguardasse solo Israele.

Questo regno mondiale di giustizia e libertà non si sarebbe realizzato proprio perché Gesù fu improvvisamente ucciso. Tuttavia all’inizio i suoi discepoli pensavano che Gesù sarebbe ritornato in tempi brevi. Ma questa convinzione era fallace, in quanto Gesù non parlò mai di una sua seconda venuta. Quando poi i discepoli si convinsero che non ci sarebbe stata alcuna parusia in tempi brevi, cominciarono a dire che la salvezza stava unicamente nel perdono dei peccati che si ottiene credendo nella resurrezione di Gesù. La sua stessa morte venne interpretata come voluta dalla prescienza divina e la parusia rinviata alla fine dei tempi.

I due esegeti, infine, essendo nettamente filo-ebraici, assegnano interamente ai Romani la decisione finale di giustiziare Gesù (solo alcuni settori delle autorità giudaiche erano ostili a Gesù), e naturalmente accusano gli evangelisti d’essere filo-romani, avendo loro attribuito tutta la responsabilità ai Giudei. A tale proposito negano che Gesù sia stato seppellito da Giuseppe d’Arimatea, o comunque affermano che se davvero l’ha fatto lui, non l’ha fatto perché era un seguace occulto di Gesù, ma su mandato del Sinedrio. E nessuno ha mai saputo dove sia stato sepolto.

Cosa c’è di vero in questa tesi? Per me quasi nulla. I due esegeti si arrampicano sugli specchi. Vogliono togliere al Cristo qualunque politicità (col che in pratica non si capirebbe la sua differenza dal Battista), e scagionare le autorità giudaiche (complessivamente intese). Parlano di “dio” come se fosse un’entità esistente e poi dicono di non essere esegeti “confessionali”.

Che i vangeli siano antisemitici non ci piove. Le comunità sottese alla loro narrazione cercavano un compromesso politico con l’impero romano, e per poterlo fare dovevano convincere le autorità che coi Giudei sovversivi (in guerra contro Roma dal 66 al 135) non avevano nulla a che fare. Cosa che però non convincerà affatto le autorità romane, tanto che le persecuzioni andranno avanti sino a Costantino. Al massimo le autorità si saranno convinte che i cristiani non ambivano a un proprio territorio geografico in cui esercitare un potere politico-istituzionale. Ma questo non era sufficiente per non considerarli pericolosi, in quanto di fatto i cristiani, pur dicendo che “pregavano” per l’imperatore, si rifiutavano di riconoscergli qualunque caratteristica divina, non partecipavano ai culti pagani (di cui l’imperatore era “pontefice massimo”), non militavano nelle legioni (almeno non all’inizio) ecc. Insomma non apparivano affidabili. Sostanzialmente volevano un regime di separazione tra Chiesa e Stato (impensabile per i Romani, abituati com’erano a strumentalizzare la religione per fini politici). Tale separazione tra Dio e Cesare l’avranno solo con Costantino, anche se fino a un certo punto, poiché nel Concilio di Nicea (325), che lui volle presiedere, si condannò ufficialmente (per la prima volta) l’arianesimo, ponendo le basi di un confessionismo statale, che infatti l’imperatore Teodosio mise in atto dopo l’Editto di Tessalonica (380) e il Concilio di Costantinopoli (381), con cui si condannò definitivamente l’arianesimo e varie altre eresie, iniziando un processo di smantellamento (o di revisione) dei testi non allineati.

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7.3.1) Mauro Pesce sulla Sindone

Il testo cui si fa riferimento è un PDF trovato nel sito di Academia.edu: “Il lenzuolo del cadavere di Gesù nei più antichi testi cristiani”.

“Nel Vangelo di Marco il cadavere di Gesù viene avvolto in un lenzuolo (sindôn) da Giuseppe d’Arimatea. Ma quando Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome vanno al sepolcro vedono solo ‘un giovane’, non sembra vedano nella tomba qualcos’altro, tanto meno un lenzuolo. Successivamente il Vangelo di Marco non parla più della tomba. Quindi, secondo questo vangelo, nessuno è andato nella tomba a recuperare il lenzuolo in cui era stato avvolto il cadavere di Gesù per conservarlo”.

Questo quanto dice Mauro Pesce a proposito del vangelo marciano. Sostanzialmente non ha capito che il cristianesimo si basa proprio sulla sindone, e che però non poteva dirlo, poiché quel lenzuolo non “dimostra” nulla. La sindone si limita soltanto a mostrare una stranezza. Si poteva far nascere una nuova religione sulla base di una stranezza? No, la religione ha bisogno di certezze in cui credere per fede (cieca). Quindi è preferibile credere in un “giovane” (angelicato) che annuncia alle donne (incredule e timorose) che Gesù è risorto, piuttosto che credere in un lenzuolo in cui la sagoma presente si è formata in maniera inspiegabile.

Passiamo ora al Vangelo di Luca: qui le donne vedono “due uomini… in vesti sfolgoranti”. “Non sembrano proprio vedere panni o lenzuola. È Pietro che, accorso al sepolcro, non vede i due giovani, ma dei panni (ta othonia). Si noti bene: non un lenzuolo, sindôn, ma – al plurale – panni o lenzuola (othonia). (Spesso othonia viene tradotto con la parola ‘bende’, ma questa traduzione è contestabile dal punto di vista lessicale. Più che di bende si tratta di una stoffa piuttosto grande, che potremmo chiamare ‘panno’ o ‘lenzuolo’). Pietro sembra non avere intenzione di toccare alcunché. Si guarda bene dal toccare le lenzuola o prenderle con sé per conservarle. È strano che l’autore del Vangelo di Luca dapprima dica che Gesù è stato avvolto in una sindôn, lenzuolo, e poi dica che Pietro vede nella tomba non una sindôn (sindôn in greco è un sostantivo femminile) ma degli othonia. Il significato del termine negli Atti degli apostoli (10,11; 11,5) appare chiaro: un othon è un panno che, se preso per i suoi quattro angoli, può contenere molti oggetti al suo interno. E quindi potrebbe in sostanza significare lenzuolo, panno abbastanza grande. Gli Atti degli apostoli ai versetti 10,11 e 11,5 usano il termine al singolare, perché si riferiscono a un solo othon. Nella tomba di Gesù, Pietro vede invece degli othonia, cioè almeno più di un lenzuolo o panno. Su questi panni, stando al vangelo di Luca, Pietro non vede alcuna immagine di Gesù impressa! La presenza di questi panni o lenzuola serve al racconto solo per dire che il corpo di Gesù non è più nello stato in cui era prima. Non è più avvolto da panni funerari. Il testo fa capire che il corpo di Gesù non è più nelle lenzuola, non che sulle lenzuola si sia impresso il volto e il corpo di Gesù che era contenuto in esse! L’assenza di ogni immagine di Gesù sulle lenzuola (oltre al fatto che si tratta di lenzuola al plurale) mi sembra tolga ogni possibilità di identificazione tra la sindone di Torino e le lenzuola menzionate dal Vangelo di Luca. Il Vangelo di Luca poi non parla più di questi panni o lenzuola né dice che qualcuno le abbia prese. Gli specialisti dicono che gli Atti degli Apostoli è un’opera scritta dallo stesso autore del Vangelo di Luca. Ebbene: negli Atti degli Apostoli non si parla più né del lenzuolo, né dei panni che avevano avvolto il cadavere di Gesù secondo il Vangelo di Luca. Il disinteresse per questo argomento è totale”.

Questo il commento di Pesce ai versetti di Luca. Ancora una volta l’esegeta non capisce che nessuna donna è mai entrata nel sepolcro e quindi nessuna poteva vedere qualcosa, se non al massimo l’uscio aperto. Non capisce che Pietro non va al sepolcro da solo, ma insieme a Giovanni. Nel vangelo di Luca l’apostolo Giovanni è stato tolto, perché il conflitto con la teologia petro-paolina aveva raggiunto un punto di totale rottura. Tant’è che viene fatta sparire anche la Sindone. Se Luca parla di panni o bende o lenzuola al plurale, non sa quel che dice, come spesso succede nel suo vangelo. Infatti le uniche bende esistenti sono quelle che legavano in più punti il lenzuolo per tenerlo stretto alla salma.

A Pietro non interessa la Sindone, perché non è sulla base di quella che può impostare la sua tesi della resurrezione, che invece ruota attorno a concetti mistici, come impotenza umana, morte necessaria di Gesù, prescienza divina, parusia imminente e trionfale del messia.

L’impronta della sagoma di Gesù sulla sindone non è così sconvolgente a occhio nudo come quella che si vede nel negativo fotografico. Se anche quell’immagine non appartenesse a Gesù, di sicuro nessun falsario avrebbe potuto produrla.

Vediamo ora il commento a Matteo. Qui “si parla di una riunione di autorità religiose e politiche che fanno sigillare il sepolcro di Gesù e lo fanno sorvegliare da armati. Un angelo scende dal cielo. La discesa è accompagnata da un terremoto. L’angelo apre il sepolcro alla presenza sia dei soldati sia di ‘Maria di Màgdala e l’altra Maria’. Esse vedono solo un angelo (non due come in Luca) e assistono all’apertura del sepolcro (mentre in Marco il sepolcro era già aperto). Solo Matteo parla della presenza dei soldati e delle donne all’apertura del sepolcro da parte di un angelo. È importante il fatto che le donne non entrano nel sepolcro e che in esso non entri nessuno dei discepoli. Pietro quindi, secondo il Vangelo di Matteo, non vede alcun lenzuolo abbandonato nella tomba come invece raccontava Luca”.

Pesce sembra non capire che Matteo s’inventa tutto. È unicamente preoccupato a contrastare l’accusa dei capi giudei secondo cui il corpo di Gesù è stato trafugato dagli apostoli per far credere che Gesù era risorto. Tutto il resto che scrive è pura fantascienza. Avrebbe meritato d’esser messo negli apocrifi.

Ma proseguiamo con Pesce. “Nel quarto vangelo non è solo Giuseppe d’Arimatea che si fa dare il cadavere di Gesù da Pilato, ma anche Nicodemo. Ambedue avvolgono il cadavere di Gesù, ma non in una sindôn, bensì – al plurale – in othoniois. Per giunta, il Vangelo di Marco sostiene che ‘passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù’ e così pure dice Luca: ‘il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato’. Giovanni invece pensa che il cadavere di Gesù sia stato già profumato e unto da Giuseppe di Arimatea e Nicodemo. In Giovanni è solo Maria Maddalena che va al sepolcro e non altre donne come in Marco, in Luca e Matteo. Quando Maria di Magdala arriva, il sepolcro è già aperto (come in Marco e non ancora chiuso come in Matteo. In sostanza, il Vangelo di Giovanni è coerente nell’affermare che il cadavere di Gesù fosse stato avvolto in lenzuola al plurale (othonia). Aggiunge che nella tomba c’era anche piegato a parte un soudarion che ‘era stato posto sul capo’ di Gesù. È interessante che il Vangelo di Giovanni quando parla al capitolo 11,44 delle fasciature del cadavere di Lazzaro menziona delle keiriai (bende che sarebbero sulle mani e suoi piedi) e non degli othonia (panni grandi o lenzuola). Sia le lenzuola che il soudarion sarebbero stati visti sia da Pietro sia dal discepolo amato e da nessun altro. Nessuno dei due, però, si badi bene, portò via lenzuola e sudario. Anche in questo caso la descrizione, puntigliosa, di Giovanni non dice affatto che il volto e il corpo di Gesù fossero impressi sulle lenzuola e/o sul soudarion. Una cosa simile non avrebbe potuto sfuggire al loro sguardo. Secondo il racconto il soudarion era accuratamente ripiegato e posto in un luogo diverso rispetto alle lenzuola. Ciò significa che, secondo l’autore del testo, il discepolo amato ha guardato accuratamente questi panni. Su di essi, evidentemente, non vi era alcun segno dell’immagine di Gesù. Quindi anche questo testo porta ad escludere che la sindone di Torino coincida con quella di cui parla il Vangelo di Giovanni”.

È straordinario come per Pesce tutte queste contraddizioni tra i vangeli non significhino assolutamente nulla. Lui ha in testa un’unica tesi: la Sindone è un falso medievale e comunque, anche se non lo fosse, nulla lascia pensare che quella immagine corrisponda al corpo di Gesù.

Non capisce che Nicodemo è stato aggiunto successivamente, forse in omaggio alla sua conversione al cristianesimo petropaolino. E quindi che, in assenza di oli e aromi profumati, il corpo di Gesù non fu né lavato né unto. Non capisce che la parola “sudario” (usata nel mondo romano ed egizio) è stata messa per sostituire la parola “Sindone”, oppure che è un suo sinonimo. Non capisce che i corpi dei cadaveri ebrei non venivano bendati o fasciati (alla maniera egizia) ma solo avvolti in un lenzuolo. Non accetta l’idea che se l’autore della pericope parla di lenzuolo ripiegato su se stesso e posto in un luogo a parte, vuol dire che quell’oggetto fu conservato gelosamente (dallo stesso Giovanni), anche nei confronti delle stesse autorità giudaiche, le quali, se l’avessero visto, avrebbero certamente fatto in modo di distruggerlo. Ma soprattutto non capisce che se anche quel lenzuolo fosse stato esibito in pubblico, non avrebbe potuto evitare a Pietro di formulare la sua interpretazione della tomba vuota come “resurrezione”, né avrebbe potuto indurre il movimento nazareno a proseguire sulla strada dell’insurrezione nazionale. Quello era un reperto che doveva restare “chiuso in un cassetto”, perché non costituiva la prova di nulla.

Pietro ha costruito la sua religione sulla base della Sindone, senza poter dire ch’essa esisteva, poiché se l’avesse esibita, proprio la Sindone l’avrebbe smentito. Infatti la Sindone non è un oggetto mistico, mentre invece lo è la sua tesi sulla resurrezione, cui bisogna credere solo per fede.

Non è vero quindi che “Se i discepoli avessero posseduto il lenzuolo in cui il cadavere di Gesù era stato avvolto, nel quale l’immagine del volto e del corpo ferito fosse stato impresso, sarebbe stato per loro molto facile affermare: per credere basta vedere il lenzuolo. Oppure: se avessero pensato che la fede si basa sulla vista e sul tatto avrebbero fatto ricorso a questo lenzuolo (se lo avessero posseduto). Ma il testo mostra chiaramente: (1) che non avevano alcun lenzuolo e (2) che non pensavano affatto che l’immagine del corpo di Gesù fosse rimasta impressa su un lenzuolo e (3) soprattutto non pensavano affatto che un lenzuolo con l’immagine del corpo morto di Gesù servisse a fondare la fede”.

Invece è esattamente il contrario: 1) avevano il lenzuolo; 2) sapevano che quella sagoma corrispondeva a Gesù; 3) ma siccome Pietro non attribuì al reperto alcun valore religioso, non lo si utilizzò per far nascere il cristianesimo.

Quindi recuperare l’autenticità del cristianesimo significa minare le basi del cristianesimo. E questo può essere fatto solo in un’unica maniera: dimostrando che il Cristo politico della Sindone non ha nulla a che fare col Cristo teologico dei vangeli.

L’errore di Pesce è comunque a monte: parte da Marco invece che da Giovanni. Non capisce che il IV vangelo si oppone ai Sinottici e alla teologia petro-paolina ch’essi esprimono, e lo fa proprio in quanto “testo politico” che sponsorizza l’immagine di un Cristo sovversivo contro i Romani. Proprio perché impostato in questi termini, quel vangelo, per sottrarsi alla damnatio memoriae, è stato costretto ad autocensurarsi in chiave altamente spiritualistica, ai limiti della gnosi.

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7.4) Ratzinger su Giuda

Tesi di Joseph Ratzinger: Giuda era uno zelota e voleva un messia vincente che guidasse una rivolta contro i Romani, ma Gesù aveva deluso queste attese. Si sentiva tradito, per cui decise a sua volta di tradirlo. Gli zeloti erano un gruppo politico-religioso, partigiano accanito dell’indipendenza politica del regno ebraico, nonché difensori dell’ortodossia e dell’integralismo ebraici. Erano considerati dai Romani alla stregua di terroristi e criminali comuni.

Giuda comunque tradì non solo perché si sentiva tradito nelle sue aspettative messianiche, ma anche per i 30 denari. E Gesù, con la sua prescienza, sapeva che Giuda l’avrebbe tradito. Giuda non se ne andò dal movimento nazareno proprio perché aveva intenzione di tradirlo. Quindi era proprio un falso demoniaco.84

Ratzinger usa questa tesi per sostenere che Gesù non era un leader rivoluzionario ma un pacifista a oltranza, il cui regno è solo nei cieli. Quindi come saranno andate le cose? Nella maniera opposta: Gesù voleva fare l’insurrezione antiromana, ma Giuda, che proveniva da ambienti farisaici, non zelotici, era convinto che senza l’appoggio fattivo della maggioranza dei farisei, sarebbe stato impossibile fare qualunque cosa di eversivo in Giudea.

Giuda dovette verificare l’effettiva disponibilità dei farisei nella notte decisiva del Cenacolo. Questo il senso della richiesta di Gesù: “Quel che devi fare, fallo presto”. Molto probabilmente Gesù avrebbe occupato la fortezza Antonia anche senza l’appoggio della maggioranza dei farisei, ma aveva comunque bisogno di sapere su quali forze poteva contare. Si può anzi presumere che, se l’avesse occupata, non avrebbe decimato la guarnigione ivi stanziata, dopo che questa si fosse arresa e avesse deposto le armi, come invece farà il capo dei sicarii, Eleazar, al tempo della guerra giudaica del 66-70.

Giuda quindi non aveva intenzione di tradire, ma lo fece sul momento, convinto dai farisei, i quali gli avranno anche assicurato che Gesù non sarebbe stato consegnato ai Romani ma tenuto prigioniero nelle carceri giudaiche.

Giuda in sostanza era un fariseo progressista, politicamente moderato, che si suicidò quando vide che Gesù era stato consegnato ai Romani.

Che fosse un moderato lo si capisce dal fatto che a Betania, pochi giorni prima dell’ingresso messianico, si scandalizzò che la sorella di Lazzaro avesse sprecato un profumo molto costoso a favore di Gesù. Maria l’aveva fatto come se volesse ungere un messia vittorioso. Giuda invece voleva far capire che senza l’appoggio dei farisei non si poteva essere sicuri di niente. I fatti gli diedero ragione, ma se non avesse tradito, gli avrebbero dato torto, poiché per Gesù era giunto il momento di dimostrare che si poteva occupare la fortezza Antonia e quindi il Tempio anche senza l’appoggio di tutti i farisei.

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7.5) Fede e politica inseparabili tra gli ebrei?

Non pochi esegeti sostengono che se si vuole pensare a un Gesù politicizzato, è bene sapere che nel tempo e nei luoghi in cui lui è vissuto era impossibile separare la religione dalla politica.

Per me questa è una tesi valida per gli zeloti o i farisei o gli esseni, ma non per il Cristo e, se ci pensiamo, neppure per i suoi carnefici, collusi coi Romani: i sadducei. Che separavano ben volentieri le autentiche istanze religiose dal loro potere politico ed economico. Peraltro credevano solo nella Torah, come i Samaritani.

Quanto a Gesù bisogna dire che sin dal momento del suo rapporto coi Samaritani (successivo alla fallita occupazione del Tempio, secondo la cronologia giovannea) si ha l’impressione che la questione religiosa, in sé e per sé, non rientri negli argomenti da affrontare per risolvere il problema della liberazione nazionale dai Romani e dalla casta sacerdotale corrotta e collusa.

Coi Samaritani Gesù semplicemente si limita ad affermare il principio della libertà di coscienza in materia di atteggiamento da tenere nei riguardi della fede religiosa: cioè pregare Dio al Tempio o sul monte Garizim è del tutto indifferente ai fini dell’insurrezione.

Per il resto, tutto ciò che dice in chiave teologica va considerato “redazionale”.

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7.6) La tesi di Reimarus

Cosa disse di così sconvolgente su Gesù il linguista tedesco Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) da non avere il coraggio di pubblicarlo?85

La tesi che sosteneva, formulata per la prima volta al mondo, era la seguente: il Gesù storico non ha nulla a che fare col Cristo teologico rappresentato nei vangeli. Il primo doveva essere, come tanti altri messia di quel tempo, un uomo politicamente sovversivo, intenzionato a cacciare i Romani dalla Palestina, anche se afflitto da illusioni messianiche. Il cristianesimo nacque quando, dopo il fallimento della sua impresa, gli apostoli, che non si erano rassegnati, trafugarono il suo cadavere facendo credere ch’era risorto. Di qui la trasformazione del Gesù storico-politico in un Cristo mistico-teologico.

In questo Reimarus si collocava in quel processo culturale di laicizzazione avviato dalla Riforma protestante: un processo ch’egli però radicalizzava al punto da determinare una rottura insanabile con la stessa esegesi luterana e calvinistica. D’ora in poi i vangeli avrebbero dovuto essere interpretati solamente alla luce di criteri storico-razionalistici, lontanissimi dalla teologia. Ciò diede il via alla prima ricerca su Gesù: la Leben Jesu Forschung (indagine sulla vita di Gesù) il cui scopo era quello di chiarire la vera identità del Cristo.

Ma dov’è che sbagliava? Reimarus era un cultore di lingue antiche: leggeva i testi dell’A.T. e del N.T. nelle lingue originali. Non era uno sprovveduto. A partire da lui nasce non solo la storiografia mitologistica ma anche quella storicistica. Dov’è sta dunque il suo limite?

Di assurdità ne ha dette due, fondamentalmente: che Gesù era un messia illuso, e che il suo cadavere fu trafugato dai suoi discepoli per far credere ch’era risorto. Un uomo non va considerato un “illuso” solo perché ha perso la sua battaglia politica. Gesù aveva scelto il momento giusto per fare l’insurrezione. Al tempo di Augusto e di Tiberio Roma aveva già stabilito, grosso modo, i suoi confini: non era più in fase espansiva. A Teutoburgo e a Carre aveva subìto sconfitte disastrose. Il Limes era ormai basato su alcuni grandi fiumi: Reno, Danubio, Eufrate. Le sue legioni non erano in grado di dominare le popolazioni germaniche, scito-carpatiche e partiche. Potevano espandersi solo in due direzioni: l’Africa (ma il deserto glielo impediva, anche se arrivarono, in perlustrazione, sino alle fonti del Nilo) e il Vicino Oriente. In Inghilterra non riusciranno mai a occupare la Scozia.

In Palestina, dopo aver occupato la Siria, i Romani erano penetrati in Giudea, Samaria e Idumea, ma non avevano ancora conquistato Galilea e Perea, se non indirettamente, tramite gli erodiani. Gli Idumei, peraltro, se il movimento nazareno avesse cacciato i Romani dalla fortezza Antonia, si sarebbero subito alleati coi Giudei, come fecero con gli zeloti durante la guerra del 70. I Samaritani avevano già riconosciuto in Gesù il possibile leader di una rivolta contro Roma. Insomma c’erano tutte le condizioni per una insurrezione popolare vittoriosa. Gesù non era un illuso né un avventuriero, non giocava a fare il rivoluzionario.

Inoltre i Romani usavano le conquiste militari di territori altrui come mezzo per risolvere le loro interne contraddizioni. Senza una politica estera aggressiva erano debolissimi in politica interna, continuamente soggetti a guerre civili. La storia della Repubblica lo dimostra ampiamente.

Quanto all’idea di “resurrezione”, l’avevano solo i farisei e in maniera alquanto vaga, destinata a concretizzarsi in un futuro non prevedibile. I discepoli non avrebbero mai potuto applicarla a una persona particolare, se effettivamente non avessero visto qualcosa di strano nel sepolcro. Non avrebbero potuto rischiare d’apparire ridicoli se non avessero avuto come prova la Sindone, che però non potevano esibire, sia perché essa non costituiva una prova al 100%, sia perché temevano che venisse distrutta dai Giudei.

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7.7) Brandon e io

In fondo le uniche due tesi di Samuel Brandon, di cui mi sento discepolo, che non ho condiviso, sono le seguenti:

- la politica eversiva di Gesù era affine a quella zelotica, e quindi aveva connotati teologici;

- il movimento nazareno non avrebbe potuto farcela contro la ritorsione delle legioni romane.

Per me invece Gesù era del tutto indifferente alla religione, ed era riuscito a creare i presupposti politici per resistere alle legioni romane.

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7.8) Esegesi di Francesco Esposito

Vediamo le tesi principali, riferite al solo Gesù Cristo, nel libro di Francesco Esposito, Prima del cristianesimo, UnoEditori, Città di Castello 2020.

La sua premessa storico-politica mi pare giusta. Per capire Gesù Cristo bisogna risalire alla guerra maccabaica (proto-zelotica) contro l’imposizione dell’ellenismo da parte del sovrano Antioco IV Epifane. In effetti – si può aggiungere – quando Gesù dice alla samaritana che “la salvezza viene dai Giudei” (Gv 4,22), non aveva tutti i torti, benché non gli importasse nulla della religione. Faceva semplicemente una constatazione di fatto: i Giudei avevano conservato meglio di qualunque altra popolazione ebraica, la diversità dell’ebraismo rispetto alla cultura ellenistica o pagana.

Secondo Esposito bisogna risalire anche alla formazione dell’essenismo, avvenuta nel II sec. a.C. contro la gestione sacerdotale del Tempio, altamente corrotta. Questo perché Gesù ha frequentato quegli ambienti.

E bisogna risalire anche al movimento zelotico-galilaico della famiglia di Ezechia di Gamala (e del figlio Giuda il Galileo), che dal 40 a.C. sino al 70 d.C. combatté contro i sovrani erodiani e i Romani. In effetti vari rappresentanti di questo movimento erano presenti nel movimento nazareno e giocarono un ruolo fondamentale fino alla defezione che si produsse sul monte Tabor, quando 5.000 seguaci chiesero a Gesù di diventare re e di marciare su Gerusalemme per occuparla con un colpo di stato e cacciare la guarnigione romana stanziata nella fortezza Antonia (cosa che gli zeloti fecero nella prima guerra giudaica del 66-70).

Secondo Esposito appare evidente nel Protovangelo di Giacomo che Giovanni Battista (proveniente dall’essenismo) era destinato a diventare la figura sacerdotale collaterale a un nuovo messia politico, Gesù. Quindi i “messia” da attendere, da parte degli ebrei, erano in sostanza due.

Tuttavia secondo me la rottura con l’essenismo e col Battista, in occasione della tentata epurazione (occupazione) del Tempio, indica la rinuncia, da parte di Gesù, ad associare gli elementi religiosi a quelli politici nella strategia eversiva contro i Romani e i collaborazionisti interni (l’aristocrazia laica e religiosa).

Esposito dà anche grande importanza al Vangelo di Nicodemo, ove Gesù viene additato come frutto di una relazione adulterina da parte di Maria col soldato romano Panthera,

Cosa c’è di vero in questa storia? Per me quasi niente. Ne parla Celso, noto anticristiano, nel suo Discorso Veritiero. La sua versione è la seguente: Gesù sarebbe nato in un villaggio della Giudea, da una donna del luogo, una povera filatrice a giornata, la quale fu scacciata dal marito, un carpentiere, per comprovato adulterio con un soldato romano di nome Panthera. Dopo il ripudio, fu ridotta a vagabondare per il Paese e, in gran segreto, lo partorì. Quanto a Gesù, a causa della sua povertà fu costretto a lavorare come salariato in Egitto, dove diventò esperto di alcuni poteri taumaturgici. Poi tornò in Palestina, dove, esercitando questi poteri, pretendeva d’essere considerato una divinità (il figlio di Dio).

Altre tracce di questa versione assurda delle cose si trovano nel Talmud, anzi è molto probabile che sia questa la fonte di Celso.

Le incongruenze sono parecchie: Maria non era di famiglia povera, anche perché strettamente imparentata con quella di Elisabetta, ch’era molto facoltosa. Il racconto natalizio della fuga in Egitto è assolutamente mitologico. Non risulta da nessuna parte che Gesù sia mai stato in Egitto (qualunque riferimento alla comunità dei Terapeuti Egizi non ha senso, poiché non è da loro che ha ricavato la sua ideologia politica).

Bisogna inoltre dare per scontato ch’egli non fece alcuna guarigione miracolosa, al di fuori della portata dell’uomo comune. Al massimo può aver fatto qualche guarigione psico-somatica, la quale però non poteva essere da lui associata alla strategia eversiva antiromana, e tanto meno (come vogliono i cristiani) a una presunta dichiarazione di figliolanza divina. Gesù era sostanzialmente un ateo, perché da come si comporta non si evince mai che fosse seguace di qualche comunità religiosa.

Gli esegeti anticristiani si sono divertiti a ironizzare sul parto verginale di Maria, ma della nascita di Gesù noi in realtà non sappiamo nulla.

Hanno detto che a Bingen, in Germania, è stata rinvenuta una lapide romana intitolata a Tiberio Giulio Abdes Panthera, nato a Sidone (attuale Libano) e morto a 62 anni nel 40 d.C., dopo 40 anni di servizio come vessillifero tra gli arcieri romani. Egli sarebbe stato in Palestina per almeno 15-16 anni, a partire dal 10 a.C.

Hanno aggiunto che nel 4 d.C. la città di Zippori, a sei chilometri da Nazareth, venne distrutta dalle truppe romane guidate da Publio Quintilio Varo come punizione per una ribellione (fu lo stesso Varo che morirà, pochi anni dopo, nella battaglia di Teutoburgo, in Germania). È dunque possibile immaginare che uno dei suoi uomini, durante la conquista di Zippori, abbia messo incinta una donna della zona, cioè Maria, e sia ripartito col suo comandante verso il centro Europa, dove sarebbe morto.

Il problema fondamentale di questa ricostruzione è che di Nazareth non si sa nulla fino al IV sec. e che non è affatto detto che Maria fosse della Galilea. Anzi, si può presumere (essendo imparentata con Elisabetta) che fosse una giudea. Al massimo si può pensare che si sia recata in Galilea dopo aver partorito Gesù, non prima, per sottrarsi alle critiche di adulterio. Può essersi trasferita con o senza Giuseppe, ma se l’ha fatto senza, da chi avrebbe avuto gli altri quattro maschi e due femmine? Oppure non sono suoi figli ma di una sua sorella?

I suddetti esegeti hanno anche supposto che Panthera, non potendo sposare Maria finché fosse rimasto legionario, si sarebbe limitato a garantire protezione e denaro alla donna per tutto il tempo della sua permanenza in Galilea. Solo dopo la sua partenza (non è chiaro se il figlio fosse già nato o no), il vecchio Giuseppe si sarebbe offerto, per evitare eventuali disonori, di sposare la donna.

Dicono anche che quando Gesù si recò in Fenicia (Mc 7,24), nella regione di Tiro e Sidone, per guarire una ragazzina “indemoniata”, non entrò in una casa qualunque, ma nella casa dei suoi parenti per parte di padre (Panthera, appunto), ch’erano fenici, un legame che Gesù, ormai noto predicatore della zona, non era interessato a far conoscere. Questo implicherebbe che Gesù fosse a conoscenza dell’identità del padre e che forse riceveva missive e denaro da quel personaggio lontano.

Secondo noi è tutto inventato, semplicemente perché Gesù con alcuni discepoli si recò in Fenicia per sottrarsi alla cattura da parte di Erode Antipa (fu avvisato di questa intenzione del tetrarca dal partito farisaico presente in Galilea), e non fece ovviamente alcuna guarigione miracolosa. Al massimo può aver sondato il terreno per cercare di avere appoggi stranieri alla sua strategia eversiva antiromana.

Ma andiamo avanti, chiedendoci il motivo per cui Esposito dia ragione a stupidaggini del genere. A suo parere Gesù si lasciò battezzare da Giovanni proprio perché voleva essere rivalutato socialmente, essendo ritenuto da tutti un figlio illegittimo. Questa tesi è piuttosto singolare, poiché l’accusa di essere un “bastardo” non si trova neppure accennata nei vangeli. Questo perché nessuno seppe mai nulla della partenogenesi di sua madre (Matteo e Luca ne parlano mezzo secolo dopo). Se fosse stato di dominio pubblico che Gesù era un figlio illegittimo, non avrebbe avuto alcuna possibilità di proporsi come messia d’Israele, a prescindere dalla motivazione della sua nascita vergognosa.

L’autore sostiene che Gesù tornò in Galilea dopo l’arresto del Battista, perché la Galilea era la sua vera patria. Noi invece siamo propensi a credere che Gesù si sia recato in Galilea dopo la fallita occupazione del Tempio, per non essere arrestato dalle guardie del Sinedrio: prima di allora frequentava gli ambienti essenici o del cugino Giovanni (o comunque era sempre vissuto in Giudea). La patria in cui si sente disprezzato non è la Galilea ma la Giudea. Se avesse manifestato questa convinzione in Galilea, mentre era presente lì come profugo, il popolo stesso l’avrebbe subissato di critiche, per non dire di peggio.

Il Battista fu incarcerato da Erode Antipa dopo la partenza di Gesù, non prima. Si era politicamente indebolito, in quanto buona parte della sua comunità aveva scelto Gesù come leader politico, e il sovrano, che governava anche la Perea, ne approfittò per eliminarlo, sapendo bene che in ciò non sarebbe stato ostacolato né dai farisei né dai sadducei.

Esposito sostiene che Gesù passò molto tempo col Battista. Praticamente la loro attività pubblica avvenne all’incirca nello stesso periodo: dal 27-29 al 34-36. Ed era un’attività che consisteva nel battezzare lungo le rive del Giordano.

Io invece penso due cose:

  1. il versetto Gv 3,22 lo ritengo falso: “Dopo queste cose, Gesù andò coi suoi discepoli nella regione della Giudea; e là si trattenne con loro, e battezzava”. L’autore ha voluto far vedere che Gesù era di origine galilaica e che lo erano anche i suoi discepoli. Il versetto è in contraddizione con un altro versetto, il 4,2: non era “Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli”, quelli appunto provenienti dal Battista. Inoltre i vv. 4,1.3 affermano: “Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni, lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea”. Tuttavia anche questi versetti sono falsi, poiché Gesù non attribuiva alcun valore politico al rito del battesimo e si recò in Galilea non perché non volesse avere rapporti coi farisei (anche se questi non avevano fatto nulla per impedire l’esecuzione del Battista), ma perché non voleva fare la stessa fine di Giovanni. Non sono i farisei che lo vogliono morto, ma i sadducei. Al massimo i farisei si sarebbero limitati a chiedergli se aveva intenzione di sostituirsi a Giovanni. E lui può essersi sottratto a questa domanda proprio perché, in occasione dell’occupazione/epurazione del Tempio, i farisei non avevano fatto nulla per sostenerlo, pur essendo convinti della giustezza dell’idea.

  2. Gesù può sì aver frequentato la comunità essenica o il Battista, ma solo per verificare se vi era la disponibilità a epurare/occupare il Tempio; quando poi constatò che tale disponibilità non c’era, avvenne la rottura tra lui e il Battista, anche se di quella esperienza conservò l’idea sociale del comunismo primitivo (ovvero dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi) e il voto di nazireato, con cui evitò di sposarsi finché il voto non fosse stato adempiuto. Con quella rottura una parte dei seguaci del Battista cominciò a seguire Gesù. Nel IV vangelo viene detto che tra i discepoli del Battista due divennero apostoli di Gesù, cioè membri di una ristretta cerchia: Giovanni Zebedeo e Andrea fratello di Pietro; e questi due discepoli non sapevano di Gesù neppure dove abitasse. Recitano infatti i vv. 1,38-39: “Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: ‘Che cercate’. Gli risposero: ‘Rabbì, dove abiti?’. Disse loro: ‘Venite e vedrete’. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio”. In poche ore videro dove abitava e non era certo in Galilea. Fu solo dopo essere giunto in Galilea che Gesù incontrò Pietro e Filippo. In Giudea tutti lo conoscevano come “figlio di Giuseppe”, per cui non aveva motivo di recarsi in Galilea per nascondere il fatto ch’era un figlio illegittimo. Anche il versetto 1,46 che si riferisce a Natanaele (di cui non si sa nulla) è del tutto inventato: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”. È stato messo per far credere che Gesù avesse un’origine galilaica.

Tutto ciò per dire che la periodizzazione proposta da Esposito è sbagliata. L’arresto di Giovanni non può essere collocato nel 35, anno in cui, secondo lui, avvenne anche la sua morte. Anche perché in questa maniera l’autore è costretto a far morire Gesù l’anno dopo, cioè in quel 36 che viene a coincidere con la rimozione di Pilato e di Caifa (cosa che però è avvenuta in maniera del tutto indipendente dalla morte di Gesù).

Se Gesù andò in Galilea nel 35, iniziando, come dice Esposito, “un’attività pubblica molto più moderata” (p. 43), non si capisce come abbia potuto organizzare in così poco tempo un movimento eversivo antiromano che lo portò a morire l’anno dopo. Esposito è convinto, per forza di cose, che Gesù nel 36 avesse più di 40 anni, e pensa di trovare per questa sua tesi una conferma in ciò che viene detto dagli avversari di Gesù, che in Gv 8,57 lo rimproverano con le parole: “Non hai ancora 50 anni e pensi d’aver visto Abramo?”. Cioè egli prende alla lettera una frase che sul piano storico-cronologico non ha alcun senso.

Inoltre egli è convinto che, siccome la guerra tra Erode Antipa e Areta, re di Petra, avvenne tra il 35 e il 36 d.C., l’arresto di Giovanni non può essere avvenuto dopo il 35, poiché era opinione comune che Erode fosse stato sconfitto da Areta per non aver dato retta al Battista di rinunciare alla sua seconda moglie (la cognata Erodiade), dopo aver ripudiato illegittimamente la prima, figlia appunto dello stesso Areta.

Tale ricostruzione fantasiosa sa di misticismo. In realtà il Battista può essere stato eliminato anche un decennio prima della sconfitta di Erode. Non si può far coincidere una sconfitta militare con l’esecuzione del Battista, di cui ad Areta non importava nulla. Il Battista può anche essere stato giustiziato a prescindere dal secondo matrimonio dell’Antipa. Possono essere stati gli stessi sadducei a chiedere al sovrano di eliminarlo, come poi faranno con Pilato per eliminare Gesù.

In ogni caso il problema più grave nell’analisi di Esposito è che rifiuta di attribuire un vero ruolo politico al messia Gesù. Lo ritiene infatti non molto diverso dal Battista, cioè un “rabbi messianista itinerante” (p. 44), vicino alle posizioni della scuola di Hillel, con la differenza che Gesù, essendo un figlio illegittimo, “fece della rivalsa sociale degli ultimi una bandiera per il suo progetto politico” (p. 45). Di qui la necessità di usare un linguaggio rurale, semplice, parabolico... (come se il Battista non avesse fatto la stessa cosa!).

Questa tesi, che presume d’essere “politica”, in realtà è moralistica, in quanto associa l’attività pubblica del Cristo al bisogno di riscattarsi socialmente per una questione essenzialmente privata. Tutta la politicità del Cristo è racchiusa in un progetto di riforma “spirituale” dell’ebraismo. Gesù – scrive Esposito – non voleva “mettere in discussione ‘lo Stato’ in quanto tale, ma ciò che veniva insegnato dalla tradizione orale dei farisei, discostandosi dal legalismo radicale dei sadducei e forse anche dagli zeloti più intransigenti” (p. 46). E poi ancora: “la predicazione di Gesù non prevedeva una chiara lotta armata” (p. 48), altrimenti non avrebbe accettato di frequentare “quella stessa classe alta della società che si era promesso di combattere, fino ad averne alcuni come discepoli in segreto” (p. 48). Si riferisce ovviamente a Zaccheo, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea, ecc.

Che pensiero superficiale! (preso peraltro dai coniugi esegeti Destro-Pesce, i quali han sempre negato al Cristo una vera strategia politica antiromana). Ci si scandalizza nel vedere Gesù così vicino ai nemici ebraici che diceva di combattere, e non ci si rende conto che per un politico eversivo come lui era del tutto normale farlo, proprio perché non era un moralista e aveva bisogno di tutto il consenso possibile per liberare la Palestina dai Romani. Questi esegeti moralisti non riescono ad accettare l’idea che il partito farisaico poteva costituire per il movimento nazareno un prezioso alleato contro la casta laica e religiosa alleata con l’invasore romano.

Togliendo una politicità significativa al Cristo si è poi costretti a rivalutarlo come guaritore “miracoloso” (formatosi a Qumran o in Egitto), naturalmente a favore dei ceti subalterni (che poi, a ben guardare, nei vangeli opera guarigioni anche ai ceti più abbienti: Cuza, Giairo ecc.). Ci si comporta così per spiegare in maniera diversa il suo incredibile successo sulle folle, come se queste fossero un branco di analfabeti incapaci d’infiammarsi per dei discorsi anti-sistema, e disposte a seguirlo solo dopo aver ricevuto un favore personale e mirabolante.

Anche supponendo che il Cristo abbia operato delle guarigioni al di fuori della portata umana, resta il fatto che Esposito fa rientrare tale attività in una visione moralistica o prepolitica delle cose. Come se Gesù, per compiere un’insurrezione antiromana non avesse bisogno di limitarsi alla sofferenza sociale della sua popolazione (dovuta a ingiustizie, discriminazioni, abusi...), ma avesse bisogno di far leva sulla sofferenza medico-sanitaria. Come se un leader politico abbia bisogno di dimostrare, attraverso straordinarie guarigioni, che il fine di queste ultime è quello di soddisfare le esigenze dei più poveri, degli emarginati ecc. La sua credibilità politica sarebbe dipesa dal fatto che aveva umanamente soddisfatto le esigenze di guarigione delle persone ritenute inguaribili dai poteri dominanti. Tutto ciò è assurdo. Per dimostrare, p.es., che il modo di vivere il sabato era diventato insostenibile, non aveva bisogno di guarire in quel giorno dei malati cronici, assolutamente incurabili.

Non è strano che un esegeta, che dichiara di non voler avvalorare le tesi interpretative della Chiesa cattolica, induca il Cristo a usare i suoi poteri pranoterapici in maniera strumentale, per acquisire un consenso che con altri mezzi non sarebbe riuscito a ottenere? Non faceva prima a dire che le guarigioni straordinarie e i miracoli in generale sono stati tutti inventati e che Gesù, anche se avesse potuto, non sarebbe mai ricorso a mezzi così meschini per ottenere un consenso politico? Possibile che un esegeta non si renda conto che per realizzare un’insurrezione antiromana non era affatto decisivo che “i pubblicani e le prostitute” credessero in Gesù? Certo, destò sorpresa la conversione di Levi-Matteo, ma se si ritiene che questo riscatto sociale dall’ignominia pubblica fosse il massimo che Gesù potesse pretendere, è evidente che non si esce dall’ambito del più puro moralismo.

Essendo un seguace di Mauro Pesce, Esposito fa sua la tesi mistica di quest’ultimo, secondo cui Gesù operava guarigioni miracolose chiedendo ai risanati di aver fiducia in lui, perché lui prometteva “una riscossa sociale in questa stessa vita, al massimo uno stravolgimento di tipo cosmico...”, “contro le alte caste sociali ebraiche”; e nel promettere questo, non voleva allontanare dal suo movimento, a differenza di come facevano gli zeloti, quanti appartenevano alle categorie dei “sacerdoti, pubblicani e farisei” (p. 54). Che cosa l’autore intenda con “riscossa sociale” o con “stravolgimento di tipo cosmico”, non lo dice (e non lo dice, secondo lui, neppure Gesù, poiché non gliene diedero il tempo). D’altronde quando è il gioco il misticismo non è facile essere concreti...

Tuttavia, siccome Gesù decise di entrare a Gerusalemme con tanto di seguito popolare (“decine di migliaia di persone”), Esposito non può chiedersi il motivo di questa iniziativa. E la risposta per lui è chiara: voleva fare una “sollevazione popolare” (p. 55). Ma contro chi? “Il revisionismo storico avvenuto per mano dei redattori evangelici si traduce nell’episodio della ‘purificazione’ del Tempio, o per dirla meglio con la tentata presa del Tempio di Gerusalemme da parte di Gesù e dei suoi seguaci” (p. 57).

Esposito si chiede come sia stata possibile un’occupazione del genere senza che nessuno intervenisse per impedirla. E ne deduce che non sia stata una vera e propria occupazione, ma una semplice “epurazione” degli elementi che in quel momento apparivano i più corrotti: mercanti e cambiavalute. Insomma una sorta di segno dimostrativo, simbolico, in attesa che l’intera popolazione insorgesse.

Quindi l’autore dà per buona la versione sinottica, anche se la ritiene edulcorata dagli evangelisti (come sostiene anche il teologo cattolico Jean Daniélou). La “sobillazione popolare” fu solo un tentativo. E l’arresto fu compiuto dai Romani, perché sapevano che lui chiedeva di non pagare il tributo a Cesare. Le guardie del Tempio non potevano arrestarlo, poiché erano i Romani a comandare.

Ma come sono riusciti ad arrestarlo, visto che la guarnigione stanziata nella fortezza Antonia era composta di soli 600 militari, mentre lui aveva “decine di migliaia di seguaci”? Secondo Esposito sono stati una parte di questi ultimi a tradirlo, non solo Giuda. Lo dice anche Celso, nel suo Discorso vero, scritto quasi un secolo e mezzo dopo la morte di Gesù (come se il filosofo greco Celso potesse essere una fonte più attendibile di tutte le altre ebraiche e cristiane!).

Ma perché l’avevano tradito? Perché il tentativo insurrezionale, relativo all’occupazione del Tempio, fu un totale fallimento, per cui molti temevano la ritorsione romana.

Ora, è possibile che un leader con “decine di migliaia di seguaci” non sia riuscito a occupare il Tempio? Che razza di strategia politica aveva? Gli zeloti lo faranno in un attimo 30 anni dopo e con molti meno seguaci.

La pochezza di questa ricostruzione fantastica è ben visibile laddove, nella conclusione, Esposito afferma che “Giovanni il Battista e Gesù iniziarono, in perfetta comunione, un progetto politico destinato a fallire” (p. 69). Ci sono tre errori madornali in una sola frase: 1) Giovanni non ebbe alcun progetto “politico”, ma solo “prepolitico”; 2) proprio per questo motivo Gesù si staccò da lui; 3) il progetto politico di Gesù non era “destinato” a fallire. È vergognoso che si sostenga una tesi così reazionaria.

Esposito è convinto che il progetto eversivo di Gesù era destinato allo smacco proprio perché il Battista era stato arrestato. Avendo perso un appoggio così significativo, Gesù fu costretto ad agire con molta più cautela, usando i suoi poteri taumaturgici a favore degli ultimi (per ottenerne il consenso) e cercando intese con alcune persone influenti. L’autore fa passare Gesù per un leader meno coerente di Giovanni, più “scaltro” (anche per l’uso massiccio delle parabole), ma in fondo anche più illuso, poiché si fidava di gente che, a conti fatti, aveva molta paura dei Romani.

È tutta una ricostruzione storica priva di senso. E la conferma di ciò è ben visibile nel capitolo successivo (“Giudaismo ed ellenismo”), in cui si parla di come Gesù “non morì” (!).

Secondo Esposito, siccome non si può credere nella “resurrezione” di una persona morta, bisogna pensare che Gesù sia stato rianimato nel sepolcro. Le 100 libbre di una mistura di mirra e aloe (di cui parla Gv 19,39) servirono allo scopo. Gesù quindi fu “ridestato” da “alcuni membri delle più importanti caste sacerdotali del tempo e che, in segreto, avevano abbracciato la sua causa” (p. 78).

Sulla croce, in virtù della mistura di vino e mandragora86 che gli diedero da bere, Gesù subì solo una “morte apparente” (p. 79). “Il colpo di lancia non gli avrebbe inferto alcun male se la sostanza narcotica avesse fatto il suo effetto” (ib.). Quindi Gesù fu salvato in extremis. Solo che il suo corpo – qui Esposito deve ammetterlo – non si sa dove sia finito. Sappiamo solo che là dove si parla di “assunzione in cielo” tramite una “nube”, si ripete un cliché letterario già usato nei racconti mitologici che parlano della morte di Mosè, Romolo ed Ercole. Un cliché che peraltro contrasta con la fede in una parusia immediata e trionfale che i seguaci di Gesù avevano manifestato subito dopo la sua morte.

Insomma con questo autore siamo ai livelli del gossip più ridicolo.

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7.9) Emilio Salsi su Lazzaro

Mi sono sempre sforzato d’interpretare i vangeli come se i racconti fossero almeno parzialmente veri. Cioè ho cercato di individuare le invenzioni, falsificazioni e mistificazioni in qualcosa che in un certo qual modo poteva anche essere accaduto. Giusto per venire incontro alle istanze dei cristiani, per invitarli a credere che, pur essendoci qualcosa di (molto) tendenzioso, il substrato era (abbastanza) reale. Ma forse ho fatto male. Mi sono arrampicato inutilmente sugli specchi. Forse avrei dovuto fare come taluni esegeti miticisti che negano tutto di tutto.

Prendiamo ad es. il racconto della pseudo-resurrezione di Lazzaro. Ecco cosa sostiene Emilio Salsi, in Giovanni il Nazireo detto “Gesù Cristo” e i suoi fratelli (Tipografia G.A. 2008). Lazzaro era uno zelota, figlio di Giairo, discendente di Giuda di Gamala, parente di Giuseppe (Menahem). Per me invece quello del racconto giovanneo era un giudeo e del partito farisaico, anche se non escludo l’esistenza dell’altro Lazzaro (o Eleazaro ben Simone, che apparteneva a una nobile famiglia sacerdotale giudea, tant’è che mandò Giuseppe Flavio in Galilea per far capire da chi gli zeloti dovevano prendere gli ordini, visto che proprio lui, a capo di molti uomini era riuscito ad annientare la legione XII Fulminata).

Dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. con circa un migliaio di esseni, sicarii e zeloti, asserragliati nella fortezza di Masada nel 73 d.C., resistette all’assedio dei Romani per sei mesi. Resosi conto ch’era inutile ogni resistenza contro lo strapotere delle legioni romane, convinse tutti i suoi seguaci a suicidarsi, facendo capire che l’anima è superiore al corpo e che esiste un aldilà in cui essa sarà libera.

In effetti gli esseni sostenevano l’immortalità dell’anima e professavano un’escatologia di retribuzione per buoni e malvagi. Ammettevano pure la resurrezione, il giudizio finale e la fine del mondo. Ma credevano in tutto ciò perché erano influenzati da tradizioni iraniche o parsiche, che prevedevano anche il dualismo bene-male, l’atteggiamento di venerazione di fronte al Sole, la dottrina sugli angeli, la presenza di bagni rituali... Il celibato, il cenobitismo, la riprovazione dei sacrifici cruenti rinvierebbero a tradizioni buddistiche. Quanto al silenzio comunitario, agli anni di noviziato, alle vesti bianche, alle prescrizioni della dieta, all’esoterismo della dottrina garantita dal giuramento, all’escatologia, il collegamento con le scuole filosofiche greche viene quasi spontaneo, specie se di tradizione pitagorica.

Ma questo cosa c’entra col racconto della pseudo-resurrezione di Lazzaro? Al massimo con la sorella di lui, Marta, si può pensare che la famiglia credesse nella teoria farisaica della resurrezione, che però non ha alcun peso nella decisione che prese Gesù di entrare a Gerusalemme una settimana dopo per compiere l’insurrezione antiromana.

E poi ammettiamolo: la teoria della resurrezione non è mai stata estranea agli ebrei, almeno non da quando subirono l’esilio in Babilionia. Già Osea 6,1-3 ne parlava e anche l’Apocalisse di Isaia 26,19 e il libro di Giobbe.87 Erano solo i sadducei a non credere in un aldilà dopo la morte. Per i Farisei lo “Sheol” non è più un luogo vuoto, angosciante, ma di attesa della risurrezione. E la resurrezione per loro era da intendersi in senso fisico: i corpi sepolti nella terra sarebbero ritornati in vita ad opera di Dio. Inizialmente i farisei credevano che la resurrezione avrebbe riguardato solo il popolo ebraico, poi arrivarono alla conclusione che sarebbero risorti anche i gentili. Questo poi senza considerare che le resurrezioni fatte compiere da Gesù sono tutte sulla falsariga di quelle compiute da Elia ed Eliseo.

Piuttosto dovremmo chiederci chi davvero sia questo Lazzaro: infatti non doveva essere una figura secondaria, altrimenti non ci sarebbe stata una damnatio memoriae così completa. Era forse quell’Eleazar, figlio di Dinai (o Dineo), di cui Giuseppe Flavio parla negativamente sia nella Guerra Giudaica sia nelle Antichità Giudaiche? Era stato attivo per un ventennio, protetto dalla montagne della Giudea e sostenuto dai contadini, prima di essere catturato dal procuratore Felice (52-60) nel 54. Se così fosse, bisognerebbe ammettere che nel racconto giovanneo egli non morì, ovviamente non perché Gesù lo risorse dalla tomba, ma perché lo aiutò militarmente. E doveva essere uno zelota giudaico, a testimonianza che esistevano due gruppi di zeloti: uno della Galilea, l’altro della Giudea.

In effetti negli anni 30 e 40 l’attività banditesca cominciò a intensificarsi. Può apparire normale che Lazzaro sia stato uno dei tanti briganti o patrioti (apprezzato anche dai farisei, poiché questi sono presenti nella pericope) che combattevano i Romani e i loro collaborazionisti. Oppure i redattori hanno applicato a lui il nome di un bandito ben noto, per impedire di svelare la sua vera identità, che avrebbe messo in imbarazzo l’immagine stereotipata del Cristo pacifista. Così come han fatto con Barabba.

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7.10) Le tesi di Bermejo-Rubio

Interessante che Fernando Bermejo-Rubio, in L’invenzione di Gesù di Nazareth (Bollati-Boringhieri, 2021), dica che Gesù fu crocefisso dai Romani in quanto rivoluzionario politico, nell’ambito di un’esecuzione collettiva (erano in tre).

Degli altri due, in effetti, è assurdo parlare di “ladroni” o “malfattori”, in quanto la crocefissione era pena riservata ai ribelli politici e non ai criminali comuni. I λῃστάς di Mc 15,27 (ma anche i κακούργους di Lc 23,33) vengono tradotti nella Vulgata come latrones, cioè “ladroni”. Il che fa pensare a tutt’altro che a dei soggetti politicamente eversivi. Ma anche se si fosse parlato di “banditi”, non si sarebbe capito se lo erano in senso politico o economico. Erano forse dei briganti che assalivano i passanti per derubarli? In greco la parola lestes indicava dei banditi in senso politico, cioè dei patrioti (antiromani), quindi molto probabilmente degli zeloti. Se fossero stati dei banditi in senso economico, cioè dei ladroni o dei razziatori di risorse altrui (senza essere degli assassini), molto probabilmente non li avrebbero crocifissi, ma soltanto incarcerati ed eventualmente frustati. La croce era pena riservata agli schiavi ribelli, agli insubordinati nei confronti delle autorità costituite. Inoltre avrebbero usato la parola kleptes.

Insomma la dimensione politica del Cristo venne rimossa, in quanto la condanna capitale come responsabile di insurrezione popolare (per quanto più tentata che realizzata) creava imbarazzo ai suoi seguaci e agli autori filoromani dei primi vangeli.

Eppure – osserva giustamente l’autore – la sua posizione politica sarebbe facilmente comprensibile alla luce delle diffuse aspettative messianiche nei confronti di un re unto che avrebbe ricostituito il regno di Israele, liberando il suo popolo dalla dominazione straniera. Sarebbe stata proprio la pretesa regio-messianica la causa della condanna di Gesù, come testimonia anche il titulus crucis, affidabile storicamente.

Fin qui tutto normale, anche se – bisogna ammetterlo – il titolo della croce era sostanzialmente inesatto, in quanto Gesù non voleva porsi come “re d’Israele” né costruire un “regno” in stile davidico.

In effetti ciò che non convince nelle tesi dell’autore è l’idea che il concetto di “regno di Dio” fosse centrale, storicamente, nel messaggio di Gesù; un’idea da non intendersi, ovviamente, come una realtà astratta, ma come un qualcosa di tangibile, concreto: “regno” indica sia l’esercizio del potere, sia una realtà territoriale, immanente.

Per me invece la denominazione “regno di Dio” è puramente redazionale, non storica. In caso contrario saremmo costretti a parlare di “teologia-politica”, e quindi di un “regno monarchico”, con tanto di “sovrano assoluto”. Il che lo escludo nella predicazione del Cristo, proprio perché lo vedo in antitesi alla posizione del Battista.

Cioè qui, con questo autore, arrivano a scontrarsi due differenti concezioni della politicità del Cristo: da un lato quella teopolitica (che per Bermejo-Rubio è di tipo escatologico o apocalittico); dall’altro quella politica tout-court, finalizzata a costruire, sic et simpliciter, una società democratica, libera e giusta, superando gli antagonismi tribali e religiosi.

Gesù si considerava un “messia in stile davidico”? Io non credo. Se l’avesse fatto, gli sarebbe stato impossibile rifiutare la carica di “monarca” offerta dagli zeloti.88 Al titolo di “figlio di Davide” preferiva quello di “figlio dell’uomo”, usato negli ambienti essenici. Anzi, forse neppure l’uso di questo titolo generico andrebbe accettato così tranquillamente.

Chi l’ha detto che la restaurazione politica della sovranità d’Israele (negata dai Romani) doveva avvenire nei piani di Gesù secondo il cliché della monarchia davidica? Il fatto stesso che abbia cercato di occupare il Tempio, cacciandone i corrotti sadducei; che non lo si veda mai partecipare, come credente, a riti e funzioni e festività religiose; che non abbia rapporti con le gerarchie ecclesiastiche; che non cerchi riconoscimenti da parte del Sinedrio; che venga espulso dalle sinagoghe quando commenta i profeti; che, come apre bocca sulle questioni religiose, rischi sempre il linciaggio; che alla samaritana dica quanto sia indifferente, ai fini della liberazione nazionale, pregare Dio sul loro monte o al Tempio di Gerusalemme, dovrebbe portarci a credere che Gesù non volesse assolutamente riprodurre qualcosa del passato, ma creare qualcosa di inedito per Israele.89

Se vogliamo accettare che Gesù non era affatto un “pacifista ante litteram”, ma al contrario ammetteva un determinato uso della violenza (naturalmente nella forma della “legittima difesa”), bisogna comunque specificare il fine di tale violenza, poiché non può bastare dire che non era un “buonista” per capire che voleva una società non religiosa ma laica. Se guardiamo i resoconti che fece Giuseppe Flavio sulla Guerra giudaica, dobbiamo convenire che a quel tempo nessun partito era “pacifista”, se non quello collaborazionista dei sadducei. Zeloti, sicarii, farisei, idumei, samaritani, esseni... chi più chi meno erano tutti con le armi in mano contro i Romani e contro quanti, tra gli ebrei facoltosi, erano collusi con loro.

Peraltro, se si accetta la tesi di un Cristo teopolitico, si finisce col vedere tra lui e il Battista un rapporto di profonda continuità, come fa l’autore, quando invece fu di rottura, poiché Giovanni non volle partecipare all’occupazione del Tempio. Odiava i sadducei e criticava i farisei, ma credeva profondamente nella religione ebraica, per cui pensava che l’occupazione del Tempio non sarebbe stata capita dalle “anime semplici”, le quali non avrebbero appoggiato i rivoltosi contro l’inevitabile ritorsione romana, che, essendo alleata con l’aristocrazia laica e religiosa, non avrebbe certo potuto permettere una cosa del genere.

Inoltre se si accetta la tesi del Cristo teopolitico, si finisce col dar credito a cose inspiegabili in una persona democratica: p.es. che avesse una concezione negativa dei pagani; che rispettasse in toto la Torah, il sabato e il sistema sacrificale del Tempio. Non c’era bisogno di diventare “cristiani” per capire che queste cose andavano in qualche modo superate.

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7.11) L'assurda tesi di Schweitzer

Questo teologo luterano, Albert Schweitzer (1875-1965), non l’ho mai capito molto: è vicino alle tesi di Johannes Weiss, nel senso che entrambi sostengono che l’insegnamento di Gesù può essere inteso solo come apocalittico, anzi escatologico.90

Da un lato infatti sostiene che “Il Gesù di Nazareth che comparve come il messia, che predicò l’etica del regno di Dio, che fondò il regno dei Cieli e morì per dare al suo lavoro la sua consacrazione definitiva, non ebbe mai esistenza” (Storia della ricerca sulla vita di Gesù, ed. Paideia, Brescia 1986). E fin qui, al limite, la tesi è condivisibile, anche se non si può negare l’esistenza del Cristo politico. Dall’altro però afferma: “Gesù significa qualcosa per il nostro mondo, perché emana una potente forza spirituale che scorre anche attraverso il nostro tempo. Questo fatto non può essere né scosso né confermato da alcuna scoperta storica. È il solido fondamento del cristianesimo” (ib.).

In pratica è come se avesse detto: dalle fonti neotestamentarie è impossibile ricavare una biografia realistica della vita di Gesù, poiché nessun autore è davvero interessato alla sua vicenda storica e umana, ma siccome quel che han fatto i suoi discepoli è stato grandioso, è preferibile far finta di niente e continuare a credere in quelle fonti.

Poi precisa il suo pensiero dicendo che proprio il disinteresse mostrato dai vangeli sinottici nel curare la rappresentazione della vita terrestre di Gesù garantisce credibilità storica ai racconti da essi tramandati, e mostra come invece le moderne biografie di Gesù riflettano il pregiudizio degli storici.

Questa è una tesi stravagante oltre che assurda. A parte che ogni esegeta riflette se stesso quando scrive, così come fa qualunque altro scrittore su qualunque altro argomento. Ci mancherebbe che qualcuno dicesse che tutti gli esegeti, meno se stesso, proiettano sulla ricostruzione della vita di Gesù i loro presupposti ideologici di partenza, per cui tutte le loro ricostruzioni sono false.

Ma è l’altra affermazione che desta più sconcerto. Secondo lui i vangeli trovano una certa coerenza soltanto nell’ambito dell’autocoscienza messianica del Cristo. I redattori non erano in grado di conoscere tutta la vita di Gesù, ma solo un’immagine del suo ministero pubblico. Tuttavia questa messianicità fu capita solo dopo la sua morte, ed è stato attorno ad essa che han cucito delle pericopi in origine staccate tra loro.

Cioè in pratica i discepoli avrebbero seguito Gesù senza sapere che lui si concepiva come messia (vedi la teoria marciana del “segreto messianico”). Gesù avrebbe taciuto la sua natura messianica in attesa che si compisse l’avvento escatologico del regno (che avrebbe dovuto essere “opera di Dio”). La sua improvvisa morte starebbe a indicare che gli uomini non sono ancora pronti a entrare in questo regno. Naturalmente nessuno può sapere se lui si sia lasciato ammazzare proprio per dimostrare che nel tempo in cui lui è vissuto il regno non poteva realizzarsi. D’altra parte com’è possibile credere, se Gesù ha davvero una natura divina, che la morte sia avvenuta in maniera accidentale? Di sicuro la fede delle prime comunità sarebbe soltanto una reinterpretazione della sua messianicità passata attraverso la passione.

Quindi, in pratica, Schweitzer non avrebbe dubbi nel considerare realistici i racconti della passione. I redattori non avrebbero avuto motivo di mentire in questi racconti o d’inventarsi cose inesistenti. I discepoli non seguirono Gesù sino in fondo nella sua idea di messianicità semplicemente perché erano rassegnati a dover subire il male e quindi ad attendere passivamente l’avvento del regno. E lui non poteva imporlo con la forza, anche perché la questione del regno è di “Dio” non del “figlio di Dio”.

Sono riflessioni, queste, troppo mistiche, troppo viziate da presupposti teologici. Bisogna essere più concreti e realistici, senza compiere voli pindarici. Il movimento nazareno, guidato da Gesù, voleva realizzare un’insurrezione nazionale contro i Romani e i gestori corrotti del Tempio. Il tradimento fu inaspettato. I suoi seguaci non seppero impedire l’esecuzione capitale. Che questa conclusione porti a credere che nel tempo presente non sia possibile tornare al comunismo primitivo è una congettura del tutto arbitraria. Non si può in alcuna maniera andare oltre un’interpretazione razionale dei fatti.

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D) Le guerre giudaiche

8.1) La I guerra giudaica

La guerra giudaica del 66-70 poteva essere l’inizio di una generale rivolta contro l’impero romano da parte delle sue province più sfruttate. Invece non fu così. L’impero continuò a esistere fino al pagano Diocleziano nella forma più intollerante possibile nei confronti del cristianesimo, poi, fino alla caduta di Costantinopoli, l’impero sopravvisse nella forma culturale e ideologica dell’ebraismo e del paganesimo cristianizzati. In fondo il cristianesimo non è che un mix di ebraismo e paganesimo, entrambi stravolti nella loro identità originaria.

La guerra giudaica scoppiò quando tra Roma e i Parti era stato stabilito come confine l’Eufrate, per cui esisteva un patto reciproco di non aggressione, che durò da Tiberio a Domiziano (14-96). Una situazione d’instabilità politica vi era semmai in altri Stati sottoposti al dominio romano: Cappadocia, Commagene e Cilicia, dove erano morti i rispettivi sovrani e la popolazione pretendeva maggiore autonomia da Roma. Ma la situazione più critica era in realtà in Armenia, una nazione molto contesa tra Romani e Parti. In tal senso si può dire che solo con Traiano (114-117) i Romani riuscirono ad avere la meglio sui Parti e sull’Armenia, ma fu una vittoria momentanea, in quanto subito dopo si preferì ricostituire il confine precedente.

Ecco, questa era la principale situazione internazionale concomitante alla guerra giudaica. Si può forse aggiungere, considerando che le comunità ebraiche erano sparse in tutto l’oriente, che una guerra in Palestina avrebbe potuto essere foriera di forti minacce alla stabilità dell’impero romano. Lo stesso Giuseppe Flavio lo dice: “Quando divampò questo immane conflitto i Romani attraversavano un periodo di difficoltà, mentre il partito rivoluzionario dei Giudei era allora al culmine delle forze e dei mezzi... Infatti i Giudei speravano che tutti i loro connazionali al di là dell’Eufrate avrebbero preso parte all’insurrezione. I Romani invece avevano preoccupazioni dai vicini Galli, mentre nemmeno i Celti stavano tranquilli; e poi alla morte di Nerone tutto piombò nel disordine, quando molti ne approfittarono per impadronirsi dell’impero e gli eserciti aspiravano a diverse soluzioni della crisi per speranza di donativi” (Guerra giudaica).

Secondo Filone d’Alessandria i rapporti tra Romani ed ebrei peggiorarono in maniera significativa dall’anno 40, quando l’imperatore Caligola avrebbe tentato di far collocare una statua con le sue fattezze nel Tempio di Gerusalemme, sostenendo d’essere un dio e pretendendo venerazione, pena la morte per disobbedienza. I Giudei si opposero, in quanto la legge ebraica vietava di porre nel Tempio qualsiasi immagine, sia pure di divinità. E per fortuna nel 41 Caligola morì, altrimenti la guerra sarebbe stata inevitabile. Tuttavia, secondo Giuseppe Flavio, il malgoverno dei prefetti romani, come Lucceio Albino e Gessio Floro, era diventato insopportabile, non meno del collaborazionismo corrotto dell’aristocrazia laica e sacerdotale.

Sul piano sociale il banditismo o il brigantaggio si sviluppò molto negli anni 50-60, cioè dopo la grave carestia della fine degli anni 40, al tempo del procuratore Tiberio Alessandro (46-48). Era una forma prepolitica, spontaneistica, di rivolta sociale i cui protagonisti erano i contadini indebitati, i mezzadri e i braccianti senza terra, che potevano rovinarsi anche se sopravveniva una carestia provocata da una siccità o da una guerra. In ogni caso non c’erano solo i debiti da pagare (coi loro interessi), ma anche le tasse al Tempio (si pensi alla decima91) e i tributi ai Romani, che potevano arrivare anche al 40% di tutta la produzione.92 Quando a Roma vi erano guerre civili o di conquista, la pressione fiscale aumentava inevitabilmente. Città come Gofna, Emmaus, Lidda e Thamma ebbero gli abitanti schiavizzati solo perché avevano tardato a pagare i tributi.93

Giuseppe Flavio parla di azioni repressive condotte da tutti i procuratori romani: Cumano (48-52), Festo (60-62), Albino (62-64). Le imposte erano assolutamente insopportabili. Persino i Romani si accorgevano che la situazione stava diventando esplosiva, tant’è che spesso venivano a patti coi briganti, estorcendo loro dei soldi in cambio della scarcerazione. In Galilea comandavano nettamente i banditi quando vi giunse Giuseppe per organizzare le difese. Il brigante era protetto dal popolo, semplicemente perché derubava i proprietari terrieri, la piccola nobiltà benestante, laica o religiosa che fosse.

Nel 66 il procuratore Gessio Floro pretese che fossero prelevati 17 talenti dal Tempio, col pretesto che servivano per l’amministrazione imperiale, e, trovando opposizione, inviò i propri soldati, che provocarono la morte di 3.600 persone.94

Floro fu denunciato al governatore di Siria Gaio Cestio Gallo, i cui ispettori diedero ragione ai Giudei, ma avvennero due fatti concomitanti che fecero scoppiare la guerra: il rifiuto di compiere sacrifici nel Tempio a favore dei Romani e l’eliminazione della guarnigione romana stanziata a Masada.

Vediamo il primo. Il capitano del Tempio di Gerusalemme, Eleazar, figlio del sommo sacerdote Anania, decise di sospendere il sacrificio quotidiano per l’imperatore. Era come dichiarare guerra.95 Infatti scoppiò una rivolta in tutta la città. Floro inviò 2.000 cavalieri a domarla, ma non ci riuscirono.

Emerse intanto in Galilea la figura di un capo dei sicarii (una sorta di zeloti estremisti), Menahem, figlio di Giuda di Galilea e nipote di Ezechia (quest’ultimo fatto giustiziare da Erode il Grande perché ribelle zelota).96 Con la sua banda Menahem aveva occupato la fortezza Masada, costruita da Erode il Grande nel 37-31 a.C. come rifugio in caso di guerra, ma dove dal 6 d.C. era di stanza una guarnigione romana. Dopo aver eliminato quest’ultima (circa 700 militari) mosse verso Gerusalemme, dove ebbe facilmente la meglio sugli ebrei filoromani e dove impedì alla guarnigione stanziata nella fortezza Antonia di poter fare alcunché. Eliminò anche il sommo sacerdote Anania, che cercava di pacificarsi coi Romani.

I rivoltosi incendiarono gli edifici romani e di Erode Agrippa II, fecero fuori tutti gli archivi pubblici per liberare i debitori dei loro pesi e s’impadronirono dell’area del Tempio.97 Anzi, Eleazar chiese ai Romani rinchiusi nella fortezza Antonia di arrendersi, altrimenti li avrebbero uccisi tutti. Loro si arresero, ma dopo aver consegnato le armi, furono trucidati ugualmente. L’azione suscitò una generale indignazione, tanto che a Cesarea Marittima Floro fece uccidere 10.000 ebrei. In questo modo però la ribellione si estese a tutta la Giudea settentrionale, dove Giudei e Siri si massacravano a vicenda.

A questo punto il governatore romano della Siria, Gaio Cestio Gallo, decise d’intervenire con la legione XII Fulminata e con altre truppe, ma non fu in grado di riprendere Gerusalemme. Anzi, durante un ripiegamento cadde in un’imboscata tesagli a Beth Horon da Eleazar figlio di Simone, che gli fece perdere quasi l’intera legione di 6.000 uomini. In ciò fu aiutato in maniera decisiva da un altro leader zelota di origine edomita: Simone figlio di Giora, nativo di Gerasa nella Decapoli, ma la sua centrale operativa era a Nain in Galilea. Gallo riuscì a riparare ad Antiochia, ma l’imperatore Nerone (che in quel momento si trovava in Grecia) lo sostituì nel 67 con Tito Flavio Vespasiano, che in Siria concentrò la gran parte delle forze romane e che si servì di suo figlio Tito, per rilevare la legione XV Apollinaris, stanziata in Egitto.

Incoraggiato dai suoi successi, Menahem si comportò come un messia-re e rivendicò la leadership di tutte le truppe giudaiche, suscitando la rivalità di Eleazar, il quale decise subito di assassinarlo (i sicarii sopravvissuti tornarono alla fortezza Masada, dove rimasero sino alla fine della guerra contro i Romani).

Questa rivalità interna tra leader ebrei fu sostanzialmente la causa della sconfitta contro i Romani. Fu la mancanza di una guida centralizzata delle operazioni belliche che impedì loro di approfittare dei vantaggi acquisiti inizialmente. Mancò anche la capacità di trovare una soluzione politico-diplomatica. In tal senso la rivolta dei Maccabei contro i Seleucidi era stata svolta con maggiore intelligenza delle cose. È dunque sbagliato sostenere che, essendo l’impero romano molto più potente di quello seleucide, gli ebrei erano destinati a perdere.

Eleazar figlio di Simone non fu mai capace di stabilire un’intesa politica coi due più importanti leader politici zeloti-sicarii: Giovanni figlio di Levi, meglio conosciuto come “di Giscala” (città della Galilea), e lo stesso Simone figlio di Giora, che pur l’aveva aiutato militarmente.

Giovanni era fuggito dalla Galilea quando Vespasiano98, dopo aver vinto varie città della Galilea e soprattutto la resistenza della fortezza di Jotapata (40.000 morti), comandata da Giuseppe (Flavio)99, era passato ad assediare Giscala. Giuseppe fu nominato da Eleazar figlio di Simone capo militare delle forze ribelli in Galilea per gestire la rivolta e cercare un compromesso onorevole con Vespasiano. Ma gli zeloti non sopportavano di dover prendere ordini da un fariseo della Giudea, e avevano subodorato che non fosse abbastanza determinato contro Roma, sicché l’avevano isolato. Giuseppe, in sostanza, non era stato in grado né di controllare gli zeloti della Galilea né di organizzare un esercito in grado di resistere ai Romani, poiché in sostanza si appoggiava sulla piccola nobiltà locale ed era effettivamente favorevole a una trattativa che permettesse alla Giudea di ottenere un’autonomia simile a quella della Grecia, che non aveva il prefetto romano. Al massimo avrebbe accettato un regno vassallo sotto Erode Agrippa II, che aveva già 50 anni ed era senza eredi.100

Questa situazione ambigua si sbloccò quando i Romani decisero di occupare la Galilea. Una volta presa Giscala, la strada era spianata. Quando Giovanni arrivò a Gerusalemme con alcune migliaia di seguaci, raccontando del tradimento di Giuseppe, si accentuò l’odio degli zeloti nei confronti dell’aristocrazia sacerdotale, al punto che eliminarono il sommo sacerdote Mattathias ben Theophilus (forse padre di Giuseppe), sostituendolo con lo sconosciuto Phannias ben Samuel, l’ultimo sommo sacerdote d’Israele, anch’egli morto nel 70.

Quanto a Simone figlio di Giora, a Gerusalemme non volevano assegnargli alcuna posizione di comando, poiché erano intenzionati a trattare una pace onorevole coi Romani, al fine di garantirsi una propria indipendenza nazionale.

Per tutta risposta Simone radunò un gran numero di rivoluzionari e iniziò a derubare molte persone benestanti nel distretto di Akrabatene.101 Quando il sommo sacerdote Ananus102 gli inviò un esercito per bloccarlo, Simone si rifugiò a Masada. Ma dopo aver saputo che Ananus era stato ucciso dagli Idumei mentre cercava di togliere agli zeloti il controllo del Tempio, entrò a Gerusalemme col suo esercito e combatté insieme agli zeloti contro i Romani.

Praticamente la città fu spartita tra varie forze in continua lite tra loro, capeggiate da leader con ambizioni regali o messianiche a livello nazionale: oltre a Eleazar vi erano appunto Simone bar Giora e Giovanni di Giscala. Fu quest’ultimo che, dopo aver convinto gli zeloti a credere che Ananus aveva contattato Vespasiano per una trattativa pacifica, aveva deciso di aprire le porte della città agli Idumei per impedire la consegna di Gerusalemme ai Romani. Fu lui a chiedere agli Idumei di far fuori Ananus. Ecco perché la città rimase sotto il controllo degli zeloti e sicarii fino al 70. In un resoconto, riportato nel Talmud, viene detto che distrussero le scorte di cibo nella città, usando la fame per costringere la gente a combattere contro l’assedio romano, invece di negoziare la pace.

In pratica dal 66 al 68 Vespasiano occupò Galilea, Samaria, le città costiere di Giaffa e Jamnia, la Perea, l’Idumea e diverse città nel nord della Giudea. Gerusalemme era praticamente circondata. Proprio nel momento in cui stava per predisporre l’assedio della città, dovette ritornare a Roma, al seguito di Nerone, alle prese con rivolte popolari in Gallia, Hispania e Lusitania. Tali rivolte furono fatali per Nerone, che si suicidò. Al termine delle lotte tra i successori prevalse proprio Vespasiano, che intanto aveva affidato la gestione finale della guerra giudaica al figlio Tito, affiancato dal comandante in seconda Tiberio Giulio Alessandro, ex-ebreo nominato da Nerone prefetto d’Egitto, che ordinò un massacro imponente degli ebrei residenti ad Alessandria, ribellatisi per sostenere la Giudea in rivolta. Alessandro volle conservare il Tempio, ma un incendio scoppiato durante l’assedio, lo distrusse quasi completamente.

La disfatta inevitabile della città, totalmente priva di un comando unificato, comportò la morte di tutti i suoi leader più significativi: Eleazar figlio di Simone, Giovanni di Giscala e Simone figlio di Giora (Giovanni arrivò a uccidere lo stesso Eleazar). I sopravvissuti (poco più di 960 persone) si rifugiarono a Masada ove resistettero fino al 73; poi, per non cadere vivi nelle mani degli ebrei, si suicidarono tutti, meno due donne e cinque bambini, nascosti in cunicoli sotterranei.

Non si sa se i giudeo-cristiani (ebioniti) parteciparono alla rivolta: una tradizione li vuole rifugiati a Pella nella Decapoli, una città libera, ostile ai Giudei.103 Lo fecero quando scorsero l’esercito di Cestio Gallo accampato intorno a Gerusalemme. Se non fossero fuggiti subito, non avrebbero più potuto farlo. Quando Tito, nel 70 d.C., pose il campo sull’estremità settentrionale del monte degli Ulivi, gli abitanti di Gerusalemme non poterono più andare via. Infatti i sicarii uccidevano come disertore chiunque cercasse di uscirne. In ogni caso erano bastati tre giorni per cingere la città con un muro tutto intorno e ogni comunicazione con l’esterno veniva prontamente intercettata.

Il rabbino Yochanan ben Zakkai (Giovanni figlio di Zaccheo), discepolo di Hillel e favorevole a che Gerusalemme assediata si arrendesse ai Romani, chiese a Vespasiano che l’accademia rabbinica di Javneh (o Jamnia) venisse risparmiata. Fu qui che, quando il Tempio cadde in rovina, lui e i suoi colleghi ricostruirono il giudaismo insegnando che le buone azioni dovevano sostituire il potere espiatorio dei sacrifici rituali. La scuola teorizzò una cosa che il movimento nazareno del Cristo aveva capito 40 anni prima. E tuttavia questi ebrei non cercarono mai alcun compromesso coi cristiani.

La Giudea sconfitta venne ricostituita come una provincia amministrata da un prefetto di rango senatorio residente a Cesarea, che riferiva direttamente a Roma. A Gerusalemme era acquartierata la X legione Fretensis, che espugnò la fortezza di Masada. Fu questa legione che si trovò coinvolta nella seconda guerra giudaica del 115-117 e nella rivolta di Simone bar Kokheba (132-135), autoproclamatosi messia.

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8.2) La II guerra giudaica

La seconda guerra giudaica venne chiamata anche guerra di Kitos dal nome del principale generale romano Lusio Quieto, principe di una tribù berbera della Mauretania Tingitana, regione africana alleata di Roma (coincidente all’incirca con la parte settentrionale dell’attuale Marocco).

La guerra coinvolse gran parte delle città della diaspora ebraica sotto il regno dell’imperatore Traiano. Questo perché un certo numero di rivoltosi scampati alla disfatta dei Giudei nel 70 trovarono rifugio ad Alessandria d’Egitto e a Cirene, ove si adoperarono per diffondere le loro idee nei ceti proletari della popolazione ebraica, senza avere l’appoggio dei ceti più elevati.

Per 40 anni i rapporti tra Roma e Giudei erano stati distesi solo perché l’imperatore Nerva (96-98) aveva abolito il tributo dovuto dai Giudei a Roma (che con Domiziano era diventato insopportabile) e li aveva esentati dal considerare l’imperatore una divinità, ma la tensione ad Alessandria tra Giudei e Greci restò sempre molto alta (anche perché rifletteva quella tra agricoltori-artigiani-piccola borghesia da un lato, e grandi latifondisti e grande borghesia mercantile dall’altro). Questo perché la maggioranza dei rabbini e della popolazione accettava la sottomissione di Roma solo come fase transitoria, in attesa di una nuova riscossa messianica. Anzi si era convinti che la distruzione di Gerusalemme e del Tempio fosse il momento culminante del periodo di tribolazione antecedente all’era del riscatto divino con l’immancabile vittoria giudaica.

La letteratura apocalittica dell’epoca, prodotta fra il 70 e il 135 d.C., consisteva principalmente nell’Apocalisse di Baruc e nel Quarto libro di Esdra, ma vi erano anche gli Oracoli sibillini. Nel canone ebraico però non venne inserito il Libro dei Maccabei, perché troppo “rivoluzionario”, e anche il Libro di Ester venne tolto dai libri storici (e senza il sogno preoccupante di Mardocheo o Mordechai) e messo tra quelli agiografici. La catastrofe del 70 veniva considerata come una punizione divina per la scarsa osservanza della Legge. Ovviamente non ci si rifaceva più all’autorità ereditaria dei sacerdoti gestori del Tempio, ma solo allo studio e all’insegnamento dei rabbini e dei farisei.

La rivolta coinvolse importanti comunità giudaiche in Egitto, in Cirenaica, a Cipro e in Mesopotamia, con violentissimi scontri tra i Giudei e i residenti, cogliendo di sorpresa lo stesso imperatore Traiano, che aveva partecipato alla guerra giudaica e che tra il 113 e il 116 aveva occupato la capitale partica Ctesifonte, e ridotto a province l’Armenia, la Mesopotamia e l’Assiria. Le comunità ebraiche disseminate nell’impero partico (dove fruivano di una larga autonomia giuridica e culturale) sobillavano le popolazioni da poco sottomesse a ribellarsi a chi pretendeva d’essere il nuovo Alessandro Magno.

Sotto Traiano si cominciava a capire che i cristiani, indifferenti alla politica, non erano pericolosi come gli ebrei. L’imperatore infatti aveva chiesto a Plinio il Giovane di non perseguitarli a priori, ma solo sulla base di fatti specifici. E riteneva alcuni territori relativamente sicuri, proprio perché le comunità cristiane erano numericamente superiori a quelle ebraiche: Siria, Cilicia, Cappadocia, Galazia, Asia, Bitinia…

Ma la prima a ribellarsi, nel 115-6, fu la comunità ebraica di Alessandria d’Egitto, che in seguito alla distruzione di Gerusalemme era diventata il centro mondiale della religione e della cultura ebraica. Il prefetto Marco Rutilio Lupo represse con tale energia la rivolta che per circa un secolo non vi saranno più ebrei nella città. I motivi della protesta era fondamentalmente due: 1) l’obbligo delle forniture di grano per Roma; 2) l’eccessiva tassazione che gravava soprattutto sulle masse contadine, di molto cresciuta proprio in conseguenza delle guerre partiche.104

La rivolta in Cirenaica e a Cipro non coinvolgeva solo gli ebrei, né era diretta solo contro i Romani, ma anche contro la popolazione greca ivi residente. Traiano mandò subito un’altra legione in Giudea, poiché non voleva che si estendesse anche qui. In particolare affidò al suo principale consigliere, Quinto Marcio Turbo, prefetto della Guardia Pretoriana, il compito di sedare con la forza qualunque agitazione sediziosa. Vi riuscì senza particolari difficoltà.

Tuttavia questa pericolosa instabilità faceva risollevare la testa alle popolazioni mesopotamiche appena sottomesse, al punto che Traiano dovette rinunciare a tutte le sue conquiste e tornare ad Antiochia di Siria. Era intenzionato a preparare una controffensiva nel 117, ma morì improvvisamente in Cilicia: dopo di lui l’impero non riuscirà più ad allargare i propri confini. Intanto aveva nominato il feroce Lusio Quieto, generale berbero, al ruolo di governatore della Giudea, e il generale Adriano a quello di governatore della Siria.

Sotto Quieto i Giudei non riuscirono a far nulla, poiché aveva grandi capacità militari, talmente grandi che lo stesso Adriano, per non averlo come concorrente al trono imperiale, lo fece assassinare nel 118. Marcio Turbo fu invece trasferito dall’Egitto in altre province del tutto periferiche.

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8.3) La III guerra giudaica

La rivolta che portò alla terza guerra giudaica (132-135) scoppiò per tre principali motivi:

- il primo fu il divieto di circoncisione da parte dell’imperatore Adriano (117-138), un atto sconsiderato per i Giudei, mirante a privarli della loro specificità etnico-religiosa;

- il secondo fu il progetto di costruire una nuova città sulle rovine di Gerusalemme (da lui rinominata Aelia Capitolina) e porvi un tempio dedicato a Giove, un atto sacrilego per gli ebrei;

- poiché l’impero non era più in grado di espandersi, tassazioni e tributi aumentavano spaventosamente ai danni dei ceti subalterni e delle province.

Questa guerra fu chiamata anche rivolta di Simon bar Kokheba (Simone figlio della Stella), un condottiero e rivoluzionario ebreo, pretendente al trono del regno di Giudea. Rabbi Akiva, uno dei primi fondatori dell’ebraismo rabbinico, lo proclamò messia, poi principe d’Israele e infine re di Giudea dopo aver ottenuto una piccola vittoria contro Roma. Vi aderirono coloro che, per vari motivi, non avevano partecipato alle rivolte, localmente sparse, dell’epoca traianea.

La rivolta, accuratamente preparata (anche cercando di convincere popolazioni non ebraiche), scoppiò improvvisamente in tutta Israele, con una intensa e continua guerriglia, il combattimento più difficile per i Romani, abituati com’erano alle armature pesanti e agli scontri in campo aperto.

Simone ebbe buon seguito soprattutto nelle campagne e fra gli strati medio bassi della società, oltre a un certo numero di rabbi che lo appoggiarono, la maggior parte dei quali però lo definì “figlio della menzogna”.

Il successo della guerriglia fu anche favorito dalle scarse capacità del governatore Quinto Tineio Rufo (130-133), tant’è che Adriano (che in quel momento si trovava ad Atene) assegnò il comando militare al più capace Sesto Giulio Severo (134-137), che infatti fece tagliare i collegamenti dei ribelli, a cominciare dai rifornimenti, isolando le varie unità e affrontandole una per volta.

Alla rivolta aderirono anche molti Samaritani, Moabiti e Nabatei, ma non gli ebreo-cristiani, che si trasferirono nelle città greche oltre il Giordano. Gli Alani, cavalieri caucasici alleati di Roma, impedirono l’afflusso in Giudea di rinforzi ebraici dall’oltre Eufrate.

Nonostante le gravi perdite subite, nel 135 il nuovo governatore della Giudea, che poteva avvalersi di truppe provenienti da Britannia, Mauretania, Pannonia e Macedonia, riuscirà a distruggere l’ultima roccaforte ebraica, la fortezza di Bétar, situata a pochi chilometri da Gerusalemme, dove lo stesso Simone bar Kokheba trovò la morte. La Giudea fu completamente devastata: secondo Dione Cassio 580.000 ebrei rimasero uccisi (senza contare quelli che morirono di fame, malattia, incendi...), 1,5 milioni deportati al mercato degli schiavi di Hebron e Gaza, 50 città fortificate e 985 villaggi distrutti (inclusi quelli dell’Arabia Petrea, in quanto anche gli Arabi si erano sentiti offesi dal divieto della circoncisione). Praticamente quasi tutta la Giudea rimase deserta. I più fortunati riuscirono a rifugiarsi presso la comunità babilonese o l’attuale Yemen.

Le perdite dei Romani furono talmente pesanti che nel rapporto di Adriano al Senato fu omessa l’abituale formula “Io e il mio esercito stiamo bene”. Necessitò di ben 12 legioni per sopprimere la rivolta, ossia circa i 5/6 di tutta la forza militare dell’impero: fu la sola volta in cui il Senato rinunciò a far celebrare il trionfo al ritorno dell’imperatore dopo una vittoria militare. La superiorità dei Romani era basata soprattutto sulla presenza della cavalleria (del tutto assente tra gli ebrei) e sulla grande disponibilità di mezzi tecnici per la costruzione di macchine d’assedio.

Adriano tentò di sradicare per sempre l’ebraismo, poiché lo considerava causa di continue ribellioni. Proibì di seguire la legge ebraica, di attenersi al calendario ebraico e mise a morte gli studiosi della Torah, tra cui lo stesso Rabbi Akiva, che si era rifiutato di ottemperare al decreto. I “Rotoli sacri” delle scritture furono solennemente bruciati sul Monte del Tempio. Nel tentativo di cancellare la memoria stessa della Giudea, rinominò la provincia Syria Palaestina (dal nome dei loro antichi nemici, i Filistei) e agli ebrei da quel momento in poi fu fatto divieto di entrare nella capitale riconsacrata al paganesimo. I nuovi coloni subentrarono ai Giudei.

Quando le fonti ebraiche parlano di Adriano è sempre con l’epitaffio “possano essere le sue ossa frantumate”, un’espressione mai usata neppure nei confronti di Vespasiano o del figlio Tito che pur avevano distrutto il secondo Tempio.

Antonino Pio, successore di Adriano, permise di nuovo ai Giudei la circoncisione, ma solo sotto Costantino fu permesso ai Giudei di rientrare a Gerusalemme per piangere sul luogo del santuario, cosa che fanno ancora oggi. A partire da questa guerra la frattura tra ebrei e cristiani non si ricomporrà mai più.

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Appendice

9) Sommi sacerdoti del periodo erodiano-romano

  1. Ananelus, 37-36 a.C.

  2. Aristobulo III, nipote di Aristobulo II e Hyrcanus II, 36 a.C. Era l’ultimo degli Asmonei, fratello della seconda moglie di Erode, Mariamne I.

  3. Ananelus (restaurato), 36-30 a.C.

  4. Joshua ben Fabus, 30-23 a.C.105

  5. Simon ben Boethus, 23-5 a.C. (sua figlia Mariamne II fu la terza moglie di Erode il Grande)

  6. Matthias ben Theophilus, 5-4 a.C.

  7. Joazar ben Boethus, 4 a.C.

  8. Eleazar ben Boethus, 4-3 a.C.

  9. Joshua ben Sie, 3 a.C. – ?

  10. Joazar ben Boethus (restaurato), ? – 6 d.C.

  11. Ananus ben Seth, 6-15

  12. Ishmael ben Fabus (Phiabi), 15-16

  13. Eleazar ben Ananus, 16-17

  14. Simon ben Camithus, 17-18

  15. Joseph ben Caiaphas, 18-36 (genero del sommo sacerdote Ananus ben Seth)

  16. Jonathan ben Ananus, 36-37

  17. Teofilo ben Ananus, 37-41

  18. Simon Cantatheras ben Boethus, 41-43

  19. Mattia ben Anano, 43

  20. Elioneus ben Simon Cantatheras, 43-44

  21. Jonathan ben Anano, 44 (restaurato)

  22. Josephus ben Camydus, 44-46

  23. Anania figlio di Nedebeo, 46-58

  24. Gionata, 58

  25. Ismaele II ben Fabus, 58-62 (relazione con il prete omonimo del 15-16 d.C.?)

  26. Joseph Cabi ben Simon, 62-63

  27. Ananus ben Ananus, 63

  28. Gesù figlio di Damneus, 63

  29. Joshua ben Gamla, 63-64 (sua moglie Marta apparteneva alla famiglia di Boeto)

  30. Mattathias ben Theophilus, 65-66

  31. Phannias ben Samuel, 67-70

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10) Governatori romani

  • Prefetti

6-9: Coponio

9-12: Marco Annibulo (Bibulo)

12-15: Annio Rufo

15-26: Valerio Grato

26-36: Ponzio Pilato

36-37: Marcello

37-41: Marullo

Il governo dei procuratori cessò per breve tempo (41 d.C.), quando l’imperatore Claudio ingrandì il regno di Agrippa I, aggiungendo la Giudea e la Samaria alle tetrarchie di Filippo, di Lisania e di Erode Antipa, già a lui assegnate da Caligola, sicché egli riunì tutto l’antico Stato di Erode il Grande. Ma morto nel 44 Agrippa, il regno fu ridotto a provincia e affidato di nuovo a un procuratore, Cuspio Fado.

  • Procuratori

44-46: Cuspio Fado

46-48: Tiberio Giulio Alessandro

48-52: Ventidio Cumano

52-60: Marco Antonio Felice

60-62: Porcio Festo

62-64: Lucceio Albino

64-66: Gessio Floro

Dalla distruzione del tempio di Gerusalemme (6 agosto 70) alla caduta di Cantone di Masada:

69-70: Marco Antonio Giuliano

70-71: Terenzio Rufo e Sesto Vettuleno Ceriale

71-72: Sesto Lucilio Basso

72-80: Lucio Flavio Silva

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Vedi anche:

Wiki

oppure:

Wikiwand

** Conclusione

Bisogna ammettere che non c’è alcuna possibilità di riattualizzare il messaggio del Cristo conservandone gli aspetti di teologia ebraica e/o cristiana che gli sono stati attribuiti.

È curioso che i teologi sostengano la tesi secondo cui la ricerca laica del Gesù della storia, quando è condotta per distanziarlo dal Cristo della Chiesa, si risolve in definitiva in un radicale rifiuto della storia. Una tesi davvero insostenibile, poiché nessuno oggi sarebbe disposto a negare che tra il Gesù della fede e il Cristo della storia vi sia un abisso incolmabile. Si dovrebbe anzi dire il contrario, e cioè che è stata proprio la teologia petro-paolina a eliminare qualunque riferimento storico al Cristo politico.

Quindi per noi va assolutamente escluso che per interpretare il Cristo non ci si possa discostare dalla tradizione ecclesiastica che ce l’ha tramandato. La teologia non detiene alcun primato interpretativo (esegetico, ermeneutico, filologico, storico) dell’evento Gesù. I duemila anni di storia ecclesiastica e di teologia dogmatica e di esegesi confessionale e di ermeneutica religiosa vanno semplicemente azzerati, almeno per quanto riguarda la possibilità di delineare i contorni di un Cristo ideologicamente ateo e politicamente sovversivo. Poi sulle questioni etiche si potrà anche discutere, se si vuole.

Certo, può apparire scandaloso sostenere che il Cristo non avesse nulla di religioso e non fosse un pacifista di maniera o a oltranza, ma resta fuor di dubbio che chi oggi lo difende come soggetto squisitamente ebraico o cristiano, non lo capisce con la dovuta radicalità. Non solo, ma i cristiani tendono a svolgere lo stesso ruolo che al tempo dei Romani avevano i pagani contro di loro e contro gli ebrei.

Oggi esiste già un’alternativa al cristianesimo, sia esso ortodosso, cattolico o protestantico: è quella del capitalismo, che si serve di una sorta di cristianesimo laicizzato per poter usare questa religione contro chi si professa ateo e soprattutto socialista. I nuovi sacerdoti sono i capi di stato, i leader politici, ma anche gli scienziati e i guru dell’economia. Nessuno di loro mette ideologicamente o culturalmente in discussione la fede: semplicemente la relega alla sfera privata o la usa in maniera strumentale. Nessuno ha il coraggio di dichiararsi esplicitamente ateo e non farebbe mai un torto a nessuna confessione religiosa, temendo di perdere il consenso politico (ed economico) dei credenti. Il capitalismo è fatto così: è un’ideologia del compromesso.

Per superarlo ci vogliono due cose: ateismo e socialismo. Se quest’ultimo riuscirà a superare il capitalismo, l’ateismo supererà la religione. Ma ci vorrà di mezzo la democrazia, poiché non si può imporre nulla contro la libertà di coscienza. La ragione non ha mai ragioni sufficienti per imporsi con la forza.

Detto altrimenti. Il fatto che il cristianesimo sia stato messo in discussione soprattutto a partire dall’Illuminismo non sta a significare che il razionalismo fosse di per sé superiore alla teologia, poiché la superiorità va dimostrata sul piano pratico, e il capitalismo non può essere considerato qualitativamente “superiore” al feudalesimo, poiché è soltanto una variante più avanzata dei conflitti di classe (più avanzata in quanto ciò che giustifica l’antagonismo sociale non è tanto il possesso della terra, quanto il possesso del denaro, o meglio del capitale, il denaro che si autovalorizza).

Il capitalismo appare più democratico semplicemente perché, mentre la rendita feudale riguardava fondamentalmente due classi, l’aristocrazia laica e quella ecclesiastica, il profitto economico o l’interesse finanziario invece possono coinvolgere chiunque. Alla teologia si è sostituita prima la filosofia, poi la scienza, e nel mentre si affermavano filosofia e scienza una terza disciplina si è imposta: il diritto. Filosofia, scienza e diritto sono state le principali armi culturali con cui la borghesia ha mandato in soffitta la teologia (e tutta la metafisica religiosa). Ovviamente la rivoluzione è avvenuta anche nel campo artistico ed estetico.

Tuttavia il cristianesimo persiste, per quanto lacerato nelle sue tre correnti fondamentali: ortodossa, cattolica e protestantica (in ordine d’importanza concettuale, per quanto sia stato grazie al protestantesimo che si sia sviluppata l’esegesi critica dei vangeli). Questo a significare che non basta una lotta emancipativa sul piano culturale: occorre anche l’affermazione pratica della democrazia sociale, ovvero del socialismo democratico. E in questo campo bisogna dire che gli esperimenti politico-statuali non hanno dato buona prova di sé. A tutt’oggi non si è affermata da nessuna parte un’alternativa convincente (duratura) alla prassi economica del capitalismo e alla sua democrazia meramente formale. Si è certamente sviluppato il laicismo, e quindi una lettura molto critica della tradizione cristiana, ma per il resto siamo ancora in alto mare. E chi pensa che basti il laicismo culturale per vincere le resistenze del cristianesimo, s’illude enormemente. Pur di sopravvivere il cristianesimo non ha scrupoli ad allearsi con lo stesso capitalismo in funzione antisocialista. Infatti i teologi han capito che la vera alternativa non è data tanto dalla cultura ma da quella cosa che fece vincere lo stesso cristianesimo sul paganesimo: la risposta ai bisogni sociali della gente comune.

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Note

1 A volte penso, siccome all’origine del genere umano deve per forza esserci un rapporto di coppia, che la Maddalena (che voleva dire “turrita”, non tanto proveniente da “Magdala”) sia stata anch’essa una sorta d’incarnazione extraterrestre al pari del Cristo. Peccato che la sua idea sul trafugamento del corpo lo escluda. Così come lo esclude la decisione di accettare l’idea petrina sulla resurrezione di Gesù. Se davvero fosse stata un essere divinoumano, avrebbe dovuto dire di proseguire il suo messaggio politico di liberazione nazionale, cioè di non dare alcun peso alla tomba vuota e, al massimo, di accontentarsi della sindone. Quindi forse dobbiamo aspettarci una nuova incarnazione, questa volta però di tipo femminile. Com’è giusto che sia. Ma mi rendo conto che qui presto il fianco a teorie gnostiche. In ogni caso non può bastare il femminile Paraclito del IV vangelo. L’esegesi laica si è opposta all’idea evangelica di trasformare il “liberatore” in un “redentore”, ma deve farlo anche nei confronti dell’idea di associare il “redentore” a un “consolatore”.

2 Tutti i miracoli straordinari compiuti da Gesù vanno considerati redazionali; al massimo si può accettare qualche guarigione psicosomatica. Si noti peraltro come il Cristo dei Sinottici compie molti miracoli proprio perché viene rappresentato come un galileo, mentre nel IV vangelo viene invece rappresentato come un leader che discute di religione e politica coi farisei e, prima ancora, col movimento battista. I Galilei erano più influenzati dei Giudei dalla cultura ellenistica. Quindi si può tranquillamente presumere che i Sinottici siano più falsi del vangelo giovanneo, nonostante quest’ultimo presenti aspetti mistici notevolmente superiori, che sono appunto serviti per mistificare un testo altamente politico.

3 Tuttavia, siccome la borghesia italiana (pur essendo molto laica grazie all’Umanesimo e al Rinascimento) non riuscì a realizzare l’unificazione nazionale alla fine del Medioevo, il capitalismo industriale vero e proprio si sviluppò solo nei Paesi protestanti unificati. Quando la nostra borghesia riuscì a compiere l’unificazione, si era già abbastanza protestantizzata. La Chiesa romana però lo farà solo col Concilio Vaticano II. Il protestantesimo non è che una laicizzazione del cattolicesimo sulla base delle esigenze del capitalismo.

4 Le problematiche omosessuali e transessuali esulano da questo ragionamento, per quanto l’esigenza di un rapporto col diverso sia insita, pensiamo, in ogni essere umano, nel senso che, se anche non si va a cercare una differenza fisica, si va comunque a cercare una differenza psicologica, proprio per un arricchimento personale.

5 Si noti la differenza tra “perdonare” in senso etico, e “ritenere” in senso giuridico, che l’autore di questo vangelo ricava dai Sinottici.

6 Si noti come nei vangeli i redattori lo fanno passare per bestemmiatore, agli occhi dei Giudei, non per essersi dichiarato ateo ma proprio per essersi identificato con Dio. Cosa che se davvero avesse fatto, l’avrebbero considerato un folle, un povero mentecatto. Questo è un esempio eloquente della loro mistificazione.

7 Da notare che Marco, per colpa di sant’Agostino, fu considerato un riassunto di Matteo, per cui fu pochissimo commentato. Oggi invece è il vangelo più studiato a livello scientifico. Questo per dire che l’esegesi strettamente confessionale, anteriore a quella illuministica, ha un valore prossimo allo zero.

8 Secondo alcuni esegeti Gesù sarebbe stato un capro espiatorio per un’azione d’insurrezione organizzata proprio dagli zeloti, che non ammettevano la presenza di autorità esterne al giudaismo in funzione di governo (a differenza dei farisei, ch’erano più possibilisti). I sacerdoti del Tempio sapevano dell’innocenza di Gesù, ma c’era bisogno in qualche modo di distrarre i Romani per effettuare i preparativi della ribellione. Questa è pura fantascienza, poiché i sadducei detestavano profondamente il movimento nazareno, il quale, come gli zeloti, non voleva la presenza romana in patria, ma che, a differenza degli zeloti, non voleva instaurare una monarchia di tipo davidico, cioè teopolitica.

9 Che il IV vangelo sia stato manipolato in un contesto monastico lo si può anche capire dal fatto che non si fa alcuna distinzione tra “amore” (agapē, agapan) e “amicizia” (philos, philein). Per gli autori è del tutto indifferente parlare di amore di Dio, amore del Figlio per il Padre, amore di Gesù per i suoi amici, amicizia, comandamento dell’amore, discepolo amato, domande di Gesù “risorto” sull’amore di Pietro per lui, ecc. I due termini sono intercambiabili.

10 Tuttavia la versione di Eusebio di Cesarea vuole che Pilato si sia suicidato dopo essere stato esiliato in Gallia.

11 In teoria il Sinedrio avrebbe potuto condannare a morte Gesù. In Gv 11,45 ss. è molto chiaro che lo fece. L’importante era che la sentenza non venisse emessa da un organo monocratico, cioè un sovrano (come Erode il Grande che uccise Ezechia) o un pontefice. Non credo che i Romani avessero tolto a questa istituzione il potere di emettere sentenze del genere, altrimenti Pilato (pur facendo nei vangeli la parte del finto tonto) non avrebbe detto che nel caso di Gesù dovevano pensarci i sinedriti. Il Sinedrio non ebbe difficoltà a mandare a morte Giacomo Zebedeo e Stefano (e chissà quanti altri cristiani furono giustiziati al tempo in cui Paolo si chiamava Saulo). Al massimo Pilato poteva intervenire se il condannato fosse stato un collaborazionista dei Romani. Semmai dovremmo dire che i sadducei e il sommo sacerdote erano consapevoli di non avere sufficiente potere politico, ma solo giudiziario, per decidere di giustiziare Gesù, un leader politico per loro troppo popolare. Di qui la decisione di consegnarlo al prefetto. Il che però ci porta a pensare che se questi accettò di giudicarlo, vuol dire che lo considerava politicamente pericoloso. Non avrebbe rischiato di fronte all’imperatore di condannare a morte una persona del tutto innocente e che, per questa ragione, avrebbe potuto collaborare coi Romani. Neppure Giuseppe Flavio, dopo il proprio tradimento, fu giustiziato da Vespasiano, nonostante avesse combattuto in maniera militare contro le sue legioni: cosa che Gesù non ebbe il tempo di fare.

12 Da notare che nella Mishnah il rabbinismo posteriore al 70 si organizza in modo da non pensare più al futuro, evita cioè di rifarsi a speranze apocalittiche, non si richiama più a un’autorità superiore, sia essa una rivelazione divina o un personaggio biblico. È solo preoccupato a gestire il proprio presente.

13 Attenzione che col termine “classe sacerdotale” s’intende, in genere, quella aristocratica, cioè l’alto clero, tant’è che nel corso della guerra giudaica molti esponenti del basso clero si schierarono a fianco degli zeloti.

14 A sua volta Varo verrà ucciso dai Germani a Teutoburgo nel 9 d.C., e con lui sterminate ben tre legioni, oltre alle truppe ausiliarie.

15 Scrive Luca nel suo vangelo (23,1-2): “Tutta l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: - Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. Naturalmente chi lo consegnò a Pilato non fu tutto il Sinedrio ma solo Caifa e i sadducei il mattino presto dopo l’arresto. Essendo tutte le accuse di tipo politico, Pilato non aveva bisogno che fosse edotto dai Giudei. Erano vere, ma nel vangelo (antisemitico) vengono fatte passare come inventate dai Giudei per indurre Pilato a eseguire una sentenza capitale. L’ultima accusa era comunque falsa, poiché Gesù non ha mai preteso un trono monarchico in stile davidico, altrimenti avrebbe compiuto a Gerusalemme, appena entrato, un colpo di stato.

16 Gli ebrei riceveranno la cittadinanza romana solo con la Constitutio Antoniniana de civitate di Antonino Caracalla, nel 212, al pari di tutti gli abitanti liberi dell’impero, anche se, in quanto religio licita (autorizzata), potevano già nel diritto privato (anche dopo la perdita dell’indipendenza nazionale in terra d’Israele) avere riconoscimenti in materia matrimoniale, patrimoniale e testamentaria, nonché la possibilità di appellarsi all’autorità giurisdizionale ebraica. Potevano praticare la circoncisione, le riunioni cultuali e l’osservanza del sabato, ed erano esentati dal compimento di atti di culto pagani e dal servizio militare. Potevano anche entrare nelle amministrazioni cittadine, pur essendo esentati dagli obblighi curiali. Molti di questi diritti li perderanno dopo il governo di Costantino.

17 A dir il vero nell’ambito dell’ideologia farisaica la scuola di Shammai ammetteva il divorzio solo per gravi trasgressioni della moglie, mentre era la scuola di Hillel ad accettarlo anche per colpe banali della donna. In genere si può dire che i discepoli di Shammai erano più vicini alle posizioni zelotiche, ma fu la casa di Hillel che dopo il 70 ebbe la meglio.

18 Non dimentichiamo che fu il ritorno dall’esilio babilonese a trasformare i grandi sacerdoti in una casta aristocratica privilegiata, avente funzioni anche politiche. Non potendo avere un monarca, in quanto la Palestina era una colonia persiana, il popolo considerava il Tempio, coi suoi sacerdoti e il Sinedrio, il fulcro dell’unità nazionale. I sacerdoti ne approfittarono e al tempo di Gesù la corruzione dei sadducei si toccava con mano.

19 In un certo senso si può dire che gli evangelisti sono passati da “Nazareno” a “Nazareth” e non il contrario. Se si attribuisce a Gesù un’origine galilaica, è più facile attribuire ai Giudei la causa della sua morte violenta.

20 Non è da escludere che il battesimo impartito da Giovanni servisse anche per reclutare adepti disposti a compiere qualcosa di eversivo; oppure che questa caratteristica l’avesse quello impartito dagli ex discepoli di Giovanni che avevano scelto Gesù come nuovo leader (di qui il loro maggior successo). Il battezzato doveva fare una specie di promessa, quella di esser pronto alla chiamata (o all’arruolamento, anche armato) nel momento in cui gli venisse chiesto per l’insurrezione nazionale contro i Romani.

21 Tendiamo a distinguere “zeloti” da “sicarii”. Quest’ultimi vengono definiti così da Giuseppe Flavio per via della piccola sica (pugnale) con cui compivano le loro vendette contro soldati romani isolati e contro ebrei filo-romani. Ma non ma non spiega in maniera esauriente le principali differenze tra i due gruppi. Per me i sicarii non sono che un’ala ultraestremista o terroristica del partito zelota.

22 A dir il vero anche Giuseppe Flavio cita gli zeloti soltanto per il periodo successivo alla morte di Gesù. Ma è evidente che lo fa per scaricare sul loro partito tutta la responsabilità della disfatta giudaica. Il che fa pensare ch’egli avrebbe potuto condividere, almeno in teoria, le tesi del cristianesimo paolino. Non dimentichiamo che la sua opera fu aspramente criticata da Giusto di Tiberiade (35-100 circa), anche lui autore di una Storia della Guerra Giudaica. Che naturalmente non ci è pervenuta!

23 Alcuni esegeti sostengono che Gesù non poté fare voto di nazireato, poiché è noto che bevesse vino. In realtà noi non sappiamo affatto se nei convinti in casa di Levi-Matteo o dagli sposi anonimi di Cana o da qualche personaggio di rilievo, Gesù bevesse vino. Quando gli dicono che è un mangione e un beone, era una evidente fake news, dovuta al fatto che i suoi discepoli non facevano digiuni come i farisei e gli esseni. Considerando poi ch’egli non ha mai istituito alcuna eucaristia, ovvero che non è mai esistita alcuna “ultima cena” in senso mistico o religioso, secondo qualche particolare calendario, non è da escludere ch’egli, effettivamente, non abbia mai bevuto vino a partire dal momento del voto e che abbia accettato di berne un sorso sulla croce proprio per porre fine a quel voto. “Tutto è compiuto” potrebbe anche voler dire che “scioglieva definitivamente il voto”. Rifiuto l’idea che i soldati, sapendo che un nazireo non poteva bere derivati della vite, gli abbiano offerto la posca non per pietà ma per schernirlo sino in fondo.

24 L’encratismo col suo rifiuto del matrimonio e del possesso dei beni; il marcionismo col suo radicale antigiudaismo; le varie forme di gnosticismo e di docetismo col loro rifiuto del mondo materiale e la loro negazione dell’umanità reale di Gesù; l’ebionismo che ritiene Gesù un ebreo integrale, fedele alla Torah, sono tutte “eresie” che non servono a niente per capire il Cristo politico. Usarle per contraddire le tesi dei vangeli canonici o il Nuovo Testamento è del tutto inutile.

25 Mi è sempre piaciuta la tesi di Ferdinand Christian Baur (1792-1860), secondo cui esiste nel cristianesimo primitivo un forte conflitto tra la tendenza petrina del giudeo-cristianesimo e il paolinismo presente nel cristianesimo ellenistico. La sintesi di queste due tendenze era secondo lui visibile nel IV vangelo. Secondo me invece quando il IV vangelo fu redatto, nella sua forma originaria, il nemico principale da combattere era l’intera teologia petropaolina. Viceversa, nella versione definitiva, quella manipolata, la teologia petrina era già stata sconfitta da quella paolina, e i redattori, pur non essendo pienamente allineati con tale teologia, han dovuto tenerne conto, altrimenti sarebbero stati censurati. Baur però sbagliò completamente a non ritenere il vangelo marciano come la fonte di tutte le mistificazioni della teologia petropaolina. Per lui erano più antichi i vangeli degli Ebrei, di Pietro e degli Ebioniti.

26 Attenzione tuttavia a non considerare l’antigiudaismo del petrinismo equivalente a quello del paolinismo: il primo aveva un carattere etnico, il secondo del tutto ideologico.

27 Da notare che in Mt 26,6-7 e in Mc 14,3 la casa appartiene a un certo Simone, un lebbroso: il che è impossibile. Quindi o qui han voluto censurare il nome di Lazzaro, oppure quel Simone era – come vogliono alcuni esegeti – un esseno. Ciò in quanto si pensa che vi sia stato un errore di traduzione dal primitivo vangelo aramaico di Matteo al vangelo greco di Matteo e al vangelo di Marco: il termine “ha-Zanua”, che significa “l’umile, il pio”, sarebbe stato decifrato come “ha-Zarua”, che significa “il lebbroso”. Col termine “Zenua” il Talmud babilonese designa gli esseni, e quindi forse lo erano anche Marta, Maria e Lazzaro. Cosa che spiegherebbe perché vivessero in una stessa casa.

28 Si noti che è solo in Giovanni, più preciso dei Sinottici nei particolari, che appare l’intestazione della croce inclusiva del termine “nazoraios”: Ἰησοῦς ὁ Ναζωραῖος ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων.

29 Considerando che in un uomo i capelli crescono circa 15 cm all’anno, si può supporre che la predicazione del Gesù sindonico sia durata poco più di due anni. Naturalmente è solo una supposizione, che però trova conferma nella cronologia giovannea.

30 Da notare che in Mt 2,23, pur usando il nome del villaggio Ναζαρέτ, si usa anche l’appellativo Ναζωραῖος, lasciando pensare che il richiamo ai profeti si riferisse proprio alla figura del nazireo o nazoreo.

31 A volte chi mi contesta la rappresentazione del Cristo politico, al massimo è disposto ad ammettere una qualche politicità di tipo teologica, sulla base di una tradizione enochica. In effetti nel Libro di Enoch, del 30 a.C., appare una figura chiamata “Figlio dell’Uomo”, che ha natura sovrumana e conosce tutti i segreti della Legge e perciò ha il compito di celebrare il Grande Giudizio alla fine dei tempi. Tuttavia per me questi riferimenti possono soltanto avere un qualche significato solo per capire la stesura mistificante dei vangeli, non per delineare la figura del Cristo.

32 C. H. Dodd, Storia ed evangelo, ed. Paideia, Brescia 1976, p. 87.

33 In Mc 10,47s. è usato solo in una pericope (quella del cieco Bartimeo), copiata da Lc 18,38s. È invece Matteo che ci tiene a qualificarlo con questo termine, sin dal primo versetto (1,1), ma lo fa esclusivamente per far capire che le sue guarigioni miracolose erano così straordinarie che un popolo diverso da quello ebraico non avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo nella sua funzione messianica e nella sua natura divina. Quindi l’uso del termine ha sempre un fine antisemitico.

34 Si noti che Davide, prima di diventare re, era stato un bandito o un brigante, che aveva a disposizione circa 400 uomini (1 Sam 22,2). Furono gli anziani delle tribù israelitiche a pretendere che diventasse un sovrano in grado di eliminare la fastidiosa presenza filistea.

35 In Gv 7,14 è scritto: “Come mai costui conosce le Scritture senza aver studiato?”. Certo, la domanda è stata scritta per far capire che il Cristo, avendo una natura divina che lo rendeva onnisciente, non aveva bisogno di studiare. Però è indicativa del fatto che tra i leader nazareni, sempre costretti a confrontarsi con gli avversari politici, non potevano esserci degli analfabeti.

36 Tra i suoi seguaci dovevano esserci molti contadini, poiché la società descritta nei vangeli è fondamentalmente rurale, e dovevano essere disposti ad armarsi e a sopportare qualunque tipo di sacrificio, come già avevano fatto al tempo della rivolta maccabaica.

37 Il cristianesimo, un’invenzione di “san” Paolo, UnoEditori 2017, p. 41.

38 Non è forse stato così che gli Stati Uniti si sono sostituiti a spagnoli e portoghesi in America Latina e a francesi e inglesi in Medio oriente, sfruttando le grandi risorse naturali ed energetiche di queste due importanti aree geografiche del mondo?

39 Alla sua morte una delegazione dell’aristocrazia laica e sacerdotale si recò a Roma, lamentandosi che aveva dissanguato il Paese.

40 Appena subentrato al padre, Archelao dovette affrontare una delegazione giudaica che gli chiedeva di ridurre l’insopportabile carico fiscale, di liberare i prigionieri politici e di rimuovere il sommo sacerdote erodiano. Ma lui si fece prendere dal panico e sterminò migliaia di persone mentre svolgevano funzioni religiose a Gerusalemme.

41 A Cesarea marittima Pilato disponeva di cinque coorti di fanteria (2.500-3.000 effettivi) e di un reggimento di cavalleria (120-150 unità). La sua prefettura di Giudea e Samaria apparteneva alla provincia di Siria, il cui governatore, insieme allo stesso Pilato e in accordo col Sinedrio, sceglieva il sommo sacerdote di Gerusalemme. Ovviamente Pilato era alle dipendenze del governatore della Siria.

42 Lo stesso titolo di “figlio dell’uomo” va preso con le pinze, poiché nei vangeli viene usato per dimostrare che il Cristo doveva portare a compimento delle profezie veterotestamentarie di natura teopolitica.

43 Naturalmente l’umanesimo laico esisteva già in Italia prima della riforma protestante, tant’è che considerava quella riforma una battaglia di retroguardia, irrilevante proprio perché condotta in termini religiosi. Tuttavia l’umanesimo italico non avrà mai la forza politica per imporsi sulla Chiesa romana, anzi il papato, con la controriforma, lo farà completamente sparire di scena, almeno sino a quando non s’imporrà il processo dell’unificazione nazionale.

44 Si noti come nella pericope giovannea (cap. 11) l’autore usi il verbo koimaomai (che letteralmente vuol dire “addormentarsi”) come eufemismo per descrivere la morte. Quindi bisogna dare per scontato che Lazzaro fosse morto e che non ha senso parlare di resurrezione, né ha senso il v. 12,9s. che descrive l’intenzione delle autorità giudaiche di far fuori anche lui. Anche il verbo sōizō (che vuol dire “salvare”) è usato in maniera ambigua, in quanto può anche voler dire “liberare”, e non è detto che voglia dire “liberare dal peccato”, poiché, riferito a Lazzaro, non avrebbe avuto senso. È stato aggiunto da un redattore che, dopo aver accettato la tesi del Lazzaro redivivo, si sarà chiesto il motivo per cui Lazzaro non fosse presente a Gerusalemme. Ha aggiunto falsità a falsità.

45 Banditi, profeti e messia, op. cit.

46 Scrivono R. A. Horsley – J. S. Hanson: “Gli Asmonei, in origine capi della rivolta popolare contro l’élite ellenizzante, erano usurpatori, non sadociti, della carica sommosacerdotale. Alcune tra le famiglie dell’aristocrazia sacerdotale che Erode portò al potere non erano nemmeno costituite da giudei di Palestina, ma potenti famiglie della diaspora: nonostante questo ebbero il monopolio delle maggiori cariche sacerdotali fino al momento della rivolta” (del 66-70), in Banditi, profeti e messia, o.c., p. 99.

47 Alcuni esegeti però sostengono che il termine “Magdala” indichi un’origine nobile, addirittura sacerdotale, e che quindi l’unzione fatta a Gesù non presupponesse solo uno stretto legame tra Gesù e la Maddalena, ma anche il diritto che lei aveva di considerarlo un “messia” a tutti gli effetti. Questo però potrebbe valere anche per la sorella di Lazzaro.

48 In Gv 6,71 viene chiamato “figlio di Simone Iscariota”, come se si trattasse di un semplice cognome e non una specifica connotazione. Forse voleva distinguerlo da un altro Giuda (Taddeo) presente tra gli apostoli. Semmai è Lc 22,3s che lo definisce come l’appellativo “Giuda detto Iscariota”, il che ha fatto pensare a molti esegeti ch’egli si riferisse alla parola “ekariot” (“sicario”), come se Luca potesse avere, lui che era di origine pagana, una preoccupazione del genere. Lo stesso però fa con “Simone detto zelota” (6,15). Oggi alcuni esegeti ritengono che il nome Iscariota voglia dire “uomo di Kariot”; altri invece pensano che potrebbe derivare dal persiano “Isk Arioth”, ovvero “colui che serve” o “colui che sa”. Di sicuro non indica un’appartenenza al partito dei sicarii, poiché questi sono nati durante la procura della Giudea di Marco Antonio Felice (52-60 d.C.).

49 Se Pilato fosse stato un senatore avrebbe gestito una provincia senatoria, molto più tranquilla di quelle imperiali, sempre presidiate da forti contingenti di truppe. Invece era una specie di self made man, che aveva fatto carriera grazie ai suoi rapporti con Tiberio o con Seiano (numero due dell’impero e fautore di una politica antiebraica), tant’è che a Cesarea aveva fatto erigere un edificio chiamato Tiberieum. Tuttavia Seiano nel 31 venne fatto fuori da Tiberio perché sospettato di tradimento, ed è evidente che ciò aveva indebolito la posizione di Pilato.

50 Nello stesso anno Vitellio destituì anche il sommo sacerdote Caifa, probabilmente perché il cristiano Stefano era stato linciato senza alcun processo.

51 Solo a partire dall’età di Claudio il prefetto, diventando procuratore, gestiva anche l’amministrazione finanziaria.

52 Oltre a Legatio ad Gaium ci è pervenuto solo Flaccum, che insieme facevano parte di Peri toon Aretoon, in cinque libri che narrano le vicende dei rapporti tra Israele e l’impero romano nel I sec. Pur essendo stato un testimone oculare a Gerusalemme, Filone non dice una parola su Gesù Cristo. Ma questo non significa che gli eventi narrati nel Nuovo Testamento non siano reali o storici. Filone può averne parlato nei tre libri scomparsi, oppure è possibile che sia stato censurato dai redattori cristiani nei due libri superstiti (com’è avvenuto nei testi di Giuseppe Flavio). Il fatto che i vangeli canonici non siano storicamente o umanamente attendibili non autorizza a pensare che, siccome le fonti non cristiane non parlano delle medesime vicende, allora ciò che i vangeli dicono è frutto di mere invenzioni. Una cosa è “inventarsi” con la fantasia cose mai accadute; tutta un’altra è mistificare o falsificare teologicamente cose politiche realmente accadute.

53 Da notare che in nessuna parte dell’impero romano di duemila anni fa vi era una resistenza così accanita contro Roma come quella condotta da parte delle popolazioni ebraiche (per lo più contadine) della Palestina.

54 Naturalmente la parte del finto ingenuo che non sa nulla di Gesù, poteva recitarla solo davanti al popolo. Le autorità giudaiche sapevano bene che anche lui lo voleva morto. Non a caso mandò la coorte sul Getsemani in funzione di supporto alle guardie del Tempio per arrestarlo. Senonché i vangeli, essendo filoromani e antisemitici, fanno passare Pilato proprio per uno che non avrebbe voluto condannare Gesù, non trovando in lui alcuna colpa di tipo politico.

55 Anche il termine “Barjiona” dato a Simon Pietro, dal significato originario di “latitante”, lo ritroviamo trasformato dall’aramaico in greco in “figlio di Giona”. Sapendo che in aramaico “bar” significa “figlio”, i redattori cristiani ricavarono “figlio di Giona”, separando “bar” da “Jona”, con l’accortezza di scrivere bar in lettera minuscola e Jona in lettera maiuscola per farlo diventare nome proprio di persona: Simone Barjiona – Simone bar Jona – Simone figlio di Jona. Peraltro la parola “bar”, nel significato di “figlio”, si trova nel testo greco soltanto davanti a “Giona”, mentre in tutti gli altri casi viene giustamente tradotta con “fios”. Nella versione latina “bar Jona” viene tradotto con “filius Jonae”. Anche Simone il Cananeo (della città di Cana) si sarebbe in realtà dovuto tradurre come il “Qananite”, cioè “rivoluzionario”, stando almeno all’aramaico.

56 Alcuni esegeti sostengono che entrambi si chiamassero con lo stesso nome “Gesù”. Ma anche se fosse, non cambierebbe nulla. Per Pilato Gesù era il “Nazareno”, in riferimento non alla cittadina di “Nazareth”, ma al fatto che portava barba e capelli lunghi. Di sicuro il titolo di “figlio del padre” non ha alcun senso, tanto meno quello di “figlio di Dio” inteso in via esclusiva. Rifiutiamo l’idea simbolica che il nome “Barabba” sia stato inserito dai redattori per far vedere che i cristiani, pur essendo peccatori (e quindi meritevoli di condanna a morte), vengono salvati (graziati) dalla morte di Gesù. Inoltre tendiamo nettamente a escludere che Gesù abbia mai chiamato Jahvè col nome di “Abba”, cioè “Padre”.

57 Da notare che un’antica tradizione (che a me pare realistica) afferma che la Maddalena si sarebbe recata insieme a Maria madre di Gesù e all’apostolo Giovanni a Efeso, dove poi sarebbe morta. Quindi in realtà sulla croce non avrebbe soltanto affidato la madre all’apostolo, ma gli avrebbe anche detto di prendere con sé la Maddalena. I due migliori apostoli avrebbero dovuto continuare a stare insieme.

58 Si basi che il genere umano non è mai uscito dallo schiavismo, avendone solo modificato le forme e i modi.

59 Alcuni esegeti sostengono che l’etimologia della parola “nazareno” significhi “guardiani dell’alleanza”, cioè “coloro che proteggono il nascosto”, che in sostanza sarebbe un altro nome degli esseni. Tra questi “nazireo” corrisponde anche a “maestro”.

60 P. Ricoeur sostiene che la risurrezione è una metafora, il cui significato non è di dire una cosa diversa dalla realtà, ma di dire, della realtà, quello che non si può dire in modo diverso. Questo è un ragionamento sbagliato, poiché il concetto di “resurrezione” è in realtà un’interpretazione arbitraria di un evento reale (la tomba vuota), di fronte al quale nessuno poteva essere sicuro di niente. Anche perché l’idea che il Cristo sia riapparso è del tutto inventata. Il movimento nazareno non aveva bisogno di una metafora ma di un leader che sostituisse Gesù sul piano politico.

61 A ciò l’apostolo Paolo aggiungerà che Dio, col sacrificio del figlio, voleva in realtà perdonare tutte le colpe dell’intero genere umano, che dai tempi del peccato originale non è più in grado di compiere il bene.

62 Non a caso il vangelo apocrifo di Filippo arriva a dire: “La compagna del Salvatore è Maria Maddalena. Cristo l’amava più di tutti gli altri discepoli e soleva spesso baciarla sulla bocca”. Il che contraddice il voto di nazireato. Ma è difficile pensare che un ebreo, in una società moralista come quella, potesse fare in pubblico una cosa del genere.

63 I dati cronologici di Luca non sono quasi mai attendibili: p.es. in At 5,36s. fa dire a Gamaliele che Teuda fu ucciso prima di Giuda il Galileo, quando quest’ultimo fu ucciso nel 7 d.C. al tempo del censimento, mentre Teuda nel 46 da Cuspio Fado, primo procuratore romano della Giudea.

64 David Donnini sostiene che Gesù abbia abitato a Gamala, a 8 km da Betsaida, nella regione del Golan, patria della famiglia di Ezechia, padre di Giuda il Galileo, dove effettivamente esiste una sinagoga su un’altura, da cui cercarono di far precipitare Gesù. A Nazareth, posta in pianura a 30 km dal lago di Tiberiade, non sono state trovate tracce di alcuna sinagoga. Quindi Lc 4,16 non sa quel che dice, come d’altronde spesso avviene quando fa riferimenti di tipo geografico. Tuttavia, se si fa nascere Gesù a Gamala, lo si equipara a uno zelota. E io mi chiedo come avrebbe potuto uno zelota dire alla samaritana: “La salvezza viene dai Giudei” (Gv 4,22).

65 Questa è una tesi di Francesco Esposito in Il Cristo illegittimo, UnoEditori 2018, p. 116.

66 Nel mito della partenogenesi generalmente sono gli uomini a nascere così: uomini eccezionali, eroi, guerrieri, profeti, sovrani, divinità... Forse il mito serviva per giustificare il dominio di un monarca sul popolo, o il dominio dell’uomo sulla donna, in quanto questa viene ridotta a mera fattrice.

67 Rifiuto completamente l’idea, avanzata da alcuni esegeti (p.es. Ralph Ellis), che, siccome nei loro corpus letterari si trovano episodi analoghi, Paolo e Giuseppe Flavio sono la stessa persona.

68 J. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I, 1, ed. Paideia, Brescia 2006, p. 113.

69 L’unico libro che ho scritto è Cristianesimo primitivo. Dalle origini alla svolta costantiniana (ed. Amazon).

70 Naturalmente prima di Reimarus vi fu Spinoza a mettere in discussione le verità della Bibbia, cioè a dire che i miracoli non esistono, che gli eventi storici vanno interpretati in chiave metaforica, che la fede va tenuta separata dalla ragione, che la parola “dio” non è che un equivalente della parola “natura”, che religione e superstizione si equivalgono, e così via. Tuttavia, essendo egli un ebreo, trovò più stimolante prendere in esame l’Antico Testamento. Riguardo a Cristo rifiutava i dogmi dell’incarnazione e della resurrezione, anche se lo apprezzava molto come maestro di vita.

71 La stessa parola “scienza” per me non ha alcun senso, poiché non esiste nulla di inoppugnabile, nulla che possa prescindere dalla valutazione della coscienza.

72 J. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, ed. Queriniana, Brescia 2002.

73 Tra le fonti apocrife una delle più demenziali è il vangelo di Giuda, in cui l’autore è convinto che tra Gesù e Giuda ci fosse un’intesa a favore dell’autoimmolazione.

74 La tesi fondamentale di Reimarus si riduce alla seguente: la nascita del cristianesimo si basa su un falso storico, determinato dal fatto che Gesù pensava di essere il messia liberatore degli ebrei dal dominio romano; ma dopo il fallimento della sua missione i discepoli avrebbero rubato il suo cadavere, inventato l’annuncio della sua risurrezione e creato una nuova religione. Quindi tra il Gesù in quanto messia politico (il Gesù della storia) e il Cristo descritto dai vangeli (quello teologico) esiste una netta discontinuità. Fu il primo a dire che il vangelo andava spiegato solamente alla luce dei criteri storici (analogia historica), escludendo ogni analogia legata alla tradizione ecclesiastica o alla riflessione teologica.

75 Lo “Jesus Seminar” di Berkeley (suddiviso in tre fasi: Detti di Gesù 1985-91; Azioni di Gesù 1991-96; Profili di Gesù 1996-98) presentò Gesù come un saggio ebreo-ellenistico itinerante che non morì in remissione dei peccati né risorse dai morti né fece alcun miracolo, ma predicò un “vangelo sociale” per parabole e aforismi. Non si riferiva a se stesso né come messia né come figlio di Dio. Era nel fondo un filosofo nello stile dei cinici, nel senso che non ha predicato politicamente un regno di Dio, né una prossima fine del mondo: ha solo pronunciato massime sapienziali nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza di sé e la convinzione che il regno di Dio sarebbe stato un’esperienza interiore da realizzarsi nel presente. Fu giustiziato perché ritenuto un pericolo pubblico. La risurrezione si basa sulle esperienze visionarie di Pietro, Paolo e Maria Maddalena. Come noto, infatti, il Seminario è molto critico verso i racconti canonici.

76 L’Iliade di Omero è preservata in poco più di 600 manoscritti. Euripide in meno di 400. Gli Annali dello storico Tacito sono sopravvissuti in un unico manoscritto del IX sec. d.C. Molti scritti di autori antichi sono giunti a noi grazie a isolati manoscritti medievali. Viceversa, abbiamo circa 6.000 manoscritti contenenti in tutto o in parte il Nuovo Testamento originale, quindi in greco. A questi dovremmo aggiungere i manoscritti delle varie traduzioni (oltre 8.000 solo per la Vulgata) e dei lezionari. Le problematiche della ricostruzione del testo del Nuovo Testamento nascono paradossalmente dal fatto che si hanno troppe prove da raccogliere e comparare.

77 L. W. Hurtado, Signore Gesù Cristo, ed. Paideia, Brescia 2007, p. 643.

78 Non si obietti qui che Giuseppe rappresentava, a differenza dei leader zeloti, la “coscienza realistica” della netta inferiorità militare degli ebrei rispetto alla potenza romana. Le guerre non si vincono solo con le armi, ma anche con tattica, strategia e coraggio umano. La sconfitta degli ebrei è dipesa soprattutto da motivi endogeni, non perché il nemico fosse militarmente più forte. Il che non vuol dire che in assenza di una visione concertata o di un comando centralizzato della resistenza antiromana, la resa di Giuseppe vada considerata come un tradimento. In fondo anch’egli avrebbe potuto essere ucciso: quando tutto era perduto, a Jotapata, si rifugiò in una cisterna con alcuni compagni, e finì per consegnarsi al nemico, dopo che tutti gli altri, eccetto l’ultimo rimasto insieme con lui, si erano dati reciprocamente la morte. Chi rifiuta di suicidarsi non può essere considerato un traditore. Il che però non vuol neppure dire che i resoconti di Giuseppe possano essere considerati obiettivi. La sua partecipazione alla guerra lo portò ad attribuire totalmente agli zeloti la tragedia dei Giudei, quando invece non meno responsabilità l’ebbero l’aristocrazia laica ed ecclesiastica, il partito moderato dei farisei, quello remissivo del neonato movimento cristiano, su posizioni molto regressive rispetto al movimento nazareno del Cristo.

79 Per es. Ken Olson, A Eusebian Reading of the Testimonium Flavanium, ma anche E. Schürer, H. Chadwick e Alice Whealey. La ricostruzione fatta da John P. Meier, approvata da B. Ehrman e J. Dunn, è ridicola (Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico): p.es. ha mantenuto l’espressione “opere sorprendenti”, dando per scontato che Flavio potesse credere al Gesù taumaturgo e ai suoi miracoli, così come vengono raccontati dai vangeli, che di storico, in queste pericopi, non hanno nulla.

80 La sua Storia ecclesiastica (in cui viene riportato il Testimonium) fu un modello di riferimento storiografico per tutte le successive storie religiose del cristianesimo primitivo, dalle origini a Costantino.

81 Scrivono R. A. Horsley – J. S. Hanson: “Giuseppe dice poco sul periodo che si apre con la deposizione ad opera dei romani di Archelao, figlio di Erode nonché suo successore in Giudea, e si chiude con la fine del regno di Agrippa I (6-44 d.C.)” (op. cit., p. 104). È un caso o è stato censurato dalla Chiesa cristiana?

82 Attenzione che questo non vuol dire che quelle ingenuità non possano ripetersi anche oggi: non tanto in riferimento ai vari santoni o visionari o taumaturghi che di tanto in tanto si ripresentano, quanto in riferimento all’uso tecnologico della nostra rivoluzione scientifica, spesso sbandierata come un deus ex-machina in grado di risolvere tutti i problemi. Alla fine son solo le forme che cambiano, benché in questo l’occidente sia culturalmente più avanzato di altre culture mondiali, avendo saputo laicizzare molto bene la mistificante teologia petropaolina.

83 Cfr Was Jesus a Political Revolutionary?, in “Annali di Storia dell’Esegesi”, 36, 2 (2019), pp. 453-468. Ma la tesi si trova anche in vari libri, p.es. La morte di Gesù. Indagine su un mistero, ed. Rizzoli, Milano 2014. Il sito di Mauro Pesce è www.mauropesce.net/IT/

84 Io chiamo “movimento nazareno” quello di Gesù per distinguerlo da quello “cristiano” guidato a Gerusalemme da Pietro e Giacomo il minore e poi da Paolo al di fuori della Palestina.

85 Scrisse un’opera intitolata Apologia degli adoratori razionali di Dio, pubblicata postuma da Gotthold Ephraim Lessing in sette frammenti, uno dei quali era intitolato Von dem Zwecke Jesu und seiner Junger (Dello scopo di Gesù e dei suoi discepoli. Un altro frammento dell’anonimo di Wolfenbüttel, 1778). In italiano: I frammenti dell’Anonimo di Wolfenbüttel pubblicati da G. E. Lessing, ed. Bibliopolis, Napoli 1977.

86 A dir il vero la posca che i soldati gli diedero da bere era un miscuglio di aceto e bile. Pur essendo amarissima aveva un effetto sedativo, ipnotico e disinfettante, ma di sicuro non portava a dormire, tant’è che i Romani la usavano nelle lunghe marce e gli schiavi quando facevano i lavori pesanti. Altri esegeti ritengono che la posca fosse soltanto dell’acqua mischiata ad aceto, con l’aggiunta di spezie e miele per migliorarne il sapore: l’acido acetico veniva usato perché si era scoperto che aveva un leggero effetto anti-batterico. Tutto qui.

87 Nel libro del profeta Ezechiele, risalente all’esilio babilonese (586-539 a.C.), si parla della sua visione delle ossa dei morti e del potere di Dio di farli risorgere e di vuotare i sepolcri.

88 Lo stesso autore parla del movimento nazareno come “ideologicamente affine alla Quarta filosofia”.

89Si potrebbe addirittura sostenere che la guerra del 66-70 sia stata condotta in maniera estremistica dagli zeloti, proprio come reazione al conservatorismo dell’aristocrazia laica e sacerdotale, ch’era riuscita a impedire, con l’aiuto dei Romani, la rivoluzione democratica che avrebbe voluto compiere il movimento nazareno.

90 Secondo Weiss il cosiddetto “regno di Dio” era la convinzione che Gesù aveva circa una fine imminente della storia, e tutti gli insegnamenti etici dei vangeli furono aggiunti dalla Chiesa primitiva per rendere rilevante il suo insegnamento anche dopo che la fine del mondo non si verificò nel presente. Una tesi – come si può facilmente notare – del tutto mistica.

91 Le decime venivano raccolte dai leviti su tutto il territorio nazionale. Ma giungevano offerte al Tempio anche dalla diaspora.

92 Sotto i Seleucidi il tributo era 1/3 del grano e il 50% del vino e dell’olio.

93 Nell’antico Israele la legge mosaica impediva la perdita della terra per indebitamento, tant’è che ogni sette anni i debiti venivano condonati e gli schiavi affrancati. Ogni 50 anni (per il giubileo) ognuno veniva reintegrato nella proprietà familiare originaria (Es.21,2; Dt 15,1ss; Lv 25,8-24.35ss).

94 A volte si ha l’impressione che le cifre riportate da Giuseppe siano inverosimili. Purtroppo non si ha modo di metterle a confronto con altre fonti.

95 Si noti, in tal senso, come sia profondamente sbagliato sostenere che i Romani fossero molto tolleranti in campo religioso. Lo erano solo nel senso che accanto alle divinità diverse dalle proprie vi fossero anche le loro. Peraltro proprio in questo periodo avevano iniziato a pretendere che lo stesso imperatore venisse riconosciuto come una sorta di divinità. La religione ch’essi professavano è sempre stata considerata uno strumento al servizio del potere politico, anche nel caso in cui venisse ereditata da tradizioni straniere, non di origine latina.

96 Alcuni esegeti identificato questo Menahem con Menahem l’Esseno.

97 Erode Agrippa II fu l’ultimo sovrano del dinastia erodiana. Aveva il diritto di sovrintendenza al Tempio di Gerusalemme e poteva nominare il suo sommo sacerdote, ma dopo essere stato rovesciato dai suoi sudditi ebrei nel 66, sostenne sempre la parte romana nel prima guerra giudaica. Famoso il suo discorso, riportato da Giuseppe Flavio, con cui cercò, vanamente, d’impedire ai Giudei di ribellarsi ai Romani. Dopo la caduta di Gerusalemme si recò con la sorella Berenice a Roma, dove fu investito della dignità di pretore e ricompensato con territori aggiuntivi. Dopo la sua morte, intorno al 93-94, il suo regno fu trasformato in provincia romana.

98 Vespasiano disponeva di tre legioni (15.000 armati), 23 coorti (20.000 armati), sei ali di cavalleria (6.000 armati) e 15.000 truppe alleate (di Erode Agrippa II, Antioco IV Epifane di Commagene, Soemo di Emesa in Siria e del re nabateo Malco II), per un totale di circa 60.000 militari. Nonostante ciò trovò molta difficoltà a conquistare Jotapata; anzi fino al 69 non riuscì a imporsi. Poi, richiamato a Roma, lasciò al figlio Tito il compito di occupare Gerusalemme. Vespasiano poi deporrà Antioco IV nel 72 perché accusato di tramare coi Parti, annettendo il “regno cliente” all’impero. Quanto a Malco II, i Romani gli faranno poi perdere il controllo della città di Damasco.

99 Yosef ben Matityahu (figlio di Mattia) prese il nome di Tito Flavio Giuseppe dopo essersi arreso ai Romani durante la prima fase della guerra giudaica (66-70). Nato a Gerusalemme verso il 37-38, nel primo anno di regno dell’imperatore Caligola, da una famiglia della nobiltà sacerdotale israelita, imparentata con la dinastia degli Asmonei, morì verso il 100. Era un fariseo, scrisse le sue opere in maniera tendenziosa, in quanto si mise dalla parte dei Romani contro gli zeloti. I suoi scritti sono la principale fonte d’informazione che abbiamo sulla Giudea del I sec. Tutto quanto scrisse su Gesù Cristo viene considerato aggiunto o interpolato o addirittura rimosso da redattori cristiani.

100 Erode Agrippa II aveva perso la tetrarchia di Calcide nel 53, ma solo perché gli fu affidato un regno più vasto, che comprendeva la Batanea,·la Traconitide e regioni verso il Libano, cui altre ne aggiunse in seguito Nerone per i suoi servigi antigiudaici.

101 Akrabatene fu attaccata in precedenza da un altro leader zelota giudaico, Eleazar figlio di Dinai, che vendicò alcuni Galilei uccisi in Samaria dai Samaritani mentre erano diretti a Gerusalemme per una festività religiosa. Il procuratore Marco Antonio Felice riuscì nel 54 a catturare Eleazar e la sua banda, mandandoli in catene a Roma. Il primo procuratore della Giudea romana, Cuspio Fado (44-46), dovette dimettersi, poiché aveva sottovalutato il problema. Eliminò comunque il ribelle Teuda nel 46, citato negli Atti degli apostoli con una cronologia errata. Il suo successore Tiberio Alessandro (46-48) eliminò Giacomo e Simone, figli di Giuda il Galileo.

102 Fu colui che ordinò la lapidazione di Giacomo fratello di Gesù (detto il Giusto). Siccome aveva convocato il Sinedrio senza il permesso del procuratore romano Albino, in quel momento assente, il re Erode Agrippa II decise di deporlo e di sostituirlo con un altro sommo sacerdote, Jesus figlio di Damneo.

103 Di sicuro gli ebioniti (detti anche nazorei, nazarei, nazareni) possono essere considerati l’ultimo resto della comunità giudeo-cristiana che a Gerusalemme era guidata da Giacomo il Giusto. Rifiutavano la teologia paolina e, come testo base del loro cristianesimo, si riferivano al vangelo di Matteo. Quando Ireneo di Lione, in Contro gli eretici, dice che non avevano una conoscenza esatta del Cristo, intende appunto dire che non erano abbastanza “ellenici”. Il fatto che nell’Apocalisse di Pietro prendano le difese di quest’ultimo contro Paolo non vuol dire che la loro teologia fosse “petrina”, poiché già questa non era esattamente in linea con quella di Giacomo il Giusto.

104 Sotto Marco Aurelio la tassazione condurrà di nuovo gli Egiziani a una rivolta (139), la cui dura repressione causerà l’inizio del declino economico dell’Egitto.

105 “Ben” vuol dire “di” o “figlio di”.


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