I passi indietro nella seconda critica di Kant

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I PASSI INDIETRO NELLA SECONDA CRITICA DI KANT

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Ecco una breve sintesi della Critica della ragion pratica.

  1. La ragion pratica è basata sulla morale o sull'etica.
  2. La morale migliore è basata sul dover fare o dover essere.
  3. Le cose vanno fatte non per conseguire un obiettivo particolare ma perché sono un bene in sé (hanno un valore universale e necessario).
  4. Tutte le filosofie morali che vogliono dare un contenuto o una particolare finalità a un'azione morale, non sono pure.
  5. Le etiche non pure si basano sugli imperativi ipotetici (se vuoi, devi). L'etica pura si basa sull'imperativo categorico (devi perché devi). P.es. "prenditi cura della tua salute", oppure "rispetta gli altri".
  6. Quindi la regola fondamentale di cui bisogna tener conto è una sola: "Agisci in modo che la massima della tua volontà (cioè il principio pratico soggettivo per cui si compie un'azione) possa valere sempre come principio di una legislazione universale". P.es. "gli esseri umani non sono il mezzo con cui realizzare qualcosa", oppure "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te".
  7. L'imperativo categorico è una legge necessaria della natura umana che serve per diventare virtuosi. Esso presume la libertà, perché non è una legge naturale basata sul rapporto di causa/effetto (per il quale una cosa avviene perché non può non avvenire). Esempio di legge naturale: "tutti gli uomini devono morire" (in tedesco si usa müssen). Esempio di legge etica: "tutti gli uomini devono dire la verità" (in tedesco si usa sollen).
  8. I connotati essenziali dell'imperativo categorico sono i seguenti:
    a) non deve avere contenuti o finalità particolari ma solo una forma a priori;
    b) la forma a priori va acquisita: bisogna imparare a volere come si deve volere;
    c) è sicuramente morale l'intenzione con cui si decide di fare una cosa;
    d) siamo noi a dare una legge a noi stessi (morale autonoma, contro la morale eteronoma, quella imposta da altri o comunque da ciò che sta al di fuori di noi);
    e) la coscienza della libertà è conseguente alla coscienza del dovere. La libertà è l'indipendenza della volontà dalla legge naturale dei fenomeni, che è indifferente alle esigenze spirituali, essendo basata sulla stretta causalità. P.es. siccome l'uomo può mentire, per rendersi conto che deve sempre dire la verità, deve prima rendersi conto che è suo dovere dirla: solo così prenderà consapevolezza d'essere libero (devi, dunque puoi e non puoi, dunque devi).
    f) sul piano pratico l'unico dovere da cui discendono tutti gli altri doveri è il rispetto delle persone.
  9. Ma è davvero possibile realizzare questo tipo di morale senza lasciarsi condizionare da nulla? Solo in parte, poiché in questo mondo la virtù non coincide con la felicità (la natura umana è debole). Quindi deve esistere qualcosa che permetta all'uomo di proseguire nel compito di raggiungere la felicità piena, che è quella di compiere il dovere liberamente. Questo qualcosa è l'aldilà, cioè l'immortalità dell'anima che incontra dio (garante della giustizia) e raggiunge la santità. L'uomo è più virtuoso se è credente.
  10. Dunque quello che Kant afferma come non scientifico nella prima Critica (anima, dio, aldilà), viene recuperato come etico nella seconda Critica, anche se dio, anima e aldilà non appartengono alla metafisica ma solo alla morale.

E ora il commento.

Non c'è nessun principio morale che indichi di per sé la sua effettiva moralità. Qualunque azione morale va contestualizzata nello spazio e nel tempo. Se p.es. facciamo assistenza ai paesi del Terzo mondo, senza mai mettere in discussione i rapporti di stretta dipendenza che legano loro all'occidente, noi non faremo che perpetuare questi rapporti, e proprio mentre pensiamo di ridurne il peso.

Da millenni si sa che le buone intenzioni spesso producono effetti opposti a quelli desiderati e Kant almeno un accenno avrebbe dovuto farlo nella sua Critica della ragion pratica, senza andare a scomodare le sue reminiscenze del peccato originale, onde sostenere che l'uomo è strutturalmente incapace di vero bene.

In tale Critica arrivò a dire che la moralità deve prescindere da qualunque aspetto esteriore, altrimenti è viziata in partenza. Cioè chi vuol essere puro deve sponsorizzare l'idea del dovere in sé, e se non raggiunge la perfezione su questa terra, l'otterrà di sicuro nell'aldilà, con la sua anima immortale e il creatore che l'attende per renderle giustizia.

Il dovere per il dovere: ma questa regola non si trova forse anche nella chiesa romana o in una qualunque gang mafiosa o in un qualunque Stato o partito autoritario? No, secondo il Kant "moralista" la differenza sta nel fatto che il soggetto deve interiorizzarla, considerandola come facente parte della propria autonoma moralità.

Kant insomma andò a recuperare sul piano etico ciò che nella prima Critica aveva negato su quello metafisico. Perché? Era stato forse accusato di ateismo? Minacciato di perdere la cattedra universitaria? Oppure era proprio convinto di quel che diceva?

In effetti non si capisce il motivo per cui non si sia limitato a dire che l'uomo, con la sua insondabile o imponderabile libertà, è noumeno di se stesso e non ha bisogno di andare a cercare un'ispirazione religiosa al suo agire. Se il senso del dovere ci rende umani, perché chiamare in causa l'onnipotenza e onniscienza divina? Se il compito di raggiungere la virtù è una sorta di work in progress sulla terra, perché affermare ch'esso si realizzerà compiutamente definitivamente solo nell'aldilà?

Con la prima Critica Kant aveva fatto in Germania un passo avanti in direzione dell'ateismo, per quanto, ammettendo un noumeno pensabile ma del tutto inconoscibile, si fosse limitato a percorrere la strada dell'agnosticismo. Ma con la seconda Critica ha fatto due passi indietro, finendo nelle braccia del misticismo. Non è riuscito a dare la giusta concretezza operativa alle sue idee agnostiche: il formalismo astratto della prima Critica (nella quale comunque aveva dimostrato l'insussistenza dei ragionamenti metafisici), s'era risolto in una totale mancanza di senso della storicità dell'agire umano.

Dire infatti che, nella sostanza, la massima migliore dell'agire umano è quella ebraica, secondo cui "non bisogna fare agli altri quel che non si vuole venga fatto a noi" (che è poi il principio del rispetto della persona), è dire cosa che in sé può apparire alquanto formale. Non è forse così quando ci si limita a rispettare delle regole pattuite, senza chiamare in causa un'effettiva responsabilità personale, che in determinate situazioni può invece apparire molto più utile o convincente?

Già i primi cristiani s'erano accorti di questo gap, tant'è che si scandalizzavano nel vedere gli ebrei più ortodossi rifiutare l'idea che un malato non in pericolo di vita venisse assistito di sabato (il giorno festivo da consacrarsi a dio, secondo la legge mosaica, evitando di compiere qualunque lavoro, e quindi anche una guarigione).

Quel principio ebraico, apparentemente molto umano, poteva portare all'odio nei confronti della persona che, in nome di un bisogno non particolarmente grave, trasgrediva un comandamento molto importante, decisivo per stabilire una tradizione consolidata. Ecco perché i cristiani, vedendo il sacrificio di Cristo sulla croce, arrivarono a formulare un nuovo principio, più cogente di quello ebraico: "nessuno ha amore più grande di chi offre volontariamente la propria vita per amore degli uomini".

Col che però essi erano passati da un'astrazione a un'altra, in quanto avevano fatto dell'autoimmolazione qualcosa di etico di per sé, a prescindere, di nuovo, da qualunque contestualizzazione del gesto. Per i cristiani il martire ha sempre ragione, proprio perché la vita è sacra e non dovrebbe mai essere violata. Nessuno quindi è più grande di chi rinuncia spontaneamente al diritto alla vita per il bene dell'umanità. Foss'anche stato un poco di buono, il martire, col suo gesto, si riscatta in toto e anzi fa sì che i posteri lo ricordino soltanto per l'ultima cosa compiuta.

Dunque, è forse possibile darsi delle regole universalmente valide, che prescindano dal contesto di spazio e tempo, ovvero dalle culture, tradizioni, valori di un dato ambiente sociale? No, non è possibile: una qualunque regola sarebbe formale e quindi inutile, perché soggetta a interpretazioni diverse, se non opposte. L'unica regola che possiamo darci è quella di renderci disponibili a rispettare il senso di umanità che alberga in noi e negli altri. Il resto vien da sé.

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015