Kant: l’assolutismo della ragion pratica

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Kant: l’assolutismo della ragion pratica

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Giuseppe Bailone

Pubblicata nel 1788, la Critica della ragion pratica è la seconda delle tre opere fondamentali di Kant. Ha un titolo un po’ diverso da quello della Critica della ragion pura: il termine pura ha ceduto il posto a quello di pratica.

Capire questa diversità del titolo significa entrare subito nel cuore della filosofia kantiana: infatti, di essa Kant parla in apertura della Prefazione.

“La seguente trattazione spiega abbastanza il motivo per cui questa Critica non è intitolata Critica della ragion pura pratica, ma semplicemente Critica della ragion pratica in genere, benché il parallelismo di essa con la ragione speculativa sembri richiedere il primo titolo. Essa deve semplicemente dimostrare che vi è una ragion pura pratica, e a questo fine ne critica l’intera facoltà pratica. Se riesce in ciò, essa non ha bisogno di criticare la stessa facoltà pura, per vedere se la ragione non oltrepassi se stessa con questa facoltà, come con una semplice presunzione (come invero accade con la ragione speculativa). Poiché se essa, come ragion pura, è veramente pratica, dimostra la realtà propria e quella dei suoi concetti mediante il fatto, ed è vano ogni sofisticare contro la sua possibilità di esser tale”.1

L’immagine della caverna platonica e quella dell’isola kantiana ci aiutano a capire questo passo.

Mentre la ragione, nella sua funzione conoscitiva, se esce dalla caverna (o abbandona l’isola della scienza fenomenica) passa dalla realtà fenomenica all’irrealtà metafisica; la stessa ragione, nella sua funzione pratica, determinando il comportamento nella caverna, non può perdere il suo rapporto con la realtà fenomenica e il suo problema è semmai di tipo opposto: non deve, cioè, farsi condizionare dalla realtà fenomenica, dalle passioni, dai sentimenti, dai bisogni; deve mantenersi pura; deve agire sì nel mondo della caverna ma come se ne fosse del tutto fuori, indipendente.

In quanto pratica, la ragione determina la realtà, agisce nel mondo reale. Pertanto, nei confronti della ragion pratica, il problema non è più quello della realtà o meno dei suoi oggetti, come per la ragion teoretica, bensì quello della sua autonomia o eteronomia, cioè della sua libertà o subalternità alle passioni, ai sentimenti o ai bisogni. Infatti, nel determinare le azioni umane, la ragione può mettersi al servizio dei sentimenti, delle passioni o degli interessi di vario tipo, oppure può agire da sola, in autonomia, senza subordinarsi; può agire cioè come ragion pura, non sottoposta a condizionamenti.

Ogni uomo, per Kant, può pensare un mondo umano regolato da leggi rigorosamente razionali e impegnarsi a farle proprie, indipendentemente da quel che fanno gli altri uomini e dai sacrifici che ciò comporta rispetto ai bisogni, alle passioni e ai sentimenti. La parte naturale del suo essere deve cedere alla ragione tutto il potere di determinare il suo comportamento.

Se, nella sua funzione conoscitiva, la ragione può peccare di presunzione e svincolarsi dai condizionamenti empirici, nella sua funzione pratica, essa non pecca affatto di presunzione se si libera dai condizionamenti e impone alla realtà empirica il suo potere assoluto. Solo così l’uomo realizza pienamente la sua umanità, sottraendosi alla condizione di cosa tra le cose e affermando la sua dignità di persona, di soggetto razionale libero.

Si può, pertanto, parlare di assolutismo della ragion pratica.

Questa, infatti, è un’espressione che rende bene l’idea che Kant ha della moralità e dei suoi doveri, intesi come imperativi categorici.

Nella sua funzione pratica, la ragione deve misurarsi con la parte naturale dell’uomo, imporsi come sua guida e dire quel che si deve fare o non fare. Deve, cioè, esprimere dei comandi, degli imperativi, per correggere quello che sarebbe il comportamento lasciato in balìa della parte naturale.

Ora, gli imperativi della ragion pratica possono essere categorici o ipotetici.

Sono categorici, quando la ragione esercita la sua piena, assoluta, signoria sulla situazione in predicato. Sono ipotetici quando la ragione li formula in funzione di servizio ai sentimenti, alle passioni o agli interessi. Infatti, anche questi possono esercitare direttamente e immediatamente la loro direzione del comportamento o consultare la ragione per realizzare al meglio i loro fini.

Si configurano, allora, tre tipi di comportamento:

  • Quello naturale e immediato, del tutto determinato d’impulso dai bisogni, dai sentimenti, dalle passioni. In questo caso la ragione resta fuori gioco.
  • Quello determinato dalla prudenza, la virtù che consiste nel servirsi della ragione per realizzare al meglio i fini determinati dalla natura. Così, ad esempio, succede quando la ragione dice quel che si dovrebbe fare per realizzare un desiderio, soddisfare una passione, un bisogno o, addirittura, come realizzare la felicità. In questo caso la ragione comanda, ma al servizio di altro: dice quel che si deve fare per realizzare un fine che è fissato dalla parte naturale, non da lei.
  • Quello determinato dalla ragione assoluta, senza alcun vincolo.

Se, di fronte a un uomo in difficoltà, provo per lui sentimenti di compassione e agisco d’impulso, rientro nel primo tipo. Se, rientrando nel secondo tipo, consulto la ragione per sapere quale sarebbe il modo più efficace per soddisfare quei sentimenti, la ragione produce un imperativo ipotetico, cioè un imperativo che s’impone come comando razionale solo per le condizioni poste dai sentimenti. Si tratta cioè di un comando razionale al condizionale, non già pienamente libero: la ragione non si esprime in piena libertà e autonomia, ma in termini di servizio e dice che cosa fare per servire quei sentimenti. Lo stesso succede quando la ragion pratica formula imperativi per realizzare fini imposti dalle passioni e dagli interessi.

La teoria morale kantiana si regge sulla netta distinzione tra la razionalità libera e la razionalità strumentale, tra quella che indica inscindibilmente il fine e il mezzo dell’azione da quella che ne indica solo il mezzo, essendo il fine determinato dalle passioni, dai sentimenti o dagli interessi.

L’uomo, infatti, non è solo ragione ma anche natura o, se vogliamo dirlo nell’altro verso, non è solo natura ma anche ragione. Se fosse solo natura, il suo comportamento sarebbe interamente determinato dalle leggi che governano il mondo naturale e non ci sarebbe alcun problema morale. Se fosse solo ragione, neppure ci sarebbe alcun problema morale, perché in lui la ragione non dovrebbe affatto imporsi a bisogni, interessi, sentimenti e passioni naturali, ma determinerebbe la volontà senza resistenze o condizioni di alcun tipo. La volontà, in questo caso, sarebbe perfettamente buona, del tutto in armonia con la ragione; non dovrebbe affatto sforzarsi di essere buona, come invece deve fare la normale e imperfetta volontà umana.

Nella Fondazione della metafisica dei costumi del 1785 scrive:

“Una volontà perfettamente buona starebbe dunque essa stessa sotto il dominio di leggi oggettive (del bene), ma non potrebbe perciò essere pensata costretta ad azioni conformi alla legge, perché di per se stessa, a causa della sua costituzione soggettiva, non potrebbe esser determinata che dalla rappresentazione del bene. Ecco perché non c’è imperativo che possa valere per la volontà divina e in generale per una volontà santa; il dover essere, qui, è fuori posto, perché il volere è già per se stesso necessariamente accordato con la legge. Di conseguenza, gli imperativi sono solo formule per esprimere il rapporto fra leggi oggettive del volere in generale e l’imperfezione soggettiva della volontà di questo o quell’essere ragionevole, per esempio della volontà umana.

Ora tutti gli imperativi comandano o ipoteticamente o categoricamente. Gli imperativi ipotetici presentano la necessità pratica di un’azione possibile quale mezzo per raggiungere qualche altra cosa che si vuole (oppure che è possibile volere). L’imperativo categorico è quello che rappresenta un’azione come necessaria per se stessa, senza relazione con nessun altro fine, come necessaria oggettivamente. Poiché ogni legge pratica presenta un’azione possibile come buona, quindi come necessaria per un soggetto che sia praticamente determinabile dalla ragione, tutti gli imperativi sono formule di determinazione dell’azione necessaria secondo il principio di una volontà in qualche modo buona”.

Si potrebbe dire che la moralità consiste nel mettersi nei panni di Dio per vedere come sarebbe un mondo bene ordinato, razionale, e poi sforzarsi di realizzarlo costi quel che costi alla nostra componente naturale, fatta di bisogni, sentimenti e passioni. È l’antica idea morale stoica, imperniata sulla concezione del saggio come uomo capace di assumere un punto di vista universale e di realizzarlo spegnendo le emozioni fino all’apatia.

L’uomo, però, può assumere quel punto di vista e può realizzarlo?

Sulla prima questione non ci sono problemi per Kant: la ragione, quando non sia sottoposta a condizioni, mette l’uomo in quel punto di vista, dicendogli in modo immediato ciò che è giusto fare in ogni situazione. La voce della ragione kantiana, in questi casi, ha la stessa immediatezza e assolutezza del sentimento di Rousseau e della voce interiore divina di Agostino.

È un fatto della ragione. Su questo punto Kant matura, anche per l’influenza di Rousseau, una convinzione assoluta, mai esposta al minimo dubbio.

Certo, lui pensa che non tutti gli uomini avvertono allo stesso modo la presenza di questa voce assoluta della ragione, dell’imperativo categorico. Anche per lui, come per Aristotele, nella virtù l’abitudine ha un peso importante: chi abitualmente si sforza di realizzare il dovere ne avverte la presenza nell’interiorità con molta più forza di chi abitualmente si muove in senso opposto. Anche chi è abitualmente immorale ha, però, nella sua interiorità la voce della ragion pura pratica, in quanto essere umano. L’abitudine a non tenerne conto ne attenua solo il vigore, non ne cancella la presenza.

Si potrebbe dire che, per Kant, l’uomo non ha l’intuizione intellettuale per muoversi nella metafisica in termini conoscitivi, ma possiede qualcosa di equivalente, di altrettanto assoluto, per orientare il suo comportamento. L’imperativo categorico, che Kant presenta come un fatto della ragione, ha, infatti, l’immediatezza propria dell’intuizione. Non è frutto di riflessione discorsiva, anche se le formulazioni che Kant ne propone possono farlo apparire come il frutto di una riflessione distesa nel tempo.

Sta qui il punto di forza del famoso primato della ragion pratica.

Sulla seconda questione c’è il problema posto dalla dialettica trascendentale della Critica della ragion pura: la libertà è un problema impigliato nelle antinomie della cosmologia razionale, cioè, nella metafisica che si occupa dell’idea di mondo. Kant è, però, convinto che in sede morale la questione della libertà possa trovare nell’assolutezza del dovere la chiave della sua soluzione: se l’uomo deve farsi determinare il comportamento solo dalla ragione, può sottrarsi al determinismo del mondo naturale di cui fa parte.

Se la ragione assoluta mi dice che devo fare o non fare una cosa, è la volontà che deve decidersi a conformarsi a quell’imperativo categorico per tanto che i miei bisogni naturali, i miei sentimenti e le mie passioni la spingano in direzione opposta. L’assolutezza del dovere presuppone la libertà di realizzarlo.

“Se devo, posso”, pensa e scrive Kant, aprendo a soluzione chiara e univoca il problema metafisico della libertà. Il sogno della colomba diventa realtà in sede morale. Il dovere, proprio perché incondizionato, assoluto, presuppone la possibilità di diventare realtà.

Nella sua funzione conoscitiva, la ragione uscendo dalla caverna s’impiglia in problemi insolubili; nella sua funzione pratica, invece, solo uscendo dalla caverna, sottraendosi cioè al determinismo del mondo naturale, può indicare il dovere assoluto, il comportamento rigorosamente razionale, dal valore universale e necessario, per l’uomo nella caverna.

L’assolutezza del dovere offre alla metafisica quell’approdo alla realtà non empirica ch’essa invano cerca come ragion pura teoretica: uscendo dalla caverna platonica con l’appiglio all’imperativo categorico non cade nel vuoto del sogno della colomba kantiana. La metafisica diventa possibile, ma il suo rapporto con la morale subisce una rivoluzione radicale: non è più la metafisica a fondare la morale, ma è la morale a fondare la metafisica, a render possibile una risposta ai problemi della libertà umana dal determinismo fisico, della vita dopo la morte e dell’esistenza di Dio.

Per Kant, cioè, l’uomo non deve comportarsi bene perché è libero, perché c’è una vita dopo la morte e perché c’è Dio; al contrario, più s’impegna a realizzare l’imperativo categorico e più è razionalmente portato a credersi libero dai condizionamenti naturali, a sperare in una vita dopo la morte per continuare il cammino del perfezionamento morale avviato in questo mondo, a sperare che esista Dio come garanzia di giustizia assoluta.

A questo proposito Kant elabora la distinzione tra il bene supremo, cioè il rendersi degno, attuando l’imperativo categorico, di essere felice e il bene sommo, la felicità commisurata alla virtù. La felicità non dipende da noi e non deve diventare il fine delle nostre azioni, la virtù, invece, dipende interamente da noi e deve essere il nostro fine supremo.

La metafisica prodotta dalla ragion teoretica non è una sicura fondazione della morale, ed è bene che non lo sia: la comprometterebbe, riducendo gli uomini, come abbiamo visto, a marionette. Il serio impegno morale, basato sulla roccia dell’imperativo categorico, invece, offre buone possibilità, in termini di fede razionale, alla metafisica, al folle volo nell’oceano dell’Ulisse dantesco.

Torino 27 aprile 2015

Note

1 Kant, Critica della ragion pratica, Laterza 1963, p. 1.


ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015