MARX E LA FILOSOFIA HEGELIANA DEL DIRITTO PUBBLICO 6

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


MARX E LA FILOSOFIA HEGELIANA DEL DIRITTO PUBBLICO

POTERE LEGISLATIVO E SOVRANITA' POPOLARE

Commentando i paragrafi hegeliani dedicati al potere legislativo, Marx, che conosce bene i limiti del suo maestro, il quale "non può commisurare l'idea all'esistente, ma deve commisurare l'esistente all'idea", si concentra su una palese "collisione" tra potere legislativo e Costituzione.

Per Hegel la Costituzione riveste un qualcosa di "sacro", in quanto è presupposta al potere legislativo; quest'ultimo, tuttavia, indirettamente la modifica, poiché vi è un continuo progresso delle leggi. Ora, come si spiega che una cosa che dovrebbe essere intangibile e che dà senso a tutta l'attività legislativa, venga indirettamente, obliquamente, modificata da questa stessa attività?

Questo si chiede Marx e quando va a cercare la risposta in Hegel deve costatare di non essere riuscito a trovarla. Hegel non spiega l'antinomia perché pone lo Stato al di sopra della società civile, come un ente separato, a se stante, e lo stesso è per la Costituzione che lo rappresenta, che viene pertanto modificata solo in aspetti del tutto marginali, che non possono mettere in discussione l'impianto generale.

La libertà che si manifesta nella società civile viene a cozzare con la "cieca necessità naturale" di uno Stato che non la rappresenta e che non può farlo. Hegel infatti non ammetterebbe mai che per una nuova Costituzione occorre una "formale rivoluzione". Le modifiche costituzionali devono anzi essere graduali, quasi inavvertite. Qui sta il lato "conservatore" della sua dialettica.

Scrive Marx su questo punto: "La categoria della transizione graduale è in primo luogo falsa storicamente, e secondariamente non spiega nulla". Sarebbe accettabile solo a una condizione (e qui Marx anticipa molte delle sue future riflessioni): che il popolo stesso diventasse il principio della Costituzione; "il progresso stesso è allora la Costituzione".

Questa cosa viene esclusa a priori da Hegel proprio perché il popolo è visto come mero elemento formale dello Stato politico, il quale, rispetto alla società civile, è "un dominio a parte".

Marx non può perdonare a Hegel di non aver tenuto conto che in Francia il potere legislativo aveva fatto la rivoluzione, dopo aver cacciato la monarchia, in quanto sentiva di rappresentare la "volontà generale" (qui ancora Marx non distingue nella categoria di "popolo", che mutua da Rousseau, le differenze di classe, e tende a contrapporla al potere governativo, monarchico, rappresentante di interessi particolari, ed anche allo stesso Stato, che è strumento della monarchia per l'oppressione della società civile).

Il popolo, in sé, ha sempre diritto di darsi una nuova Costituzione, poiché questa, "appena cessa di essere l'espressione reale della volontà popolare, diviene un'illusione pratica". Qui tra Marx e Rousseau vi è piena identità di vedute, e a non caso fu Galvano della Volpe il primo a parlare in maniera entusiastica di questa Critica.

In essa infatti vengono poste le basi di una democrazia che, in definitiva, non è molto diversa da quella che volevano i rivoluzionari francesi più radicali (anzi essa ancora non è giunta, qui, alle vette di Babeuf). Il fatto che Marx abbia poi tralasciato di approfondire questa tematica, specie dopo la sua frequentazione degli ambienti proletari parigini, documentata nei Manoscritti del 1844, avrebbe dovuto far riflettere della Volpe, nonché Cerroni che lo difende, sull'effettivo valore politico di una "democrazia" priva del suo contenuto di "classe".

Lenin sarà talmente consapevole dei limiti della democrazia borghese che non avrà riserve di alcun genere nell'usare la definizione di "dittatura del proletariato".

In ogni caso, anche attenendosi alla sola Critica, avrebbero dovuto far riflettere espressioni del genere: "E' caratteristico che Hegel, che ha tanto rispetto per lo spirito dello Stato..., lo disprezzi espressamente allorché esso spirito gli si presenta in forma reale, empirica" (come appunto quando si parla di "società civile").

Un'affermazione del genere, portata alle sue logiche conseguenze, avrebbe comportato solo una cosa: l'organizzazione della società civile contro lo Stato che non la riconosce. Qualunque altra mediazione infatti non è che una forma di opportunismo, ivi inclusa quella che prevede la sostituzione della monarchia con la repubblica.

Se Marx avesse accettato l'idea che uno Stato è sempre e comunque necessario alla società civile, non avrebbe mai scritto il Manifesto, ma si sarebbe limitato a rivendicare il suffragio universale e tutte le altre condizioni politiche che tengono in piedi una democrazia borghese. Un qualunque riconoscimento di valore a istituzioni che si contrappongono di fatto, in sé e per sé, ai bisogni reali della popolazione è, ipso facto, una forma di "misticismo".

Il fatto che Marx avesse ribaltato il modo hegeliano di vedere le cose (un modo che procedeva dall'alto al basso, dallo Stato alla società civile, un modo particolarmente conservatore, favorevole ai poteri forti, aristocratici), e che ad un certo punto portò Marx a credere che la vera alternativa non stava neppure nel porre la società civile a fondamento dello Stato, ma nel considerare quest'ultimo come un'inutile zavorra, utilizzabile al massimo come strumento per reprimere la reazione delle classi possidenti, spogliate dei propri beni dalla rivoluzione proletaria, e che in seguito avrebbe dovuto essere progressivamente liquidato, per fare finalmente della società civile il luogo dell'autogoverno popolare, avrebbe dovuto mettere sull'avviso quanti, da sinistra, ritengono lo Stato una conquista imprescindibile della modernità.

Una qualunque accettazione dello Stato come ente in sé - Marx lo fa capire in maniera chiarissima -, è paragonabile all'accettazione che i credenti hanno per categorie religiose come dio, bibbia, chiesa, papa, dogmi ecc. Si tratta soltanto di una forma di "misticismo" o di "magia" rivestita di panni laici. Identico infatti è il disprezzo nei confronti del popolo. Lo Stato, infatti, impedisce alla società civile di essere quel che dovrebbe essere.

Qui ora si potrebbero precisare due cose facendo alcune considerazioni sulla realtà attuale a livello nazionale:

  1. nell'ambito della società civile una classe, quella borghese, ha bisogno dello Stato per controllare l'altra parte della società civile, che borghese non è, e la borghesia si serve dello Stato non solo come arma repressiva ma anche come mistificazione ideologica, in quanto lo Stato viene fatto passare per ente etico, al di sopra delle parti, interclassista (ciò a prescindere dal fatto che nei Lineamenti di Hegel lo Stato rappresenta anzitutto l'aristocrazia fondiaria, e solo in subordine la borghesia commerciale e industriale);
  2. per una società civile dominata dai poteri forti dell'economia, rivendicare "meno Stato" può soltanto voler dire rivendicare "più mercato", cioè più libertà di rapina, di sfruttamento, di speculazione; sotto questo aspetto lo Stato potrebbe anche costituire una sorta di contrappeso agli appetiti della borghesia (specie se si tratta di "Stato sociale").

Dunque che fare? Continuare a rivendicare le funzioni di uno Stato sociale, assistenziale, oppure porre all'ordine del giorno una completa autonomia della società civile, demandando a una fase successiva l'affronto del problema delle classi contrapposte?

Se la prima battaglia politica dovesse essere quella di separare la società civile dallo Stato, in modo che il peso dello Stato venisse ridotto al minimo, quali potrebbero essere le condizioni per un'intesa tra borghesia e proletariato?

L'unico modo in cui potrebbero trovarsi d'accordo è quello relativo alla gestione delle tasse. Se ci si convince che una raccolta e gestione locale (cioè non centralizzata nella capitale nazionale) delle tasse comporta necessariamente un maggiore benessere per tutti, in quanto si ridurrebbero di molto le spese parassitarie di una struttura ormai diventata elefantiaca, sarebbe impossibile non trovare su questo un generale consenso (per quanto la borghesia farà sempre di tutto per pagare meno tasse possibili).

Gli unici a non essere d'accordo potrebbero essere quanti vivono in quelle zone geografiche in cui la maggioranza della popolazione, per motivi storici (cioè di storia dello sviluppo del capitalismo nazionale), è a carico dello Stato. Queste popolazioni potrebbero anche insorgere se venisse loro mancare, di punto in bianco, l'assistenza statale; con esse pertanto si dovrebbero cercare nuove forme di intesa economica.

Ma il vero problema in realtà sarebbe un altro, e cioè come realizzare una vera democrazia sociale, a livello locale, quando nell'ambito della società civile si fronteggiano classi i cui interessi sono diametralmente opposti. Qui è impossibile scongiurare un conflitto armato.

E tuttavia, in tal caso, il proletariato (urbano e rurale) avrebbe a che fare con una borghesia più debole, che non potrebbe avvalersi di apparati nazionali per reprimere forme di resistenza locale. Potrà mai la borghesia accettare la liquidazione di questi apparati in nome del fatto che con una migliore gestione delle tasse, a livello locale, potrebbe anche avere come interlocutore un proletariato più disposto a lasciarsi sfruttare in quanto socialmente più garantito?

Una borghesia del genere dovrebbe necessariamente rinunciare ad alti profitti, ma è mai esistita una borghesia del genere? Non è forse proprio la necessità di accumulare elevati profitti che induce la borghesia a non rinunciare alle funzioni repressive tipiche dello Stato nazionale?

Anche supponendo che delle aziende piccole o medio-piccole si accontentino di profitti limitati (il che è già un controsenso nell'ambito del capitalismo, in quanto nessun imprenditore ama porsi dei limiti sull'entità dei propri profitti), possono delle aziende del genere sussistere in un'economia capitalistica globale, in cui la concorrenza è a livello internazionale?

Aziende del genere possono sussistere solo se si applica il protezionismo e a condizione che la produzione locale sia sufficiente a coprire la generalità dei bisogni fondamentali del vivere quotidiano. E' noto infatti che se si applica il protezionismo sarà poi molto difficile commerciare con l'estero, in quanto le ritorsioni sono praticamente immediate.

Può dunque il capitalismo restare circoscritto entro territori locali o anche solo nazionali? Nel caso in cui il proletariato garantisse la possibilità del proprio sfruttamento e un acquisto preferenziale o unilaterale delle merci delle proprie industrie locali, potrebbe la borghesia limitare le proprie vendite su un mercato ristretto? Si è mai visto un imprenditore autolimitarsi nella propria capacità di sfruttare manodopera altrui? Può la borghesia rinnegare se stessa, cioè il fatto che il suo obiettivo principale è massimizzare i profitti e minimizzare i costi sociali della produzione, del lavoro ecc.?

Hanno un qualche senso logico le idee sul federalismo fiscale e sul federalismo in generale? E' davvero possibile ritenere che il federalismo possa essere un'alternativa allo Stato centralista, senza che in tale processo favorevole al decentramento si mettano in discussione i presupposti economici del capitalismo?

Un ritorno al primato borghese della "società civile" può soltanto voler dire un ritorno a quei conflitti sociali che ad un certo punto richiesero l'istituzione degli Stati moderni, centralizzati e repressivi.

Il federalismo è un obiettivo della piccola e media borghesia, la quale, una volta acquisito l'obiettivo, farebbe di tutto per trasformarsi in grande borghesia, riproponendo così nuovamente a se stessa l'esigenza di dotarsi di uno Stato nazionale centralizzato, al fine di controllare meglio lo sfruttamento del proletariato.

Il vero problema invece è quello di come spezzare definitivamente questo ciclo di corsi e ricorsi.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015