Immanuel Kant: la vita

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Immanuel Kant: la vita

(prima parte) (SECONDA PARTE)

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Giuseppe Bailone

È difficile – scrive il grande poeta romantico Heinrich Heine – descrivere la storia della vita di Kant, poiché egli non ebbe né storia né vita. Egli condusse un’esistenza da scapolo meccanicamente ordinata e quasi astratta in una tranquilla e solitaria stradina di Königsberg, una vecchia città al confine nordorientale della Germania. Io non credo che il grande orologio della cattedrale abbia condotto a termine la sua esteriore giornata con maggior freddezza e regolarità del cittadino Emanuele Kant”.1

I romantici vedevano in Kant solo pensiero e niente vita; ma, lui non è vissuto in modo così meccanico e la sua Königsberg non era una città marginale.

È vero che Kant, nella maturità avanzata e nella vecchiaia, impegnato in un’opera originale grandiosa, lavora con dedizione totale e con metodo, conducendo una vita sempre più ritirata e scandita con regolarità rigorosa. Nei suoi primi quarant’anni, però, egli ha condotto anche un’intensa e brillante vita di società. Si può, quindi, articolare la sua biografia in due parti.

L’elegante e popolare magister e l’uomo di mondo

R. B. Jachmann, allievo e amico del filosofo, scrive: “Kant possedeva due qualità, non abbinate di solito: una profonda erudizione e una fine e socievole urbanità. Come non aveva attinto le sue nozioni soltanto dai libri, così non viveva esclusivamente per il mondo libresco. La vita stessa era stata la sua scuola, e per la vita adoperava il suo sapere: era un savio per il mondo. […] Chi conosce Kant solo dai suoi scritti e dalle lezioni, lo conosce soltanto a metà; in società infatti si rivelava compiuto filosofo. […] Kant possedeva la grande arte di parlare di qualunque argomento in modo interessante. La sua vasta erudizione che comprendeva anche le minime cose della vita comune gli offriva le più svariate materie di conversazione, e la sua mente originale che vedeva ogni cosa sotto un proprio angolo visuale conferiva a quelle materie una veste nuova e peculiare. […] Tra le sue mani le più piccole cose diventavano grandi, le più futili importanti. In società poteva quindi conversare con chiunque e la sua conversazione era accolta con generale interessamento. Con le donne discorreva di faccende femminili in maniera piacevole e istruttiva come con i dotti di questioni scientifiche. In sua compagnia la conversazione non si arenava mai. Bastava che dalla sua miniera di cognizioni estraesse un argomento qualunque per ottenere il filo di un divertente colloquio. […] La sua conversazione, specialmente a tavola, era inesauribile. […] Non che s’impancasse a fare il professore che tiene una conferenza filata; dirigeva soltanto le reciproche comunicazioni dei presenti. Obiezioni e dubbi animavano talmente il discorso che talvolta diventava per ciò stesso vivacissimo. Gli davano fastidio soltanto i contradditori ostinati e quelli che senza sforzarsi a pensare non facevano che dir di sì. A lui piacevano commensali svegli, dalla mente aperta, loquaci, che con osservazioni intelligenti e obiezioni gli offrivano il destro di sviluppare le sue idee e di esporle in modo soddisfacente. […] Va notato che Kant si distingueva non soltanto nell’arte di conversare, ma nel signorile comportamento in società. Il suo contegno aveva un nobile e libero decoro e una levità di ottimo gusto. Non era mai imbarazzato e dall’insieme si capiva che si era formato nella società e per la società. Le parole e i gesti rivelavano un suo sottile senso della decenza e convenienza. Possedeva una grande elasticità e sapeva intonarsi a qualunque tipo di società. Con le donne era di un garbo premuroso, senza mostrare alcuna affettazione. Discorreva volentieri con donne colte e conversava con loro molto piacevolmente. In genere si presentava in società da uomo di mondo la cui alta dignità interiore era messa maggiormente in rilievo dalle forme esteriori”.2

Kant nacque il 22 aprile del 1724, quarto di nove figli, quattro dei quali morirono da piccoli. Il padre, un artigiano che faceva finimenti per cavalli, carrozze e slitte, apparteneva alla piccola e rispettabile borghesia di Königsberg. Poteva, pertanto, permettersi un relativo buon tenore di vita, anche se la sua professione era in declino, per un lungo e perdente conflitto con la corporazione dei sellai, più forte: i sellai, infatti, avevano un apprendistato più lungo, potevano produrre anche i finimenti, mentre i fabbricanti di finimenti non avevano la formazione né la possibilità di fare selle. Nonostante un certo progressivo impoverimento, però, la famiglia, di orientamento religioso pietista, molto diffuso nell’ambiente degli artigiani di Königsberg, assicurò a Immanuel una buona educazione morale e culturale.

“Entrambi i miei genitori – scrisse in una lettera del 1797 – modello di onestà, decoro morale e ordine, senza lasciare un patrimonio (ma nemmeno debiti), mi hanno dato un’educazione che, considerata dal punto di vista morale, non poteva essere migliore e per la quale ogni volta, ricordandola, provo la maggior gratitudine”.3

La madre morì a quarant’anni nel 1737, il padre nel 1746 a sessantatré. Kant non aveva molto in comune con i fratelli e le sorelle e, per gran parte della sua esistenza, non ebbe legami particolari con nessuno di loro, ma li aiutò quando ne ebbero bisogno ed ebbe in tarda età un intenso scambio di lettere con il fratello Johan Heinrich, più giovane di lui e morto quattro anni prima. Al termine dell’esistenza ebbe l’assistenza affettuosa della sorella Caterina.

Kant ebbe come nome di battesimo “Emanuel”, di cui era orgoglioso, ma che modificò in Immanuel, probabilmente all’età di ventidue anni, dopo la morte del padre. Era convinto che, così modificato, esso rendesse meglio l’originale ebraico, che significa “Dio è con lui”.

Questo significato “gli conferì per tutta la vita conforto e sicurezza. In effetti, il carattere autonomo e indipendente di Kant – spiega Manfred Kuehn, bibliografo della North American Kant Society – può presupporre una certa ottimistica fiducia nel mondo come intero ordinato teleologicamente, un mondo in cui tutto ha un posto preciso, incluso lui stesso”.4

A scuola, il Collegium Fridericianum, che frequentò dal 1732 al 1740 e di cui conservò sempre un cattivo ricordo, incontrò una versione del pietismo molto lontana da quella piuttosto serena conosciuta in famiglia. Un suo amico, Hippel, scrive che “era solito dire che lo assalivano timore e ansia quando ripensava a quella schiavitù di gioventù”.5 Nelle lezioni di pedagogia di Kant non è difficile trovare negli accenti molto critici nei confronti dell’educazione scolastica il riflesso di quella sofferenza in età adolescenziale e giovanile. Per lui non si deve alimentare sensi di colpa nei bambini, bensì promuoverne il senso del dovere accompagnato da una buona fiducia in se stessi. Esattamente quello, cioè, che fecero i suoi genitori; mentre il pietismo della scuola puntava a una conversione interiore attraverso la continua ricerca del male in se stessi e la “lotta della contrizione”, che doveva piegare la volontà e alimentare la fiducia nell’intervento soprannaturale.

“Per molti gli anni della gioventù – scrive Kant – sono stati i migliori e i più piacevoli della loro vita. Ma non è così. Sono gli anni più gravosi, perché si patisce assai sotto quel giogo, di rado si può avere un vero amico, e ancora più di rado si può avere libertà”.6

Nel “ricovero dei pietisti”, come veniva chiamato il Collegium Fridericianum, i castighi e anche le botte erano a buon mercato. Kant, che riuscì sempre ad evitarle, raccontò che “una volta, quando era ancora allievo della scuola, […] un ragazzo di strada entrò dall’egregio ispettore Schiffert e gli chiese: «È questa la scuola dei pietisti?». Per tutta risposta l’ispettore gliele diede di santa ragione, dicendogli: «Ora sai dov’è la scuola dei pietisti»”.7

Questa esperienza molto negativa del pietismo lascerà il segno, soprattutto, nella sua concezione della moralità e della religione.

“Dalle opinioni di Kant su morale e religione – scrive Manfred Kuehn – traspare un netto pregiudizio antipietistico. L’insistenza di Kant sull’autonomia come chiave della moralità è anche un rifiuto dell’enfasi pietistica della necessità di un influsso soprannaturale sulla volontà umana. […] A questo periodo della sua vita vanno ricondotte l’avversione per la preghiera e i canti liturgici, e la resistenza contro ogni religione fondata sul sentimento e le emozioni. Sotto questo aspetto, l’istruzione di Emanuel non fu molto diversa da quella di Federico II, che venne pure descritta come «una storia di esperienze dolorose». Il padre devoto ma brutale di Federico, con il fermo proposito di rendere uomo quello che avvertiva come un ragazzo effeminato, usò alcuni dei metodi adoperati dai pietisti sui loro allievi. Benché le circostanze della giovinezza di Kant siano molto meno drammatiche, tutto indica che egli abbia acquisito un’analoga resistenza alla conversione. Come il principe, più grande di lui di dodici anni, Kant si allontanò dall’esame di coscienza e dalla condanna di sé propria dei pietisti, volgendosi ad altri modelli. Per Emanuel, essi andavano ricercati nei classici latini; per il giovane Federico nella letteratura francese dell’epoca. Entrambi respinsero il modello di vita religioso loro imposto. Questo è uno dei motivi per cui Kant aveva un’alta considerazione di Federico e chiamò il suo periodo non solo «l’età dell’illuminismo» ma anche «il secolo di Federico». Come lui, Kant riteneva di essere stato «trattato come uno schiavo» da ragazzo, ma, come lui, non era stato piegato”.8

E ciò, forse, avvenne anche perché, a differenza alla maggioranza dei suoi compagni, Kant ebbe la fortuna di non dover passare l’intera giornata e la notte a scuola: si presentava al mattino per le lezioni, che cominciavano alle sette e finivano alle sedici, e tornava a casa verso sera. Aveva così modo di alleggerire il peso del clima scolastico nella serenità familiare e di osservare, durante il lungo percorso da e per la scuola, la vita della gente normale.

Per lui fu comunque una fortuna essere ammesso a quella scuola: essa, infatti, preparava i ragazzi destinati ad alte funzioni nella vita religiosa e civile.

A scuola imparò molto bene a parlare e a scrivere in latino (come altri suoi compagni giocò anche latinizzare il suo nome in Kantius), curò molto lo studio della letteratura latina, provando, poi, per tutta la vita ammirazione per Seneca, ma anche per Lucrezio e Orazio; studiò, ma con meno interesse, la letteratura greca; imparò il francese tanto da capire i testi scritti in quella lingua ma non a parlarlo bene; studiò molta teologia, poca matematica e conobbe un insegnamento così negativo della filosofia da spegnere qualsiasi scintilla d’inclinazione ad essa; si segnalò per un rendimento non buono in calligrafia. Non gli venne insegnato l’inglese.

A sedici anni entrò all’università di Königsberg e poté organizzarsi liberamente l’esistenza: il regime rigido di studi e di vita del collegio era finito e nessuno poteva più costringerlo a cercare malvagità nella sua anima.

Königsberg, fondata nel 1255 dai Cavalieri teutonici, fu capitale dell’intera Prussia fino al 1701. Alla nascita di Kant, essa era ancora una delle tre o quattro città più importanti del regno e ospitava ancora un buon numero di istituzioni governative; era, per la sua posizione sul mar Baltico, un importante nodo commerciale e aveva una popolazione sui cinquanta mila abitanti e in crescita. Era la città più prussiana della Prussia e aveva con Berlino un legame più diretto della maggior parte delle altre città.

“Una grande città, – ha scritto Kant – al centro di uno Stato, in cui si riuniscono gli organi di governo di esso, che ha un’università (per la cultura scientifica) e che è sede di commercio marittimo, collegata per via fluviale con l’interno e con i paesi vicini di diverse lingue e costumi, una simile città, com’è Königsberg sul Pregel, può essere ritenuta adatta allo sviluppo della conoscenza degli uomini e del mondo anche senza viaggiare”.9

Kant non aveva bisogno di andare lontano per conoscere altre culture.

Iscritto all’università nel 1740, quando Federico II ereditò il trono, Kant iniziò una nuova vita, quella dello studente e, destino comune a molti studenti con pochi mezzi, anche quella del precettore.

“Kant non era dedito al bere e ai combattimenti, pratiche piuttosto diffuse tra gli studenti delle università tedesche del XVIII secolo. Non sembra che abbia preso parte a nessuna delle burle cui si dedicavano gli studenti. Dunque non sfilava nella cosiddetta Pantoffelparade, durante la quale gli studenti, di fronte la porta delle chiese di Königsberg, ostentavano di passare in rassegna le ragazze che uscivano da messa e ne davano giudizi. Gli studi erano per lui più importanti di qualsiasi altra cosa. Quando fu uno studente anziano, Kant aveva una sorta di seguito tra quelli più giovani, che guardavano a lui con grande ammirazione. Non soltanto faceva da tutor nelle materie di studio, ma esercitava un’influenza anche per altri aspetti. […] Rappresentava una forza morale nelle vite altrui molto prima di laurearsi e di iniziare a insegnare […]. Aveva un aspetto serio. Non rideva spesso. Benché avesse un personale senso dell’umorismo, non lo manifestava nei modi in cui erano avvezzi gli altri studenti. […] Quando veniva criticato perché non rideva abbastanza, ammetteva l’errore, aggiungendo che nessun metafisico gioverebbe tanto bene al mondo quanto Erasmo da Rotterdam e il famoso Montaigne, e agli amici raccomandava soprattutto la costante lettura del secondo. […] Non può sorprendere neppure che Kant continuasse a elogiare Montaigne anche più tardi, sebbene ritenesse che parlava troppo di se stesso”.10

Kant non era solo lavoro e studio. Aveva frequenti e intensi rapporti sociali. Frequentava locali pubblici e salotti. Giocava a biliardo e a carte.

“In un suo corso di antropologia afferma che giocare a carte «ci forma, ci rende imperturbabili, ci abitua a controllare le emozioni e può quindi esercitare un’influenza sulla nostra moralità». Probabilmente – scrive Kuehn – Kant sarebbe diventato un buon giocatore di poker”.

L’università di Königsberg, tra le università tedesche, era abbastanza grande (fra i 300 e i 500 studenti) e aveva carattere internazionale, perché attraeva studenti polacchi, lituani e di altri paesi baltici. La sua distanza da Lipsia, il centro del commercio librario tedesco, faceva sì, però, che le novità librarie vi arrivassero con molto ritardo. La filosofia insegnata era in gran parte aristotelica e ancillare rispetto alla teologia: Cartesio e altri filosofi moderni venivano studiati poco e solo per essere confutati. Era, però, più di altre università tedesche aperta alla cultura britannica. Questo spiega in parte il futuro e costante interesse di Kant per il pensiero inglese.

Finita l’università, Kant lascia Königsberg e, per sei anni, fa il precettore con buona soddisfazione delle famiglie cui offre il suo servizio, ma non sua.

“Kant pensava di essere probabilmente il peggior precettore mai esistito. Tornare a esserlo era «uno dei suoi peggiori incubi». Eppure, con ogni probabilità fu un insegnante migliore di quanto pensasse. Il modo in cui le famiglie dei suoi allievi rimasero in contatto con lui suggerisce che lo ritenessero un buon insegnante e una brava persona. La loro amichevole disponibilità fa pensare, inoltre, che forse non abbia dovuto patire il cattivo trattamento che molti poveri precettori dovettero subire nelle famiglie nobili”.11

È questo uno dei momenti in cui si allontana di più da Königsberg (cento kilometri). In genere, infatti, Kant vi resta nel raggio di cinquanta kilometri.

Nel 1755 Kant diventa magister in filosofia presso l’università di Königsberg. Ha, cioè, la licenza d’insegnare, ma non può ancora tenere corsi universitari, né ricevere alcuno stipendio dall’università: tiene le sue lezioni in aule private e viene pagato dagli studenti che riesce ad avere.

“Io assistetti – racconta Borowski – nel 1755 alla sua prima ora di lezione. Allora abitava in casa del professor Kypke, nella Neustadt, e vi aveva un’ampia sala, affollata come l’anticamera e la scala, da una quasi incredibile folla di studenti, al punto che Kant parve imbarazzato. Non avvezzo alla cattedra, perdette quasi la bussola, parlò più piano del solito e si corresse spesso, ma ciò diede un impulso tanto più vivo alla nostra ammirazione per l’uomo che già consideravamo in possesso della più vasta erudizione e lì ci pareva soltanto molto modesto e non timido. Non seguiva mai rigorosamente il riassunto sul quale si basava; gli serviva soltanto per allineare i suoi insegnamenti secondo l’ordine prefissato. La mole delle sue nozioni lo portava spesso a digressioni che però erano sempre interessantissime; quando s’accorgeva d’aver divagato troppo dal soggetto si interrompeva con un «eccetera» o «e così via» e ritornava all’argomento”.12

Fu, come insegnante, subito popolare. Le sue aule erano sempre piene. Aveva un umorismo pungente, ma restava serio anche quando con qualche aneddoto faceva ridere tutti. Era contrario a che si prendessero appunti. Amava dire: “Da me non imparerete filosofia; imparerete a filosofare; non a ripetere pensieri, ma a pensare”. La filosofia – pensava – non va trasmessa come una dottrina, come un insieme definitivo di tesi. Va praticata e promossa come ricerca personale. Non si può insegnare la filosofia. Si deve insegnare a ragionare, a pensare con la propria testa, non riempirla di pensieri altrui presentati come definitivi, come si presentano i dati storici o le verità matematiche. Assumeva e proponeva a modello il metodo “zetetico” (dal greco zetèin che significa indagare) praticato dagli scettici antichi.

Lo scrive con molta chiarezza già nel 1765 presentando un suo corso invernale di metafisica, logica, etica e geografia fisica. Lo riscrive ancora più chiaramente nelle ultime pagine della Critica della ragion pura, dove si spiega con la bella immagine della “copia in gesso d’un uomo vivente” per indicare la condizione di chi si è limitato, magari con molto impegno mimetico, ad imparare il sistema filosofico di un grande filosofo.

“Negli anni in cui fui suo allievo – scrive Borowski – prediligeva Hutcheson e Hume, il primo nel campo della morale, il secondo per le profonde ricerche filosofiche. Il suo pensiero ricevette una nuova spinta specialmente da Hume. A noi raccomandava di studiare a fondo questi due autori. Allora e sempre s’interessava a buone descrizioni di viaggi”.13

L’esperienza del viaggio, anche attraverso il racconto, suscitando sorpresa, meraviglia, spaesamento, rompe vecchie abitudini e pigrizie mentali, e può promuovere la ricerca e disporre l’animo all’attività filosofica.

A gennaio del 1758, Königsberg passò, per le vicende della guerra dei Sette anni, sotto la Russia di Elisabetta e vi rimase fino al 1762. Kant ebbe buoni rapporti con gli ufficiali russi, che avevano interesse alla vita dell’università e invitavano i professori ai loro balli e ricevimenti, ravvivando la vita in città.

“I russi contribuirono a cambiare il clima culturale di Königsberg. Circolava più denaro e vi erano maggiori consumi. […] Per alcune persone l’occupazione russa significò la liberazione dai vecchi pregiudizi e dalle vecchie usanze. Ai russi piaceva tutto quanto fosse «bello e grazioso». Le distinzioni nette tra nobiltà e borghesia si attenuarono. La cucina francese sostituì il cibo tradizionale nelle case dei benestanti. I cavalieri russi cambiarono le forme dei rapporti sociali, e la galanteria divenne un elemento della quotidianità. Bere il punch diventò una moda. Cene, balli in maschera e altri divertimenti pressoché sconosciuti a Königsberg, e malvisti dai capi religiosi, si diffusero sempre più. […] Kant trasse giovamento dalla nuova situazione. Anzitutto, in questi anni le sue condizioni finanziarie migliorarono. Non soltanto aveva alle sue lezioni, soprattutto in matematica, molti ufficiali. Ma dava loro lezioni private che, come egli stesso sottolineava, venivano pagate molto bene. In secondo luogo, partecipava anche a molte feste, in compagnia degli ufficiali russi, di banchieri di successo, di ricchi commercianti, di nobili e di nobildonne, e in particolare con la cerchia degli amici della famiglia del conte Keyserlingk. […] Kant allacciò coi Keyserlingk un rapporto speciale. Essi gli chiesero di venire alla tenuta per occuparsi dell’istruzione di uno dei figli. […] I Keyserlingk avevano precisi interessi culturali, in particolare per la musica, e il loro palazzo era arredato con i mobili, le porcellane e i dipinti più belli. La contessa s’interessava anche di filosofia e negli anni precedenti aveva tradotto in francese Wolff, il che spiega in buona parte perché Kant venne apprezzato molto presto e diventò un ospite fisso. Quasi sempre egli aveva il posto d’onore alla destra della contessa […]. Egli aveva grande rispetto per la contessa, che era di tre anni più giovane di lui. Dopo la morte di lei, nel 1791, la definì «l’ornamento del suo sesso» in una nota dell’Antropologia. Naturalmente, fra loro non vi fu mai un rapporto romantico. Il divario sociale tra Kant e la contessa era troppo grande perché si ponesse la questione. Tuttavia, per Kant la contessa rappresentava il genere di donna che egli avrebbe potuto voler sposare, se ciò fosse stato possibile”.14 Kant diventa, in questi anni, un uomo di mondo, una persona elegante, attraente, che brilla per l’intelligenza e l’arguzia, “una figura di primo piano nella società di Königsberg”.15

“Il viso di Kant – dice il suo amico e biografo Jachmann – era ben formato e in gioventù deve essere stato molto bello. I capelli erano biondi, il colorito fresco e le guance, fino a tarda età, d’un rosso sano”. I suoi occhi “parevano fatti di etere celeste donde brillasse il profondo sguardo spirituale, e il cui raggio infocato fosse un po’ attutito da una leggera nuvolaglia. È impossibile spiegare l’aspetto affascinante e i miei sentimenti di quando Kant mi sedeva dirimpetto con gli occhi bassi e a un tratto li sollevava e mi guardava. Allora avevo sempre l’impressione di guardare, attraverso quell’etereo fuoco azzurro, nell’intimo sacrario di Minerva”.16

Aveva una corporatura fragile ed era alto un metro e cinquantasette. “Aveva il petto un po’ incassato, che ostacolava la respirazione, e non era in grado di sostenere sforzi fisici. Talvolta lamentava che gli mancava l’aria. Era delicato e sensibile, nonché soggetto a reazioni allergiche. I giornali freschi di stampa lo facevano starnutire. Così, se dominava una conversazione o un’occasione sociale, non era certo grazie alla sua presenza fisica, ma per il suo fascino e il suo spirito. Per molti versi incarnava l’ideale dell’intellettuale e del letterato corrente in Germania e in Francia nel periodo del rococò”.17

Torino 19 gennaio 2015

NOTE

1 Citato da Manfred Kuehn, Kant. Una biografia, Il Mulino 2011, p. 33.
2 L. E. Borowski, R. B. Jachmann e A. Ch. Wasianski, La vita di Immanuel Kant narrata da tre contemporanei, Lettera XIII, Laterza 1969, pp. 180-83. Questo libro che fissò i tratti della vita di Kant passata alla storia – scrive Kuehn nelle pagine 24 e 25 della già citata sua biografia di Kant – è frutto di un progetto dell’editore di Kant, Friedrich Nicolovius, realizzato da tre teologi, che, nati e vissuti a Königsberg, avevano avuto rapporti in tempi diversi con Kant. Uno di questi tre, Borowsky, “alto funzionario della chiesa luterana di Prussia, uno dei primi studenti di Kant e, occasionalmente, ospite della sua tavola negli ultimi anni, uno che molti consideravano amico di Kant”, non partecipò ai suoi grandiosi funerali, “ben consapevole della dubbia reputazione di cui Kant godeva presso coloro che contavano davvero nel governo”. Gli altri avevano svolto anche funzioni di assistente e uno di loro, Wasiansky si guadagnò la fiducia del vecchio Kant fino a diventarne l’esecutore testamentario. Il loro obiettivo era apologetico, diretto a “salvare” il buon nome di Kant. “Tuttavia è il loro ritratto che ancora oggi determina in gran parte il modo in cui vediamo Kant. Egli fu reso una «personalità piatta», il cui unico tratto sorprendente era l’assoluta mancanza di qualsiasi sorpresa”. A me, però, il loro ritratto di Kant non pare così piatto.
3 Manfred Kuehn, Kant. Una biografia, ed. Il Mulino 2011. pp. 57-8.
4 Ib. p. 50.
5 Ib. p. 79.
6 Ib. p. 79.
7 Ib. p. 89.
8 Ib. pp.91-2.
9 Ib. p. 97.
10 Ib. pp. 105-7.
11 Ib. p. 156.
12 L. E. Borowski, R. B. Jachmann e A. Ch. Wasianski, La vita di Immanuel Kant narrata da tre contemporanei, Laterza 1969, p. 78.
13 Ib. p. 72.
14 Manfred Kuehn, Kant. Una biografia, ed. Il Mulino 2011, pp. 181-3.
15 Ib. p. 212.
16 L. E. Borowski, R. B. Jachmann e A. Ch. Wasianski, La vita di Immanuel Kant narrata da tre contemporanei, Laterza 1969, p. 188.
17 Manfred Kuehn, Kant. Una biografia, ed. Il Mulino 2011, pp. 184-5.

ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 19 gennaio 2015

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015