MARX E LA FILOSOFIA HEGELIANA DEL DIRITTO PUBBLICO 7

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


MARX E LA FILOSOFIA HEGELIANA DEL DIRITTO PUBBLICO

LA RAPPRESENTANZA POLITICA

Gli "stati" di cui parlano Hegel e Marx (qui con la minuscola) rappresentavano nella Prussia ottocentesca le comunità organizzate socialmente, secondo criteri di gerarchia e di privilegio, il primo dei quali era il principio ereditario, a tutela del patrimonio degli avi o comunque della proprietà privata. Gli "stati" in sostanza erano delle caste, delle corporazioni di arti e mestieri, delle strutture sociali di potere, tipiche, se vogliamo, di tutti i paesi feudali.

Nella visione conservatrice di Hegel - dice Marx - gli "stati" rappresentano la mediazione tra Stato e popolo, dove quest'ultimo non è che una realtà informe, con tendenze centrifughe, e quindi inevitabilmente destinata alla sottomissione. Si tratta dunque di una mediazione che deve fare gli interessi superiori della monarchia, non del popolo, in quanto questo non può appellarsi all'autonomia degli "stati" per contrapporsi allo Stato.

Gli "stati" - prosegue Marx - rappresentano per il popolo una forma di mediazione illusoria, in quanto per loro tramite vien fatto credere al popolo di poter partecipare attivamente alla gestione politica del paese, se non addirittura di potersi contrapporre alla politica del governo, cosa che in misura molto limitata riescono anche a fare. Al punto che, secondo Hegel, in questa loro attività politica scompare la distinzione tra "vita civile" e "vita politica".

Che cosa dunque rappresentano gli "stati"? A cosa li potremmo paragonare in una società capitalistica? Se consideriamo che tra l'epoca di Marx e quella attuale si sono sviluppate proprio le idee del socialismo, prima utopistico poi scientifico, quelle idee di cui il capitalismo, per continuare a sussistere come tale, ha in qualche modo dovuto recepire e rielaborare in forma propria, possiamo dire, fatte ovviamente le debite differenze, che gli "stati" li possiamo paragonare a delle associazioni di categoria o professionali e, se vogliamo, agli stessi sindacati dei lavoratori, in quanto nessun sindacato si pone mai l'obiettivo di una conquista del potere politico da parte dei lavoratori, e meno che mai se lo pongono le associazioni che tutelano gli interessi dei ceti borghesi (commerciali o imprenditoriali), che al potere già ci sono.

Per Hegel l'ideale di società - scrive Marx - era il Medioevo, quello dei privilegi, mediato però da una sorta di clericalismo laicizzato, di matrice protestantica, quale appunto era la sua filosofia idealistica. Egli s'immaginava una sorta di Medioevo riveduto e corretto, adattato ai tempi moderni, in cui l'identità di società civile e società politica fosse priva delle contraddizioni del servaggio.

Tuttavia, prosegue Marx, tale identità va esclusa a priori nello Stato prussiano tardo-feudale, in quanto è sotto gli occhi di tutti la contrapposizione tra una società civile, che ha bisogno della mediazione degli "stati" per essere valorizzata come tale, e uno Stato che si pone in maniera autoritaria, facendo leva sul proprio apparato burocratico-amministrativo e poliziesco.

Hegel infatti deve dare per scontata la presenza dello Stato burocratico, che ha, nella sua visione filosofica astratta, lo scopo di superare gli egoismi locali, il frazionamento degli interessi privati. Egli tuttavia sa bene che nella realtà non esiste alcuna vera identità di vedute o di interessi tra lo Stato e l'intera società civile (al massimo esiste con la parte di quest'ultima che fruisce di privilegi storicamente acquisiti). Pertanto egli è costretto a inventarsi un'identità di vedute fittizia, formale, una sorta di connubio in cui "dall'alto" dello Stato agiscono indisturbati i funzionari amministrativi, e "dal basso" della società cercano di far valere i loro diritti o di conservare i loro privilegi gli "stati".

Nella sua critica delle tesi hegeliane sorprende che Marx consideri il Medioevo superiore alla Prussia vetero-feudale, in quanto, pur considerando ovviamente la Costituzione rappresentativa (quella borghese) un passo avanti rispetto a quella medievale, ch'era fissa per "stati", egli deve comunque ammettere che l'assenza, in epoca feudale, di uno Stato burocratico, separato dalla società, permetteva a quest'ultima (proprio in quanto società civile) di porsi immediatamente in maniera politica, senza bisogno di particolari o di ulteriori mediazioni.

Nel Medioevo l'autogoverno della società civile offriva maggiori garanzie di unità tra civile e politico. Questo ovviamente senza dimenticare che la contraddizioni del servaggio impediva alla stragrande maggioranza dei lavoratori (i contadini) di partecipare direttamente alla vita politica. Contraddizione, questa, che indurrà Marx, di lì a poco, a considerare lo sviluppo del capitalismo una vera e propria necessità storica.

Ma su questo apprezzamento del Medioevo da parte del giovane Marx bisogna spendere altre parole, anche perché egli arriva a dire che il Medioevo era più democratico delle antiche società greco-romane, dove la società civile era del tutto "schiava" di quella politica.

Marx dice a chiare lettere (e queste sue riflessioni non verranno più riprese nella produzione successiva) che l'attività legislativa degli "stati" medievali (corporazioni ecc.) era una "emanazione", un "complemento" della loro attività politica più generale, non era affatto una "concessione" data loro dall'alto, come appunto nello Stato prussiano.

Gli "stati" privati medievali erano da subito "politici" e non per riconoscimento di un'autorità superiore. "Il principato, la sovranità, era uno stato particolare che aveva certi privilegi, ma ch'era altrettanto impacciato dai privilegi degli altri stati", scrive Marx, mostrando così, pur essendo ancora lontano da un'analisi economica della rendita e del servaggio, di aver intuito come vi fosse più democrazia politica proprio là dove si pensava fosse meno presente.

A questo punto però bisogna chiedersi - visto che prima Marx aveva detto che per Hegel l'ideale politico era il Medioevo - quali fossero su questo aspetto le differenze tra i due. La differenza sta appunto nel fatto che Hegel non vede la ricomposizione di società civile e Stato dal punto di vista della società civile, ma solo dal punto di vista dello Stato. In tal senso la riunificazione è puramente fittizia, illusoria, in quanto la società civile non resta che una semplice emanazione dello Stato: essa acquista il proprio significato politico solo in quanto appartiene allo Stato.

"Hegel -scrive Marx- tratta qui di stati politici in tutt'altro senso da quello degli stati politici del Medioevo". Egli infatti "ha presupposto la separazione della società civile dallo Stato politico e l'ha sviluppata come momento necessario dell'idea, come assoluta verità razionale". E così facendo egli "oppone la società civile come stato privato allo Stato politico", cioè come l'egoismo viene contrapposto all'etica. Lo Stato, dal canto suo, resta intoccabile, assoluto, perfetto; la società civile va invece regolamentata dall'alto, essendo incapace di autogestirsi.

Magistrale qui la conclusione di Marx, che evidentemente conosceva bene il suo maestro: "Il più profondo in Hegel è che egli sente come una contraddizione la separazione di società civile e società politica. Ma il falso in lui è ch'egli si appaga dell'apparenza di questa soluzione e la spaccia per la cosa stessa".

Marx insomma si è servito del confronto politico tra Medioevo ed Epoca moderna per dire che nell'identità fittizia dell'idealista Hegel il cittadino che voglia partecipare all'attività politica deve, nello Stato prussiano, porsi esclusivamente in maniera individuale, ovvero servirsi degli "stati" cui appartiene in maniera esclusiva, per poter entrare nelle fila dell'organizzazione statale e da qui cominciare a vedere dall'alto, come "altro da sé", la stessa società civile da cui proveniva, che altro non è se non un corpo estraneo da tenere sotto controllo. Per diventare cittadino dello Stato il politico deve negarsi come cittadino della società civile.

Tutta la critica che Marx fa della separazione tra Stato e società civile (o tra attività politica e attività sociale) verrà ripresa e approfondita nella critica che di lì a poco egli farà a Bruno Bauer nella Sacra famiglia. Ancora oggi questa critica non ha perso il suo valore politico, anche perché fino agli studi di economia Marx non smetterà mai di rivendicare alla società civile un primato sullo Stato, il tentativo cioè di riprendersi autonomamente una propria rappresentanza politica e di rivolgerla contro lo Stato.

Resta moderna questa critica in quanto la separazione tra Stato e società civile è presente anche nelle Costituzioni rappresentative delle repubbliche democratiche. Lo Stato resta sempre un'entità separata, estranea alla società civile, uno strumento politico e organizzativo che una classe sociale (quella borghese industriale) utilizza contro i lavoratori.

Questo è così vero che la partecipazione dei lavoratori all'attività statale (p.es. col carrierismo nell'amministrazione o nella politica o nelle sfere dell'ordine pubblico) si traduce sempre in una partecipazione all'oppressione dello Stato nei confronti della società civile.

Lenin diceva che bisogna comunque partecipare all'attività degli organismi statali, denunciando continuamente questa contraddizione, ma diceva anche che l'attività legale andava affiancata a quella illegale, ovvero che l'attività parlamentare doveva procedere in parallelo con quella extra-parlamentare, proprio per evitare di abituarsi a un ruolo che alla fine sarebbe risultato nocivo agli interessi dei lavoratori.

Dunque, in sintesi: il giovane Marx arrivò a dire chiaramente che la società civile aveva tutti i diritti di organizzarsi contro uno Stato che voleva tenerla sottomessa (successivamente arriverà a dire che nell'ambito della stessa società civile gli interessi del proletariato sono opposti a quelli della borghesia).

A questa analisi Lenin aggiungerà che gli interessi del proletariato possono anche parzialmente coincidere con quelli della borghesia se il peso delle contraddizioni del rapporto tra lavoro e capitale viene scaricato sulle spalle dei lavoratori dei paesi colonizzati dall'imperialismo mondiale.

La corruzione di una parte del proletariato (aristocrazia operaia) genera facilmente la corruzione degli intellettuali di sinistra, che da rivoluzionari diventano riformisti, e quindi fautori di interessi favorevoli o direttamente ai ceti borghesi o indirettamente alle istituzioni statali che rappresentano in ultima istanza quegli interessi.

Oggi la situazione nei paesi occidentali è sostanzialmente analoga a quella descritta da Lenin, con la differenza forse che ora sappiamo cogliere meglio i limiti del socialismo scientifico nei confronti dell'ambiente, del mondo rurale, della scienza e della tecnologia, della rivoluzione industriale, della statalizzazione dei mezzi produttivi e dell'umanesimo in generale.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015