Kant: la difficile educazione politica del "legno storto"

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Kant: la difficile educazione politica del “legno storto”

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Giuseppe Bailone

Nel 1784, l’anno dello scritto sull’Illuminismo come uscita dalla minorità, Kant scrive l’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, un breve saggio di filosofia della storia articolato in nove tesi.

Kant usa, non a caso, il termine “idea” per proporre un’ipotesi di lettura unitaria della complessa avventura umana, al fine di rintracciarvi un filo conduttore al di sotto dall’apparente caos degli eventi. Propone cioè l’uso regolativo di un’idea metafisica per orientarci nei fatti della storia umana.

E l’idea è quella promossa dalla sua fede in un disegno finale della natura.

Tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate un giorno a svolgersi in modo completo e conforme allo scopo”, recita la prima tesi.

Gli individui degli altri esseri viventi realizzano la loro natura, quelli umani no.

Nell’uomo, che è l’unica creatura razionale della terra, le naturali disposizioni, dirette all’uso della sua ragione, hanno il loro completo svolgimento solo nella specie, non nell’individuo” precisa la seconda tesi.

Il possesso della ragione dilata a tal punto le potenzialità naturali, che nessun individuo umano, per quanto straordinario, può svilupparle appieno tutte.

“Occorre una serie indefinita di generazioni che si trasmettano l’una all’altra i loro lumi per portare i germi insiti nella nostra specie a quel grado di sviluppo che corrisponda perfettamente al suo scopo”.

E, poiché anche per Kant, come per Aristotele, la natura non fa nulla invano, cioè, senza un fine, ci dev’essere una ragione profonda di questa condizione eccezionale dell’uomo tra gli esseri viventi.

Ecco allora la terza tesi: “La natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da se stesso tutto ciò che va oltre la costituzione meccanica della sua esistenza animale e che non partecipasse ad altra felicità o perfezione se non a quella che egli stesso, libero da istinti, si crea con la propria ragione”.

Poiché “la natura non fa nulla di superfluo e non è prodiga nell’uso dei mezzi ai suoi fini”, l’uomo, avendo la ragione, deve cavarsela da sé per il cibo, i vestiti, la propria difesa e sicurezza, e per rendersi piacevole la vita.

“Pare che qui la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato la qualità animali dell’uomo strettamente, rigorosamente al bisogno supremo d’una esistenza, quasi volesse che l’uomo dall’estremo della barbarie si conquistasse col proprio lavoro la più grande abilità, l’interiore perfezione del pensiero e quindi, per quanto è possibile sulla terra, la felicità, in modo che ne avesse tutto il merito e non dovesse rendere grazie che a se stesso: e con ciò mirasse a destare in lui la stima razionale di sé più che non a procurargli un benessere. […] Pare che la natura non si sia data la pena di farlo vivere bene, ma solo si preoccupi che egli si elevi con le sue fatiche tanto da rendersi degno, con la sua condotta, della vita e della felicità. Comunque rimane sempre sorprendente che le generazioni anteriori sembrino solo affaticarsi per quelle che sopravvengono, per preparare ad esse un gradino da cui possano elevare l’edificio al quale la natura mira”.

L’uomo deve educarsi, tirandosi fuori dall’insostenibile condizione naturale: quel che diventa dipende in gran parte da lui stesso, ma la natura gli offre, provvidenzialmente, insieme alla necessità di questa impresa auto educativa, anche la forza motrice per compierla.

Il motore dell’avventura umana è una contraddittoria “tendenza insita nella natura umana” di cui tratta la quarta tesi. È “l’insocievole socievolezza degli uomini, cioè la loro tendenza a unirsi in società, congiunta con una generale avversione, che minaccia continuamente di disunire questa società”.

Nella battaglia filosofica senza fine, fra chi, come Aristotele, sostiene che l’uomo è un animale politico per natura e chi, come Hobbes e Rousseau, sostiene il contrario, Kant propone un’originale composizione di questo conflitto filosofico, riconducendolo a una provvidenziale contraddizione della natura umana stessa, di cui gli uni e gli altri avrebbero colto solo un aspetto.

“L’uomo ha un’inclinazione ad associarsi, poiché egli nello stato di società si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una tendenza a dissociarsi, poiché egli ha del pari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa ch’egli deve da parte sua tendere a resistere contro altri. Questa resistenza eccita tutte le energie dell’uomo, lo induce a vincere la sua tendenza alla pigrizia e, spinto dal desiderio di onori, di potenza, di ricchezza, a conquistarsi un posto tra i suoi consoci, che egli certo non può sopportare, ma di cui non può neppure fare a meno. Per tal modo si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell’uomo; così a poco a poco tutte le capacità si sviluppano, si educa il gusto, si pongono mediante una continuata illuminazione le basi di un modo di pensare, che col tempo trasforma in principi pratici le rozze disposizioni naturali verso una distinzione morale, e la società, da unione patologica forzata, può trasformarsi in un tutto morale. Senza la condizione, in sé certo non desiderabile, della insocievolezza, […] tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico; essi non colmerebbero il vuoto della creazione rispetto al loro fine di esseri razionali. Siano allora rese grazie alla natura per la intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione della vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio! […] L’uomo vuole la concordia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia. L’uomo vuol vivere comodamente e piacevolmente; ma la natura vuole che egli esca dallo stato di pigrizia e di soddisfazione inattiva, affronti dolori e fatiche per inventare ancora i mezzi onde liberarsi con la sua abilità anche da essi. Gli impulsi naturali che lo spingono a ciò, le fonti della insocievolezza e della generale rivalità sono causa di molti mali, ma questi però spingono a nuova tensione di sforzi, a un maggior sviluppo delle disposizioni naturali, e quindi rivelano l’ordine di un saggio Creatore e non la mano di uno spirito maligno che abbia guastato o rovinato per gelosia la magnifica opera dell’universo”.

Viene da pensare all’apologo dell’alveare di Mandeville.

Tesi quinta: gli impulsi dinamici degli uomini vanno disciplinati in un quadro di leggi che difenda gli uomini dai mali che essi si recano a vicenda.

“Solo nel chiuso recinto della società civile siffatti impulsi danno il miglior effetto, così come gli alberi in un bosco, per ciò che ciascuno cerca di togliere aria e sole all’altro, si costringono reciprocamente a cercare l’una e l’altro al disopra di sé e perciò crescono belli e diritti, mentre gli alberi che in libertà e lontani tra loro mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi”.

Il pensiero va ancora a Mandeville e alla sua concezione dell’arte politica paragonata alla cultura dell’ulivo.1

In una delle lezioni universitarie di etica tenute negli anni Settanta, parlando dell’educazione dei bambini, Kant aveva già fatto ricorso a quest’immagine degli alberi: “Come gli alberi della foresta si disciplinano a vicenda, cercando luce per crescere non ai lati, ma sopra di sé, dove non vi sono ostacoli, crescendo così alti e dritti, laddove un albero libero nei campi, non sottoposto a restrizioni esterne, crescerebbe storpio, diventando poi irriducibile a ogni disciplina, altrettanto avviene anche per l’uomo. Disciplinato per tempo, egli cresce dritto tra gli altri; trascurato diviene un albero storpio”.2

L’educazione infantile e l’educazione politica hanno entrambe a che fare con un “legno storto”. L’arte politica, però, è particolarmente difficile.

Tesi sesta: “Questo problema è ad un tempo il più difficile e quello che la specie umana impiega più tempo a risolvere”.

“L’uomo è un animale che, se vive tra altri esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone. Egli abusa, infatti, della sua libertà in rapporto ai suoi simili e se in pari tempo, come essere razionale, vuole una legge che ponga limiti alla libertà di tutti, il suo egoistico istinto animale lo induce, quando può, a eccettuarne se stesso. Egli ha quindi bisogno di un padrone che pieghi la sua volontà e lo obblighi ad obbedire a una volontà universalmente valevole, sotto la quale ognuno possa essere libero. Ma donde egli prenderà questo padrone? Da nessun altro che dalla specie umana. Ma questo padrone è a sua volta un essere animale che ha bisogno di un padrone. Egli può fare come vuole; ma non si vede come possa crearsi un organo sovrano della pubblica giustizia che sia esso stesso giusto: tale organo può ricercarsi in una persona singola, o in un corpo di molte persone scelte a tale scopo. Comunque, ognuna di esse abuserà sempre della sua libertà, se non avrà sopra di sé chi eserciti su di essa il potere secondo leggi. Il capo supremo dev’essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo”.

Ci vorrebbe una costituzione politica strutturata come certi giochi d’azzardo; come, ad esempio, quello del poker, nel quale nessun giocatore può mai essere sicuro di avere in mano carte di valore insuperabile. È il problema dei controlli dei poteri. È il problema di ordinarli in modo tale da non lasciarne nessuno senza controllo. Kant cede brevemente al sogno del capo supremo giusto, come se avesse una qualche fiducia nel dispotismo illuminato, ma è subito corretto dal suo pessimismo antropologico del “legno storto”.

“Questo problema è quindi il più difficile di tutti e una soluzione perfetta di esso è impossibile: da un legno storto, come è quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura. […] E che essa sia anche l’ultima ad attuarsi nel tempo, risulta oltre tutto dal fatto che allo scopo si richiedono giusti concetti circa la natura di una costituzione possibile; una grande esperienza, conquistata con lunga pratica del mondo; soprattutto occorre una buona volontà disposta ad accogliere tale costituzione. Sono tre condizioni che solo difficilmente e comunque assai tardi e dopo molti infruttuosi tentativi possono trovarsi riunite”.

Come nella moralità nessuno può illudersi di raggiungere in vita la santità, ma solo sperare nell’immortalità dell’anima per continuare nell’aldilà il cammino verso di essa, così nella storia umana, in nessuna età, ci si può illudere di aver realizzato la costituzione politica perfetta. Questa va pensata sempre ancora di là da venire. Il progresso è la vocazione storica dell’uomo, ma nessuna generazione si può illudere di essere arrivata al capolinea della storia. Anche perché il problema tira in ballo il rapporto esterno tra gli Stati.

Infatti, ecco la tesi settima: “Il problema di instaurare una costituzione perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo”.

Il dinamismo conflittuale che opera tra gli individui agisce anche tra gli Stati.

“Quella stessa insocievolezza, che obbligava gli uomini a darsi una costituzione, è di nuovo la causa per cui ogni comunità nei rapporti esterni, cioè come Stato in rapporto a Stati, si mantiene in libertà illimitata e quindi deve aspettarsi dagli altri i mali che opprimevano i singoli uomini e li costrinsero a entrare in uno stato civile regolato dal diritto. La natura pertanto si è valsa della discordia degli uomini, e perfino di quella delle grandi società e di quegli speciali enti che sono i corpi politici, come di un mezzo per trarre dal loro inevitabile antagonismo una condizione di pace e di sicurezza; cioè essa, mediante la guerra, mediante gli armamenti sempre più estesi e non mai interrotti, per la miseria che da ciò deriva a ogni Stato, anche in tempo di pace, sospinge a tentativi dapprima imperfetti, e da ultimo dopo molte devastazioni, rivolgimenti, e anche per il continuo esaurimento interno delle sue energie, spinge a fare quello che la ragione, anche senza così triste esperienza, avrebbe potuto suggerire: cioè di uscire dallo stato eslege di barbarie ed entrare in una federazione di popoli, nella quale ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti, non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo da questa grande federazione di popoli (foedus amphictyonum), da una forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune. Per quanto chimerica questa idea possa apparire (e come tale fu derisa da un abate di Saint Pierre o da un Rousseau, forse perché essi la credevano di realizzazione troppo vicina), certo è che questa è l’inevitabile via d’uscita dai mali che gli uomini si procurano a vicenda e che devono costringere gli Stati a quella stessa decisione (per quanto difficile essa possa riuscir loro) a cui l’uomo selvaggio non meno malvolentieri fu costretto: cioè rinunciare alla sua libertà brutale e cercare pace e sicurezza in una costituzione legale. Tutte le guerre sono quindi (non certo nell’intenzione degli uomini, ma in quella della natura) altrettanti tentativi per stringere nuovi rapporti tra gli Stati, per formare con la distruzione o almeno con lo smembramento dei vecchi, nuovi corpi politici, che a loro volta non possono mantenersi in sé, o gli uni accanto agli altri, e che perciò devono subire nuove, analoghe rivoluzioni, finché da ultimo, sia riordinando il meglio possibile la costituzione civile all’interno, sia con accordi e leggi comuni all’esterno, si costituisca una costituzione di cose che, in modo analogo a una comunità civile, possa conservarsi da sé come un meccanismo automatico”.

Kant respinge la tesi di Epicuro che anche nella storia umana regni il caso, come nel più generale movimento degli atomi. La sua speranza si regge sulla fede nella “occulta sapienza” della natura, che finirà per salvare, anche se ad altissimo prezzo di sofferenza, l’umanità dal possibile disastro che l’insensatezza umana potrebbe provocare e finirà per produrre il regno della ragione, sia nei rapporti tra i singoli che tra i popoli. La natura non abbandona la specie umana alla sua miseria, ma le impone un lungo sforzo per salvarsi.

Come la santità individuale, anche la pace perpetua richiede tempi molto lunghi. Non è un’utopia a breve.

“Pertanto ciò che la condizione deserta di finalità degli uomini barbari ha prodotto, di impedire cioè lo sviluppo di tutte le disposizioni naturali della nostra specie, finché l’esperienza dei mali a cui ciò li condannava non li obbligò a uscire da tale stato di barbarie, per entrare in una costituzione civile nella quale tutti quei germi potessero trovare sviluppo: questo stesso effetto produrrà anche la libertà selvaggia degli Stati già costituiti”. Ma “essendo ancora l’umanità a metà del suo sviluppo, la natura umana dovrà sostenere durissimi mali sotto l’ingannevole apparenza del benessere esteriore; e Rousseau non aveva torto a preferire lo stato selvaggio, sempreché si astragga da quest’ultimo stadio cui la nostra specie deve ancora elevarsi. Noi siamo in alto grado colti sotto l’aspetto dell’arte e della scienza; noi siamo civili fino alla noia in tutto ciò che riguarda le forme e le convenzioni sociali. Ma per considerarci già moralmente progrediti ancora molto fa difetto. […] Ma fino a che gli Stati rivolgono tutte le loro energie in vani e violenti propositi di ingrandimento, ostacolando per tal modo di continuo i lenti sforzi dei loro cittadini tendenti a formare interiormente la loro educazione mentale, non prestando loro alcun aiuto, nulla vi è da spettarsi di questo genere, poiché a ciò si richiede una lunga preparazione nel seno di ogni comunità per l’educazione dei propri cittadini. Ogni bene, che non s’inserisce in un sentimento moralmente buono, non è altro che mera apparenza e miseria brillante. In questa condizione rimarrà la specie umana finché non si sarà sforzata di uscire, nel modo che ho detto, dallo stato caotico dei suoi rapporti internazionali”.

Tesi ottava. “Si può considerare la storia della specie umana nel suo insieme come l’effettuazione di un occulto piano della natura per porre in essere una costituzione politica internamente (e a questo scopo anche esteriormente) perfetta, come l’unica condizione di cose in cui essa può pienamente sviluppare tutte le sue disposizioni in seno all’umanità”.

Si tratta di millenarismo, ammette Kant, ma “tutt’altro che illusorio”, anche perché l’idea di esso può giovare alla sua attuazione. Kant, anche se vede rivelarsi “solo qualche piccolo dettaglio” del disegno della natura, scrive: “Attualmente gli Stati sono già tra di loro in un rapporto così artificiosamente complicato, che nessuno Stato può trascurare la sua interna cultura senza perdere rispetto agli altri in forza e influenza, ragion per cui, anche se non vi è progresso, la conservazione di questo scopo della natura è sufficientemente assicurato dalle stesse mire egoistiche degli Stati. Si aggiunga che la libertà civile anche ora non può essere violata senza che non ne risentano danno tutte le attività, soprattutto il commercio, con conseguente diminuzione delle forze dello Stato nei rapporti esterni”. Si va affermando per gradi, “pur con intervalli di illusioni e di fantasie, l’illuminismo”. Infine la guerra, per i suoi costi crescenti e per i suoi possibili effetti destabilizzanti degli ordinamenti interni, spinge gli Stati a limitarne il ricorso e a cercare soluzioni arbitrali dei conflitti, aprendo la strada a una futura federazione di Stati. “Sebbene questa federazione di Stati appaia oggi soltanto abbozzata, comincia però a destarsi un presentimento in tutti i membri interessati alla conservazione del tutto, e ciò dà a sperare che, dopo qualche crisi rivoluzionaria di trasformazione, sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana”.

Tesi conclusiva: “Un tentativo filosofico di costruire la storia universale secondo un disegno della natura, in vista della perfetta unione civile nella specie umana, deve ritenersi possibile e nel tempo stesso deve considerarsi mezzo efficace per affrettare questo fine della natura”.

Naturalmente, precisa in conclusione Kant, con la sua filosofia della storia, in cerca di “un filo conduttore a priori” dell’avventura umana, di una “Provvidenza” della natura, non viene annullata “l’elaborazione della storia propriamente detta, concepita in maniera puramente empirica”.

Torino 25 maggio 2015

Note

1 Di Mandeville, del suo apologo e della sua concezione dell’arte politica ho scritto in Viaggio nella filosofia. Filosofi nell’età dei lumi, Università Popolare di Torino Editore 2014, pp. 17-35.

2 Kant, Lezioni di etica, Laterza 1984, p. 284.


ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015