KANT ATEO?

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KANT ATEO?
Analisi delle Prefazioni alla prima Critica

KANT ATEO

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Premessa

Per tutta la sua vita Kant ha cercato una conoscenza sicura, che prescindesse dall'esperienza molteplice delle cose. La svolta l'ebbe negli anni 1768-69, osservando che lo spazio e il tempo potevano essere condizioni universali della sensibilità e quindi forme a priori dell'intuizione sensibile, e non semplicemente delle categorie dogmatiche per interpretare l'universo, come faceva Newton, del quale comunque ammirava l'intera opera.

Da allora e sino al 1781, in cui apparve la Critica della ragion pura, egli si dedicò all'idea di dimostrare che non soltanto l'astronomia, la matematica, la geometria, la fisica erano "scienze", ma anche la metafisica, anzi questa "rendeva ragione" della scientificità di tutte le altre. La sua filosofia trascendentale si poneva con molta pretenziosità.

Non è stato quindi secondario il fatto ch'egli abbia iniziato la sua Critica elaborando anzitutto una "Estetica trascendentale" in cui i due elementi fondanti sono appunto lo spazio e il tempo. (La definizione di "estetica trascendentale" era stata presa da A. G. Baumgarten che l'aveva indicata come "scienza della conoscenza sensibile").

A dir il vero Kant si pose come compito, nella prima Critica, di dimostrare che la metafisica tradizionale non poteva in alcun modo essere "scientifica", in quanto troppo condizionata da presupposti teologici, che sono in sé indimostrabili. Una metafisica può essere "scientifica" soltanto quando si basa su "intuizioni sensibili" - spiega Kant -, che a loro volta producono "concetti", ovvero le leggi a priori con cui l'intelletto interpreta la realtà.

La conoscenza non è data da una "rivelazione" ma dall'esperienza, che è un insieme di sensibilità e di intuizioni (e l'estetica trascendentale che le tratta è appunto il regno dei sensi intellettuali, che nella sostanza si riducono a due: spazio e tempo). Tuttavia, perché questa esperienza sia davvero "scientifica", deve basarsi oggettivamente su condizioni universalmente valide e necessarie. Ed è appunto questo che fa la sua prima opera, della famosa trilogia, criticare la "ragion pura" della teologia o della metafisica religiosa, al fine di poter fondare una nuova metafisica, diciamo più "laica", in cui il soggetto principale dell'agire cognitivo (che poi in Kant diventa "agente della realtà", suo costruttore ideale) non è dio ma l'uomo.

Kant ha cercato di porre le basi del moderno ateismo, restando rigorosamente entro l'ambito della metafisica. Questa scelta di campo è importante perché non trova equivalenti nel resto d'Europa, dove nel Settecento si preferiva parlare di ateismo in rapporto a problematiche di tipo politico, culturale, sociale... In tal senso la Francia appariva molto più avanti rispetto alla Germania: argomenti metafisici come quelli kantiani pensava di averli già trattati a sufficienza con Cartesio (come d'altra parte il Regno Unito coi vari filosofi empiristi e deisti).

Quella di Kant è una prolissa e complessa trattazione volta a dimostrare che la teologia (diretta, come quella della chiesa, o indiretta, come quella dei filosofi, da Platone a Leibniz) non poteva avere alcuna scientificità. La differenza tra il Kant "pre-critico" (quello fino alla Dissertazione accademica del 1770) e quello "critico" sta appunto nel fatto che nella fase giovanile la passione per le scienze esatte non svolgeva direttamente un'operazione "critica" nei confronti della teologia; il suo era, per così dire, un ateismo implicito; viceversa, a partire dalla suddetta Dissertazione, con cui inaugura il proprio insegnamento di Logica e metafisica, la critica è diretta e viene tollerata dal governo prussiano solo perché - a differenza della Francia - in Germania essa non veniva collegata ad un'attività politica anticlericale.

Basterà tuttavia che l'influsso della rivoluzione francese si faccia sentire in maniera palese sulle istituzioni germaniche, che subito verrà intimato a Kant di non proseguire nella sua opera di demolizione dei fondamenti della teologia. Praticamente dal 1793 al 1797 la censura di stato gli impedirà di scrivere qualunque cosa contro la religione (come noto, il testo maggiormente incriminato era La religione nei limiti della ragione).

Può sembrare paradossale che il teorico del "noumeno" o della "cosa in sé", che tanto somiglia al vecchio concetto di "dio", possa essere considerato uno dei fondatori del moderno ateismo, tanto più che il Kant della seconda Critica, quella della ragion pratica (l'etica), si porrà in contraddizione coi risultati raggiunti nella prima Critica. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che qui si ha a che fare con un intellettuale che aveva deciso di diventare docente universitario: sarebbe stato impossibile manifestare un ateismo "chiaro e distinto" in presenza di una chiesa più o meno di stato o comunque di uno Stato più o meno confessionale.

La Prussia illuministica, quella dei cosiddetti "sovrani illuminati" (p.es. alla Federico II, che visse negli anni centrali della formazione kantiana: 1740-86), che non avrebbero più voluto una nuova tragicissima guerra di religione (1618-48), che ridusse di due terzi la popolazione tedesca, era una nazione che, pur molto conservatrice sul piano politico, in quanto disposta a concedere assai poco ai ceti borghesi, tollerava che a livello accademico (quel livello che in fondo le dava lustro in Europa) gli intellettuali manifestassero un certo libero pensiero, ben sapendo che il monopolio della cultura (specie quella scolastica) era detenuto dalla chiesa protestante. Peraltro il linguaggio di questi accademici era così ostico e, per molti versi, astruso che difficilmente avrebbe fatto presa sulla gioventù studiosa e men che meno sulla gente comune. Lo stesso Kant, nelle sue Prefazioni alla prima Critica (quella in assoluto più impegnativa), non ritenendola adatta "all'uso del popolo", rinunciò all'idea di corroborare le sue tesi con molti esempi illustrativi, anche se poi dovette convincersi a scrivere vari testi più semplificati dell'opera (p.es. i Prolegomeni del 1783).

Prima però di analizzare le Prefazioni alle prime due edizioni della Critica della ragion pura, facciamo un breve inquadramento del dibattito culturale (filosofico) immediatamente precedente o coevo al periodo in cui Kant s'è formato.

Excursus filosofico

Kant non è stato un'improvvisa meteora caduta dal cielo. Prima di lui altri intellettuali tedeschi avevano cercato di dare un contenuto scientifico alla metafisica, prescindendo dalla teologia o dalla dogmatica a sfondo religioso, o comunque tenendone conto solo in ultima istanza.

Il primo fu Leibniz (1646-1716), che cominciò a chiedersi se la ragione potesse ipotizzare dei fatti prevedibili andando oltre la semplice abitudine all'osservazione, di cui aveva parlato lo scettico Hume. I sensi, di per sé, non possono essere considerati sufficienti a fornire delle conoscenze necessarie; occorre un'azione correlata da parte dell'intelletto, al cui interno deve esistere qualcosa di aprioristico (le "prime possibilità" di un concetto), che si avvale del principio di non-contraddizione; e occorre anche che l'intelletto si convinca che le cose accadono per una precisa ragione di fatto (principio di "ragion sufficiente"). In tale maniera egli poneva le basi di un'esigenza interpretativa della realtà che trovava nella logica e non nella tradizionale speculazione dogmatica la propria ragion d'essere. La sua logica tuttavia fu più matematica che metafisica. Infatti Leibniz viene considerato un antesignano del calcolo automatico.

C. Thomasius (1655-1728) opponeva il senso comune all'intolleranza religiosa (inclusa quella inerente al confessionismo statale) e difendeva il diritto alla libertà di ricerca in ogni campo.

L'altro suo contemporaneo, il maggior filosofo sistematico del Settecento prima di Kant, C. Wolff (1679-1754), propose per l'esame delle Sacre Scritture criteri analoghi a quelli per qualunque altro testo tramandato dalla tradizione ed era convinto che l'etica dovesse avere delle leggi universalmente valide, a prescindere dall'esistenza di dio. Per queste due posizioni era stato espulso come ateo dall'università di Halle.

E' importante sottolineare il fatto che tutti questi e altri filosofi si ponevano in maniera "eversiva" solo sul piano dei ragionamenti astratti, in quanto sul piano politico non mettevano in discussione la loro obbedienza alle istituzioni pubbliche. In Prussia si avrà il coraggio per così dire di "alzare la testa" contro lo Stato soltanto quando vi entrerà Napoleone coi propri eserciti.

Contro le astrattezze del sillogismo A. Rüdiger (1673-1731) inventò il concetto di "giudizio sintetico a priori", con cui, dopo aver messo in relazione un singolo soggetto coi tanti predicati possibili della realtà, si potevano formulare nuovi enunciati. Kant farà sua questa idea.

G. E. Lessing (1729-17881) sosteneva che la conoscenza intuitiva e simbolica precede quella logica, essendo più universale e, sulla base di questo, egli si opponeva all'autoritarismo politico e religioso. La religione infatti poteva al massimo avere una funzione pratica, come educazione ai costumi, ma, ponendosi come dogmatica sul piano logico, non poteva in alcun modo far sviluppare la ricerca.

L'inizio di una lettura laica del Nuovo Testamento risale all'opera di H. S. Reimarus (1694-1768), che arrivò a considerare spurio tutto quanto aveva le caratteristiche di soprannaturalità. Anche J. G. Herder (1744-1803) aveva rifiutato l'origine divina del linguaggio.

Tutti questi filosofi, proprio perché eredi della guerra trentennale tra cattolici e protestanti, erano arrivati alla conclusione che sarebbe stato meglio non permettere alla chiesa di dare un'interpretazione esclusiva o unilaterale alla questione religiosa, specie nel suo modo di rapportarsi alla conoscenza in generale.

Persino un filosofo conservatore come F. H. Jacobi (1744-1819) può aver influenzato in qualche modo Kant, quando sosteneva come criterio di conoscenza l'assenso intuizionistico all'esperienza immediata e soprattutto quando negava che l'esistenza di dio potesse essere dimostrata con argomenti di tipo logico, i quali, inevitabilmente, l'avrebbero reso meno grande di chi lo pensava.

Oltre a questi filosofi in senso stretto vi erano anche gli intellettuali che si occupavano di matematica, di fisica e di scienze naturali, le cui indagini marciavano separate da quelle filosofiche e che prescindevano totalmente da questioni di tipo religioso o metafisico. La borghesia tedesca trovava più utile questo sviluppo del pensiero e i filosofi, ad un certo punto, dovettero prenderne atto e cercare una valida mediazione.

In questo tentativo di conciliare il meglio dello sviluppo scientifico con le tendenze laico-razionalistiche della metafisica si colloca l'intervento di Kant. Nella seconda metà del Settecento avevano preso a diffondersi in Germania anche i testi dell'empirismo inglese, che certamente concedevano assai poco alla metafisica in generale e ancor meno a quella orientata in senso religioso.

Kant dunque cercherà la sua sintesi servendosi dell'empirismo inglese, della fisica newtoniana e delle ricerche sulla logica fatte dalla scuola thomasiana.

Qui tuttavia si può osservare - facendone solo un breve cenno - che il Kant pre-critico era molto più "materialista" di quel che invece non appaia nella prima Critica, la quale, se è certamente un punto d'arrivo nell'architettura organica di un pensiero con pretese di esaustività, è anche vero però che, in taluni svolgimenti concettuali, presenta delle pericolose inversioni di tendenza a favore del misticismo, il quale non mancherà di condizionare pesantemente l'elaborazione delle due successive Critiche.

A titolo esemplificativo basterà osservare che la sua splendida teoria astronomica sulla nascita del sistema solare partiva dal presupposto secondo cui la materia è un ente vivente, dotato di assoluta autonomia di movimento, le cui leggi fondamentali sono quelle di attrazione e repulsione (nel caso del sistema solare vi è una dinamica di condensazione e dispersione). Herder, che nel 1762 ascoltava le lezioni accademiche di Kant, rimase così affascinato da questa teoria di lenta evoluzione naturale, totalmente priva di riferimenti religiosi, che ne parlerà sino alla pubblicazione, nel 1784, delle Idee per la filosofia della storia dell'umanità.

La prima Prefazione

Nella prima Prefazione (1781) Kant esordisce con una frase che è un capolavoro di tatto e diplomazia. Egli infatti, rendendosi conto d'aver scritto cose che potrebbero non piacere agli intellettuali credenti, mette subito le mani avanti, motivando l'esigenza che l'ha spinto a conclusioni così eterodosse. E la motivazione principale è squisita, umanissima, che anche un credente onesto e sincero avrebbe dovuto apprezzare: "La ragione umana... ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana"(p. 5).

Un credente avrebbe potuto obiettare che non serve a nulla tormentarsi, visto che già esiste una "rivelazione cristiana", che dà pace e sicurezza agli uomini di fede. Kant sa bene che obiezioni di tal genere possono provenire solo da chi gestisce il potere politico e culturale, cioè da quegli ambienti i quali, pur non essendo contrari, in via di principio, allo sviluppo tecnico e scientifico né alle ricerche di tipo filosofico, non amano chi mette in discussione, in qualsivoglia maniera, i principi religiosi acquisiti: scienza e filosofia non devono interferire con la teologia. Ecco perché è costretto a concludere quella frase preliminare, dicendo che la sua ricerca (sottinteso "laica") non approderà a certezze per quanto riguarda le domande che più interessano i credenti. Kant dovrà sempre cercare di conciliare le istanze ateistiche (o quanto meno agnostiche) implicite nelle sue ricerche con le pretese integralistiche dello Stato prussiano, anche a rischio di smentirsi, come purtroppo farà.

Indubbiamente s'egli fosse stato convinto delle "ragioni" della fede, non avrebbe scritto un'opera monumentale che lo vide impegnato ben 35 anni, al fine di cercare di risolvere razionalmente quelle contraddizioni umanamente insostenibili, così tipiche della teologia, nonché di tutte quelle metafisiche religiosamente ispirate o condizionate.

La Critica della ragion pura è un trattato di logica che si pone il compito di rifondare la metafisica su basi scientifiche, sostituendo l'impianto religioso (classico) con uno laico del tutto moderno. Oggi a noi può apparire che con la questione del "noumeno" Kant abbia fatto troppe concessioni alla teologia, ma non dobbiamo dimenticare che prima di lui nessun intellettuale tedesco si era spinto a considerazioni così critiche circa la fondatezza argomentativa del ragionare per presupposti dogmatici indimostrabili. La Riforma indubbiamente aveva smontato molte certezze del cattolicesimo-romano, ma senza mai mettere in discussione quelle fondamentali del Nuovo Testamento.

L'unico ad aver inferto un colpo demolitore alla versione edulcorata della figura di Cristo era stato H. S. Reimarus, che aveva già ipotizzato, sul piano storiografico, l'idea d'un Cristo politico, ma la sua opera dovette limitarsi a circolare manoscritta in Germania, e per molto tempo e solo tra studiosi di provata serietà, prima di essere data alle stampe (l'edizione definitiva del testo integrale porta la data del 1972!).

Era dunque inevitabile che nell'opera di Kant vi fossero delle ambiguità, quanto indotte dalle circostanze o intrinseche al suo argomentare non è sempre facile capirlo. Il "noumeno" - non ci sarebbe da stupirsene - può anche essere stato inventato per non esacerbare gli animi degli integralisti, permettendo a lui di continuare le sue ricerche. La successiva critica ateistica (quella di Feuerbach e della Sinistra hegeliana) se n'è infatti sbarazzata molto facilmente, evitando con cura di buttare il bambino con l'acqua sporca.

D'altra parte Kant pensa di essere intervenuto con la sua Critica nel momento giusto, in quanto la dogmatica religiosa era già enormemente screditata, tenuta in piedi dal solo potere politico. E' vero che la sua intenzione era di resuscitare una cosa morta: la metafisica, ma sotto una condizione irrinunciabile, quella di darle una marcata laicizzazione.

Kant avrebbe potuto fare "scienza" rinunciando a criticare la metafisica religiosa o misticheggiante, semplicemente evitando di attribuire una qualunque utilità pratica e conoscitiva alla religione (come già allora facevano gli inglesi, i francesi e gli olandesi), ma siccome si sentiva "tedesco", figlio della gloriosa riforma protestante, non poteva esimersi dall'assestare una vigorosa spallata ai presupposti dogmatici della teologia del suo paese. Ecco perché ancora oggi si sostiene che l'ateismo filosofico (che è certamente un di più del deismo inglese o dell'anticlericalismo francese) sia nato in Germania. E infatti dopo la "rivoluzione copernicana" di Kant, che faceva del soggetto il "legislatore della natura", sarà difficile tornare indietro, e quando cercherà di farlo Hegel, che supererà, diventando il filosofo ufficiale dello Stato prussiano, i limiti del soggettivismo kantiano, la reazione, da parte della Sinistra hegeliana, alla sua morte, sarà durissima: l'ateismo diverrà un fiume in piena, in grado di produrre risultati epocali, che ancora oggi si fanno sentire, sia da destra (Nietzsche e Heidegger) che da sinistra (Marx ed Engels).

Nella stessa Prefazione vi è un punto (la nota più importante) in cui si comprende molto bene come Kant fosse consapevole che la sua critica della religione avrebbe inevitabilmente avuto delle ripercussioni politiche, essendo strettamente connessi, nel suo paese, gli interessi della chiesa protestante con quelli dello Stato prussiano: "Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la religione per la santità sua e la legislazione per la sua maestà: ma così esse lasciano adito a giusti sospetti, e non possono pretendere quella non simulata stima, che la ragione concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame"(p. 7).

A ben guardare, in un certo senso, Kant sembra voler svolgere il ruolo che Lutero aveva svolto alcuni secoli prima, con la differenza ch'egli non ha intenzione di sostituire una religione con un'altra, ma di poter ragionare etsi daretur non esse deum. Un processo evolutivo molto ardito, di cui Kant era perfettamente consapevole e per il quale rivendica la "libertà di opinare", visto e considerato che mentre i dogmatici della fede non hanno scrupoli nell'"estendere la ragione umana di là di ogni confine dell'esperienza possibile"(p. 8), la critica ch'egli propone invece vuole semplicemente attenersi ai fondamenti della ragione, onde stabilire se sono possibili delle conoscenze oggettive a prescindere dalle molteplici esperienze fenomeniche.

E qui anche il credente più ingenuo e sprovveduto si sarebbe facilmente reso conto che se l'indagine kantiana fosse riuscita a postulare che, p.es., l'esistenza di dio o dell'anima non può essere in alcun modo dimostrata senza negare le leggi della razionalità, tutta la dogmatica ufficiale, che si basa proprio su quei fondamentali presupposti, sarebbe diventata carta straccia e non solo per la sua impraticabilità esperienziale ma anche per la sua infondatezza cognitiva.

Probabilmente è stata una fortuna per Kant vivere in una remota città di provincia, Könisberg, e di scrivere i suoi testi in uno stile che solo i massimi intellettuali tedeschi avrebbero potuto digerire. Questo gli ha permesso di continuare, quasi indisturbato, le sue ricerche per altri vent'anni.

La seconda Prefazione

Nella seconda Prefazione si nota facilmente la seguente stranezza: la dura critica ch'egli aveva voluto fare al dogmatismo del suo tempo, pare contraddetta da ampie concessioni che nella revisione alla prima edizione egli ha dovuto fare, ampliando la portata dei concetti di "noumeno" o "cosa in sé".

E' difficile capire se egli sia stato indotto a tale incongruenza dalle obiezioni che da più parti gli erano state mosse circa i presupposti ateistici della sua opera, ovvero a fare del "noumeno" una scelta tattica per non dover sopportare tutto il peso del mondo clericale, che inevitabilmente l'avrebbe schiacciato, visto che egli si muoveva come individualità isolata; o se invece l'approfondimento del tema del "noumeno" (che diverrà poi centrale nella seconda Critica) non vada considerato come una conseguenza più o meno inevitabile a una filosofia soggettivistica come la sua, che non voleva basare i suoi presupposti sulla conoscenza della materia in senso lato o del fenomeno in senso stretto, bensì sui limiti della percezione dell'oggetto che è possibile avere.

Indubbiamente Kant non voleva diventare un "martire della ragione", come un tempo i cristiani lo erano della fede. Voleva morire di vecchiaia, dedito alla ricerca filosofica e continuando a insegnare il più possibile: cosa che gli riuscì benissimo. Scese a compromessi col sistema e non fu toccato, né come scrittore né come docente, a parte alcuni spiacevoli episodi di censura. Inutile quindi scandalizzarsi delle sue incoerenze.

La seconda Prefazione la scrisse nel 1787, sei anni dopo la prima, di cui è tre volte più grande. Si tratta di un'ampia giustificazione delle proprie tesi, a fronte delle molte critiche che gli erano state mosse. In un certo senso infatti l'opera era rivoluzionaria, in quanto per la prima volta qualcuno parlava di tutti i problemi della metafisica, mettendo dio nel dimenticatoio. Solo un grande filosofo, con un'immensa cultura e con non poco coraggio, unito comunque a una notevole capacità mediativa, poteva compiere un'operazione del genere.

Se dalla sua Critica si tolgono le parti relative al "noumeno", da giudicarsi anomale rispetto all'impostazione rigorosa del suo pensiero scientifico, così peraltro ben sviluppato già nella fase "pre-critica", e probabilmente messe a titolo prudenziale, si può forse azzardare che qui si è in presenza di un'embrionale forma di "umanesimo laico". Kant probabilmente era consapevole di questa sua novità; infatti esordisce, in questa seconda Prefazione, dicendo che dai tempi di Aristotele la logica non era riuscita a fare un passo avanti. Non si possono chiamare "progressi della metafisica" la matematica e la fisica che, per poter sussistere, devono applicarsi a degli oggetti (astratti o concreti che siano) per riuscire a dimostrare la loro fondatezza.

Nella logica invece l'intelletto può occuparsi soltanto di se stesso, stabilendo preventivamente dei confini molto precisi, molto ristretti, proprio perché deve stabilire il suo valore scientifico indipendentemente da qualunque esperienza, e se fino adesso - sta per dire Kant - la metafisica non ha fatto alcun progresso scientifico, è stato a causa della teologia, che non ha mai voluto mettere al centro dell'indagine sui presupposti epistemologici della conoscenza un essere umano, bensì un'astrazione divina, la cui natura è del tutto indimostrabile.

Ovviamente Kant non può parlare in questi termini, ma quando dice che "noi delle cose non conosciamo a priori se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo"(p. 21), non voleva forse dire la stessa cosa? Se vogliamo, tutta la Critica della ragion pura è servita a dimostrare due cose: 1. che l'a-priori (che per la dogmatica religiosa era di provenienza divina) può avere basi del tutto umane; 2. che il noumeno (che per la teologia è autorivelantesi) non è mai conoscibile dal punto di vista umano.

Kant ha usato un'argomentazione di tipo religioso, rinominando le categorie fondamentali e attribuendo a queste un significato che se anche non era assolutamente opposto a quello religioso, poteva comunque essere interpretato come fuorviante, pericoloso per la dogmatica ufficiale. La filosofia di Kant è stata definita idealistica, trascendentale, soggettivistica, ma, se ci pensiamo, in questo atteggiamento così distaccato nei confronti della teologia, essa si pone in realtà come una forma, seppur embrionale, di "materialismo", in quanto tendenzialmente s'avvicina a ciò che oggi siamo soliti chiamare "umanesimo laico".

Certo, il soggettivismo è forte, anzi addirittura supponente, presuntuoso, poiché Kant parte dall'io cartesiano e non dalla storia o dalla natura o dalla materia, né, tanto meno, dalla realtà fenomenica; tuttavia gli va dato atto di aver compiuto un notevole sforzo teoretico per ridare dignità a un soggetto che, per colpa di una teologia dogmatica, aveva smesso di pensare, pur avendo prodotto, ai tempi di Lutero, opere eccelse.

Kant non si sognerà mai - come p.es. Kierkegaard - di proporre un modo nuovo, più esistenziale, di vivere la fede cristiana. La sua vuole essere una filosofia che evita di partire da presupposti religiosi. Che poi egli abbia voluto attribuire a questo suo modo di analizzare le fonti della conoscenza in generale un carattere apodittico, abusando del valore dell'apriorismo, che di per sé non può essere negato e che comunque resta la parte più debole della sua argomentazione, questo è un altro discorso. Infatti se non è da escludere che l'a-priori umano sia stato usato proprio per superare le pretese dell'a-priori teologico, meno ancora lo è che l'idea di parlare di "noumeno" sia stata una conseguenza inevitabile del suo continuo modo aprioristico di ragionare.

D'altra parte si può anche capire che per poter affermare la scientificità della metafisica, egli si sia sentito indotto a negare un valore conoscitivo trascendentale all'esperienza, essendo questa completamente gestita (non solo sul piano pratico ma anche interpretativo) dalle istituzioni confessionali del suo tempo. Kant non poteva usare la matematica o la fisica o l'astronomia come strumenti teoretici con valenza "critica" nei confronti delle istituzioni.

L'ideologia dominante in Prussia era la dogmatica cristiana di stampo protestante. Certo, se Kant fosse stato un Rousseau, un Diderot, un D'Alembert ecc. avrebbe parlato in maniera più storica o più politica che metafisica, avrebbe scritto quanto meno una filosofia della politica e non un'astratta logica, sarebbe stato sicuramente meno soggettivista e avrebbe dato all'ateismo fondamenti più solidi. Ma - chiediamoci - quanto avrebbe resistito nella sua Prussia conservatrice e aristocratica, lui che aveva origini democratico-borghesi? Chi l'avrebbe protetto? Quale carriera universitaria avrebbe potuto fare?

Gli illuministi francesi erano, tutto sommato, un gruppo omogeneo e agguerrito, espressione di una vastissima borghesia francese, capaci di produrre un'opera monumentale come l'Enciclopedia e tante altre che scossero dalle fondamenta le tesi religiose e che seppero anticipare quel grande sconvolgimento epocale che fece cadere in pochi anni l'ancien régime. Viceversa Kant era soltanto un intellettuale isolato, appartenente a una classe sociale ancora molto debole, un filosofo che considerava i propri studenti come la comunità a lui più significativa, e che aveva scelto d'insegnare in una città di provincia, senza mai chiedere d'essere trasferito in una sede più prestigiosa. Kant non aveva la vocazione del ribelle, benché fosse convinto che le sue teorie, se ben comprese nelle conseguenze operative, avrebbero potuto creare un vero terremoto.

Leggiamo p.es. cosa scrive nella prima nota della seconda Prefazione: "non v'è esperimento possibile (come c'è in fisica) che permetta di verificare, quanto ai loro oggetti, le proposizioni della ragion pura, soprattutto quando queste si avventurano di là dai limiti di ogni esperienza possibile"(p. 21). Che cos'è questo se non un attacco diretto alla teologia e all'esperienza della fede?

Kant non aveva di fronte a sé una filosofia laica con cui dialogare, ma soltanto una teologia da demolire. La filosofia laica doveva crearla lui. Studiò certamente molti testi significativi del mondo anglo-francese a lui coevo, ma, a parte il fatto che non avrebbe certo potuto in un regime reazionario come il suo, dire di essersi ispirato a qualche filosofo materialista o sensista o illuminista straniero, il fatto è che prima delle sue ricerche non esisteva nulla di veramente analogo. Lo aveva già scritto nella prima Prefazione: "Io non conosco ricerche relative allo studio della facoltà che noi chiamiamo intelletto e, insieme, alla determinazione delle regole e dei limiti del suo uso, più importanti di quelle che ho istituite sotto il titolo di Deduzione dei concetti puri dell'intelletto..."(p. 10).

Heidegger, in Essere e tempo, aveva capito che Kant era riuscito a connettere l’interpretazione dell’essere al fenomeno del tempo e ad essersi incamminato, anche se solo per un breve tratto, sulla via della ricerca della dimensione della temporalità. A Kant tuttavia faceva difetto una vera e propria ontologia dell’esserci e una problematizzazione del tema dell'essere che esulasse dalla metafisica tradizionale. Secondo Heidegger, Kant è stato il primo pensatore dell’epoca moderna ad elaborare non solo il concetto di un soggetto capace di “pre-determinare” l’oggetto, ma anche l’idea di un oggetto che trae la sua essenza dalla comprensione che di esso ha il soggetto. In Kant e il problema della metafisica, Heidegger dice di vedere nella Critica della ragion pura un primo esempio di fondare una metafisica dell'essere in una dell’esserci.

Naturalmente Heidegger diceva questo perché era un "soggettivista" come lui e si crucciava che Kant non avesse previsto, in quella che si può definire la conoscenza a priori della ragione, un'elaborazione dell'idea di rifondazione dell'essere. In realtà Kant non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere, proprio perché quello che di assoluto poteva immaginare in forma aprioristica era al massimo l'infinità dello spazio e l'eternità del tempo; qualunque altra cosa trascendentale non avrebbe potuto ammetterla, se si esclude ovviamente il noumeno, che però giudica inconoscibile, nel timore di fare eccessive concessioni alla dogmatica religiosa.

Parlando di spazio infinito e di tempo eterno Kant poteva anche indurre il credente a pensare che tali realtà potessero rappresentare simbolicamente l'assoluto, ma - bisogna ammetterlo - per come egli le aveva trattate, difficilmente il credente avrebbe potuto trovare un appiglio per poter desumere logicamente da esse una qualche prova dell'esistenza di dio. Kant proponeva prove razionali proprio per far capire che quelle della fede erano insussistenti. La conseguenza operativa di ciò era inevitabile e non tarderà a farlo presente, anche mettendosi in una posizione imbarazzante per i poteri costituiti: sì alla religione, se proprio non se ne può fare a meno, ma a condizione che resti entro i limiti della ragione.

Ciò che esula dai limiti delle "condizioni" che la ragione deve porre a se stessa, non è altro che l'incondizionato, il noumeno, la cosa in sé, che, per quanto reale si possa immaginare, resta inconoscibile. Si tratta evidentemente di una concessione diplomatica alla religione, e siccome egli afferma che tale realtà trascendente non può essere conosciuta in modo razionale, lasciando aperto il problema di una conoscenza a-razionale, ovvero la possibilità di fondare l'esistenza dell'assoluto usando forme diverse di linguaggio, noi dovremmo necessariamente arguire che l'ateismo di Kant, almeno per il modo in cui egli s'è formalmente espresso sull'oggetto in questione, era più che altro una sorta di agnosticismo. Non a caso egli evitò sempre con cura di compiere esegesi laiche del Nuovo Testamento e si pronunciò solo una volta, in maniera del tutto negativa, sulle tesi di Reimarus relative alla politicizzazione del Cristo. Per veder nascere la vera critica neotestamentaria bisognerà aspettare la Sinistra hegeliana.

Qui è vano chiedersi il motivo per cui Kant abbia voluto legarsi le mani sostenendo l'esistenza di una cosa incondizionata, pur non potendola dimostrare razionalmente; non è però da escludere ch'egli l'abbia fatto perché in realtà sentiva di aver le mani già legate, e se voleva continuare a scrivere contro la religione, non poteva fare altro.

Infatti, per giustificare l'incondizionato di fronte a quegli scienziati che non volevano mescolare le loro tesi scientifiche con le credenze religiose, si limitò semplicemente a dire ch'esso gli serviva per stabilire i limiti del "condizionato", ovvero che quanto veniva spacciato dalla chiesa come soprannaturale, miracoloso, sovrumano.... andava considerato totalmente estraneo alla ragione, non universalmente valido e necessario sul piano umano e quindi, in ultima istanza, denso di incognite e potenzialmente fuorviante. Che cos'è questa se non l'ammissione che la teologia non era in grado di permettere uno sviluppo fecondo ad alcuna scienza? e che se le scienze si sviluppavano comunque era per meriti esclusivi della ragione, la quale, faticosamente, cercava di riacquistare quell'autonomia di giudizio che il clericalismo feudale le aveva fatto perdere?

La parte più debole di Kant sta altrove e su di essa Hegel - che certamente non era meno geniale di lui - infierirà pesantemente, approfittandone per ridare valore filosofico alle prove teologiche dell'esistenza di dio.

Finché Kant circoscrive il proprio soggettivismo (cioè la priorità concessa all'intuizione sensibile) nell'ambito di una critica della religione, onde dimostrare che né dio né l'anima né la creazione del mondo sono cose che possono essere personalmente "sperimentate", le argomentazioni hanno una certa validità, ma appena esce da questo ambito (che in fondo è minimalista) per cercare di dare un senso oggettivo alla facoltà conoscitiva dell'intelletto, ecco che emergono tutte le incongruenze e le aporie. Kant ha attaccato il dio astratto dei teologi attribuendo al suo io filosofico una non meno grande astrazione. Ha voluto cercare l'assolutezza dell'io senza rendersi conto ch'essa sta nella materia dell'universo, di cui l'io è parte organica, costitutiva, specie in quanto "io cosciente".

Nella sua fase "pre-critica" osservava l'universo solo come scienziato, non anche come filosofo; viceversa, nella fase "critica" egli ha iniziato a guardare il mondo come filosofo, senza però riuscire ad essere un vero scienziato, che è poi il filosofo che guarda le cose non come fossero altro da sé, ma come interagenti con lui dialetticamente. Un filosofo "scienziato" - come lo fu certamente Hegel nell'analisi della dialettica - deve arrivare a capire che la verità è un'acquisizione progressiva, data da un movimento infinito di tesi-antitesi-sintesi, in grado di coinvolgere soggetto e oggetto, fino a riguardare direttamente il rapporto del soggetto con la storia (non a caso l'idealismo hegeliano viene detto anche "storicistico", benché nell'analisi della realtà sociale egli fosse lontanissimo dal comprenderne le intrinseche contraddizioni economiche).

Kant s'illudeva di poter stabilire una conoscenza oggettiva, apodittica e quindi, ancora una volta, assoluta, dogmatica, partendo esclusivamente dall'individuo, che di religioso (almeno nella prima Critica) non doveva avere proprio nulla, se non il dovere di rispettare le convinzioni altrui, cosa per cui bastava la coscienza del cittadino.

E' difficile però pensare a una nascita dell'idealismo della triade Fichte Schelling Hegel, senza il preliminare criticismo kantiano, che sicuramente ebbe il merito di mettere in crisi la metafisica a sfondo religioso di Leibniz. Kant ha svolto il ruolo di una partoriente le cui acque si erano rotte; il bambino che stava per nascere sarebbe stato affidato ad altre nutrici, fino a quando, con Marx ed Engels, avrebbe posto fine a qualunque tutela filosofica.

La parte che in un certo senso andrebbe riscritta, della seconda Prefazione, è quella dove Kant inizia a parlare di spazio e tempo e di cosa in sé, proprio perché qui le concessioni ch'egli fa alla religione paiono eccessive. Una cosa infatti è dire che spazio e tempo, non essendo rappresentabili come oggetto, sono soltanto intuizioni sensibili; un'atra è dire che, come possiamo dare per presupposti lo spazio e il tempo, così possiamo presumere ch'esista una cosa in sé in ogni fenomeno, una cosa che se anche non possiamo conoscere, essa può offrire un qualche significato ultimo, a noi remoto, al fenomeno stesso, "giacché altrimenti - spiega Kant, senza rendersi ben conto della sua incongruenza - ne seguirebbe l'assurdo che ci sarebbe un'apparenza senza qualche cosa che in essa appaia"(p. 26).

E in nota, per giustificare questo inaspettato e, per certi versi, incredibile misticismo, che rischia di mandare all'aria tutte le tesi speculative del criticismo, Kant osserva che l'esigenza che vi sia una cosa in sé non occorre cercarla "nelle fonti teoretiche della conoscenza; può anche trovarsi nelle pratiche"(ib.). Infatti un anno dopo pubblicherà la Critica della ragion pratica, con cui dovrà soddisfare le esigenze dei suoi integralisti detrattori. Quegli enunciati (libertà, immortalità, esistenza di dio) che la ragione speculativa non può dimostrare, vanno assunti come "postulati pratici", al fine di stabilire la volontà di agire conforme al bene. Una "caporetto" rispetto alla prima Critica.

Era come dire: a causa del peccato originale l'essere umano non è più libero di agire e deve quindi essere assistito da una forza superiore, che è poi la stessa che nell'applicazione delle facoltà conoscitive si chiama "noumeno". Dopo la seconda Critica l'establishment poteva giungere a questa conclusione operativa ed evitare di condannare Kant per ateismo (come invece farà con Fichte).

Se Kant invece si fosse limitato a scrivere la sola prima Critica, si sarebbe potuto dire di lui una cosa ben diversa, e cioè che in quanto filosofo egli non aveva potuto concedere valore scientifico alle tesi della teologia, però in quanto uomo era arrivato ad ammettere l'esistenza di un incondizionato, che con gli strumenti della fede, volendo, si sarebbe anche potuto adeguatamente conoscere. Certamente una soluzione del genere non sarebbe stata il massimo per una posizione ateistica, ma avrebbe comunque salvaguardato la dignità di un filosofo costretto a fare ricerche in un ambiente ideologicamente molto sfavorevole.

Che fossero questi gli ambienti da cui erano provenute le maggiori contestazioni, lo si comprende dal fatto ch'egli, ad un certo punto, si lamenta d'essere stato accusato d'ateismo quando con la Critica aveva soltanto voluto purificare la mente dagli sterili dogmatismi della religione. Il che poteva anche tradursi in un vantaggio per la sensibilità religiosa. Infatti, e paradossalmente, proprio una disamina di tipo ateistico o quanto meno agnostico, avrebbe potuto rendere la fede più "pura", più intellettuale e forse anche più mistica, in quanto vincolata a un sentire interiore e non a un interesse strumentale o a un'acquisizione teoretica di tipo catechistico. La Critica non avrebbe avuto come scopo quello di distruggere la "ragion pura", ma soltanto quella di renderla ancora più vera e autentica, liberandola dalle incrostazioni che s'erano col tempo sedimentate.

Pur non volendo creare una filosofia religiosa, Kant, per difendersi dai suoi critici, si sente indotto a riproporla in forma laicizzata; è cioè costretto ad ammettere che quando la ragione ha una tensione trascendente, si dà delle risposte molto simili a quelle religiose, non essendo capace di fare altro. Che cos'è questa se non la volontà di sottostare a una richiesta di ritrattazione ammettendo la propria colpevolezza? Ecco dunque l'affermazione di compromesso, sottoscritta di suo pugno: "l'ordine sovrano, la bellezza, la provvidenza che traspare da ogni cosa naturale, sono da sole sufficienti a suscitare la fede che ci sia un sapiente e grande creatore del mondo, fede che si diffonde nel pubblico, perché riposa su fondamenti razionali"(p. 30).

"Razionali? - qualcuno avrebbe potuto obiettare - Ma questo è puro misticismo! La fede non può mai poggiare sulla razionalità, neppure nella filosofica Prussia". Sembra in effetti che qui Kant voglia aprire la strada a tutti quei filosofi della religione che, a partire da Jacobi, passando per Schleiermacher, arriveranno sino al folle Kierkegaard. Possibile che un filosofo come Kant, con un passato da ricercatore scientifico, e dopo un imponente lavoro da critico dei fondamenti della dogmatica fosse approdato spontaneamente a una conclusione così deludente? Davvero il noumeno era una sua personale convinzione e non invece una forma di opportunismo nei confronti dei poteri dominanti? Davvero la sua Critica era semplicemente diretta contro il dogmatismo insegnato dal clero e non anche conto l'istanza religiosa in quanto tale? Oppure dobbiamo ammettere che la dura e per molti versi giusta critica che Hegel mosse a Kant, e che venne ripresa da Marx, ha impedito di capire che nella parte relativa alla critica della religione, Kant era molto più avanti di Hegel, al punto che può essere visto come un anticipatore della teoria della proiezione di Feuerbach? Non sarebbe ora di ridare il giusto peso a questo grande pensatore togliendolo dal filone dell'idealismo soggettivo per lasciarlo unicamente in quello del "criticismo illuministico"?

Il criticismo kantiano, che pur egli stesso definiva come metafisico, oggettivo, apodittico, in quanto basato su sicuri principi a priori di cui era stata rigorosamente dimostrata la necessità, e che si opponeva a quella dogmatica idealistica insegnata nelle scuole e nelle università, la quale era incapace di darsi - oggi diremmo - uno statuto epistemologico con cui rendere conto "del suo proprio potere"(p. 32), quel criticismo ostile non solo all'idealismo, ma anche allo scetticismo, al materialismo, al fatalismo, all'ateismo, al fanatismo e alla superstizione (p. 31), se svolto in maniera conseguente, sul piano politico, può addirittura avere degli addentellati coll'anarchismo di Stirner (che si definiva "ateo" proprio perché non aveva alcuna intenzione di fare carriera universitaria).

Non a caso l'ultimo sfogo è proprio diretto contro le istituzioni pubbliche, cui Kant rimprovera di "mescolarsi nelle faccende dei dotti"(p. 31), di non "favorire la libertà di critica", di "sostenere il ridicolo dispotismo delle scuole, che mandano alte grida annunziando un pubblico danno, quando si strappano quelle loro ragnatele, di cui, pure, il pubblico non ha mai avuto notizia e non può avvertire perciò la perdita"(ib.). Frasi di questo genere, Hegel, non ebbe mai il coraggio di dirle quando intraprese la carriera universitaria.

Nota

Le pagine citate sono tratte dall'edizione della Laterza del 1975.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015