Fuga di Turati

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cap. 5 - DAL PROCESSO DI SAVONA AL CONFINO DI LIPARI
La fuga di Turati
La reazione fascista all’attentato Zamboni del 31 ottobre 1926 fu immediata e brutale. L’emanazione del Testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza l’8 novembre fornì, al governo ed alla polizia, gli strumenti idonei alla persecuzione d’ogni manifestazione di volontà contraria al regime ed alla repressione di qualsiasi opposizione organizzata. L’instaurazione di un’atmosfera di terrorismo, in alcuni grandi centri, raggiunse punte di parossismo.

Con Filippo Turati, nella casa di Parigi

Di fronte ad una simile disposizione, chi come Rosselli credeva ancora alla possibilità ed all’efficacia di un’opposizione clandestina in Italia ebbe nel novembre 1926 il problema di dimostrare in qualche modo all’opinione pubblica che l’opposizione al regime non aveva cessato di esistere. Si trattava, soprattutto, di sottrarre all’arresto ed alla persecuzione quegli uomini che, lontani per mentalità dalla lotta clandestina, in Italia erano ormai dei sepolti vivi, che potevano addirittura essere strumentalizzati dal fascismo.
Per organizzare gli espatri si costituì attorno a Carlo Rosselli, Riccardo Bauer e Ferruccio Parri una piccola organizzazione clandestina. Le prime imprese andarono bene, ma presto la sorveglianza alle frontiere crebbe, fu necessario trovare ogni volta nuovi varchi per illudere la vigilanza della polizia. L’espatrio di Claudio Treves e di Giuseppe Saragat era già stato un’impresa rischiosa e delicata.
Ma a Milano, chiuso nel suo appartamento di Piazza Duomo, rimaneva Filippo Turati. La morte d’Anna Kuliscioff, nel dicembre 1925, aveva provocato nel capo riformista una crisi depressiva ed un peggioramento delle condizioni di salute.
Nella fuga ed in una ripresa dell’attività politica all’estero, Turati non riponeva speranze. Di qui la sua incertezza di fronte all’insistenza di Rosselli e di Parri che premevano per affrettare il tentativo di fuga giacché la polizia era sulle tracce dell’organizzazione.
Fu l’eloquenza appassionata di Rosselli che alla fine convinse Turati. Dopo aver chiesto inutilmente il passaporto che il governo fascista si affrettò a negargli, il capo socialista in un drammatico colloquio con Rosselli la mattina del 21 novembre 1926, si decise a lasciare Milano.
L’avventurosa fuga era iniziata. Non si trattò, certo, di un’impresa facile. Scartato l’espatrio attraverso il confine elvetico per le cattive condizioni di salute di Turati, l’idea di usare la via del mare si fece strada presto tra gli organizzatori dell’impresa. Il 2 dicembre 1926 Parri e Rosselli condussero Turati prima ad Ivrea, presso la famiglia Olivetti, poi a Torino, dove fu accolto dal professor Giuseppe Levi, infine, il 7 dicembre la comitiva si mosse con un lungo viaggio notturno in un’auto verso la Liguria.
Ma, dopo la scoperta della fuga, l’ipotesi dell’espatrio via mare assunse consistenza grazie a due informazioni.
Ad ogni modo, dopo cinque giorni di batticuore nascosti a Quigliano a casa d’Italo Oxilia, Turati ed i suoi compagni presero il largo.
La traversata fu difficile per le pessime condizioni del mare. Il motoscafo approdò la mattina dopo, alle 10, nel porticciolo di Calvi, in Corsica.
A Calvi i fuggiaschi, fattisi riconoscere ed ottenuto l’asilo politico, furono festeggiati. Turati, Oxilia e Pertini proseguirono il giorno dopo per Nizza. Parri e Rosselli decisero di ritornare in Italia. Erano entrambi convinti della necessità di proseguire in Italia la lotta al fascismo.
Ma, appena sbarcati a Marina di Carrara la mattina del 14 dicembre 1926, Parri e Rosselli furono fermati dalla guardia di finanza e poi arrestati dal locale commissario di PS. Ma Rosselli era già stato individuato come responsabile di precedenti espatri politici e, dopo una breve permanenza al Castello di Massa e a San Vittore a Milano, fu trasferito al carcere del capoluogo lombardo, dove restò fino al maggio 1927. Quindi con Parri e Bauer fu inviato per circa due mesi ad Ustica, prima di esser tradotto a Savona dove, dal 9 al 13 settembre 1927, si svolse il processo per l’affare Turati.
Ora, in prigione, come ha affermato Aldo Garosci, per la prima volta, Rosselli sperimentava l’oppressione non solo fascista, ma in generale l’oppressione statale o sociale, come raramente la può vedere chi passa la sua vita politica attraverso la calma trafila di una carriera statale. Quelle mura, quel regolamento, quelle umiliazioni cui erano sottoposti esseri umani, ecco un fatto permanente nella società contro il quale si sentiva in rivolta, che provocava una sorta di spirito libertario.
Dei dieci mesi trascorsi tra l’arresto a Marina di Carrara ed il processo di Savona ci restano alcune lettere di Carlo alla madre che compongono un quadro espressivo dello stato d’animo e dei propositi del prigioniero.
Como, 28 dicembre 1926: <<Il mio cruccio è unico: il vostro cruccio. Se vi sapessi convinti della verità della mia ottimistica asserzione, me ne starei qui tranquillissimo>>.
La serenità che deriva dalla consapevolezza dell’utilità e della necessità di un’opposizione a qualsiasi costo alla dittatura è il sentimento predominante che anima la corrispondenza di questo periodo.
Como, 4 aprile 1927: <<E’ giunta l’ora di ripiegare su una visione più calma, più distesa dell’affaire. Siamo tanti ed in così buona compagnia tra carcerati e confinati che quasi vien fatto di pensare che le persone perbene debbano ormai ricercarsi in codesti due campi>>.
Carlo respinge con risolutezza gli inviti a cedere, a chiedere clemenza.
Como, 27 aprile 1927: <<Mi avessero chiesto d’amare mia madre e mia moglie, avrei mantenuto il medesimo contegno. Non voglio adattarmi a riconoscere un’attenuazione dei miei diritti. Comunque abbia a chiudersi l’avventura personale e collettiva, voglio sortirne col mio capitale morale intatto>>.
Como, 2 maggio 1927: <<Sarei un leggero se ti dicessi che non ho avuto qualche attimo di dubbio in questi giorni pensando a voi tutti ed anche al mio avvenire. Ma la ribellione è stata immediata, istintiva. So che quasi tutti al mio posto avrebbero agito diversamente; anche i migliori. So che in questi tempi ogni impegno unilaterale è viziato dalla debolezza dell’obbligato. So forse qualcosa di più: che potrà venire anche il momento nel quale avrò quasi a pentirmi di tanta ostinazione. Sento, per istinto, che l’esempio potrà servire solo se sarà puro, perfetto, solo se servirà a dimostrare che c’è stato qualcuno che ha saputo seguire una linea di moralità, d’intransigenza assoluta>>.
E’ proprio durante i mesi di carcere a Como che si precisa meglio l’immagine ideale cui vuol rifarsi Carlo: l’oppositore, disposto a rischiare ed a perdere tutto in una lotta frontale e senza quartiere.
Il pensiero della moglie sola con un bambino nato dopo un parto difficile e preoccupante, l’arresto del fratello Nello per presunta complicità, la decisione a fine giugno 1927 del giudice istruttore di Savona nel far tradurre nel carcere della città Rosselli, Parri dalla colonia d’Ustica dove avevano passato due mesi circa sperando nell’assoluzione, non potevano non demoralizzare il fiorentino ed indurlo a pensieri pessimistici. Ma Carlo si riprese presto.
D’accordo con Parri – una volta certo il processo per la fuga di Turati – Rosselli fece di tutto per trasformarlo in una battaglia politica contro il fascismo. E trascorse i mesi che precedettero il dibattimento attuando un programma di letture vario ed indicativo: dalle Confessioni di Rousseau ai saggi del Taine, dal Marx di Franz Mehring agli scritti di Renan alla Filosofia della pratica di Benedetto Croce.
Il processo, infine, si aprì a Savona il 9 settembre 1927.
Nel febbraio di quell’anno, Carlo Rosselli e Ferrucci Parri avevano inviato al giudice istruttore del tribunale di Savona una lettera, ciascuno rivendicando apertamente il significato politico dell’impresa. Di quelle lettere vale la pena anzitutto sottolineare gli elementi comuni: il richiamo alla tradizione risorgimentale; l’insistenza sulle radici morali della battaglia antifascista.
Nel suo scritto, Carlo afferma che la fuga di Turati <<voleva essere un grido d’allarme al mondo civile, voleva offrire la viva prova della definitiva rottura tra due Italie, tra due razze morali, tra due opposte concezioni di vita e conclude con la certezza che la sua modesta azione si ricollega, per lo spirito che la informa, a quelle dei grandi che combatterono per l’indipendenza italiana>>.
A prescindere, insomma, dalle differenze d’accento che si ritrovano nei due scritti prevale in entrambi la rivendicazione dello Stato liberale moderno, della società – imperfetta ma aperta al miglioramento ed al progresso – distrutta dalle leggi eccezionali del regime.
Anche in Rosselli c’è l’esaltazione di <<quei supremi valori sociali che un popolo sa difendere solo quando ne ha pagato a suo prezzo la conquista>>.
L’analisi è indicativa dello stato d’animo e della concezione politica rosselliana: tanto più se si accosta alla lettera che il giovane scrisse a Turati subito dopo la conclusione del processo. In quella lettera, Carlo affermò che il duello finale tra l’avvocato che lo difendeva ed il pubblico ministero, era stato molto simbolico: <<Da un lato lo Stato – questo Stato con la sua forza cieca, brutale, soffocatrice – dall’altro tutto un grande patrimonio giuridico e la coscienza morale dell’individuo che ad un certo punto rivendica con gli atti il supremo diritto alla ribellione>>. E, quanto alle prospettive politiche della lotta antifascista, Rosselli insisteva sul ruolo del socialismo come forza mediana tra gli opposti estremismi: <<Quel che però mi pare assodato è che la gente è stufa, che il popolo ha bisogno per rinnovarsi di potenti elementi sentimentali; infine occorre dare un’anima ed un contenuto più preciso, indipendente, alla nostra posizione oppositoria che deve essere la risolvente dei due bestiali estremi>>.
Il dibattimento, svoltosi dal 9 al 13 settembre, non soltanto permise agli imputati, ed in particolare a Parri e Rosselli di svolgere le tesi anticipate e di mettere sotto accusa il regime dittatoriale, ma mostrò un pubblico in larga parte favorevole alla difesa.
I tre giudici sapevano quello che significava il processo.
Quando il tribunale alle 21.45 del 13 settembre rientrò in aula ed il presidente Sarno lesse la sentenza, il pubblico non nascose la gioia, i fascisti la rabbia.
Per Carlo Rosselli, il processo era stato una sconfitta fascista, anche se la Commissione di polizia gli aveva inflitto cinque anni di confino ancora da scontare.
Rosselli restò altri due mesi nel carcere di Savona, poi venne tradotto a Lipari. Ma era ben deciso a non restarci cinque anni. <<Piani per l’avvenire non ne faccio – scrisse a Turati il 18 settembre dal carcere di Savona – credo però che non rimarrò più di un anno al confino>>.
Con la conclusione del processo di Savona, ha inizio una fase nuova dell’esperienza politica ed umana di Carlo Rosselli.
La dedizione completa alla causa dell’antifascismo caratterizza l’ultimo decennio della sua vita. Proprio nel ’27 si consuma il distacco, doloroso e definitivo; i progetti di ricerca scientifica cedono il posto all’impegno assorbente richiesto dall’elaborazione di una strategia politica contro il fascismo.
E’ il momento dell’azione: ed è il momento di Rosselli.
<<Tu conosci questi miei eccitamenti intellettivi – scrisse Carlo alla madre subito dopo il processo -. So che li soddisferò solo nell’azione, che è e sarà il mio regno>>. Come dirà a riguardo Nicola Tranfaglia, c’è in questa frase tutto Rosselli.
Quindi una volta processato fu confinato a Lipari, dove giunse alla fine del dicembre 1927.
Per Carlo il confino è <<una falsa apparenza di libertà>>, e così scrive dopo qualche mese a Lipari: <<Il confino è una grande cella senza muri, tutto cielo e mare>>.
In carcere o al confino, vengono i momenti del dubbio, che colgono anche i più forti spiriti, ma in Carlo permane durante questo lungo periodo la certezza di difendere la giusta causa, e perciò non è disposto a compromessi, egli è consapevole di vivere, come confinato, una vita miserabile, ma è anche convinto che tutte queste sofferenze non sono inutili, e confessa: <<Sento in me una così fiammante certezza ed una così perfetta rispondenza tra vita esteriore e dettami della coscienza che veramente oggi non saprei desiderare molto di più>>.
In questo periodo Carlo non si lascia abbattere dallo scoramento, anzi egli incomincia a sentire la missione del leader politico. Il senso della missione prevale in Carlo come impegno morale durante tutto il periodo della non libertà, in carcere e al confino. E’ da pochi mesi a Lipari, e scrive: <<A forza di stare in un’atmosfera di eccezione, tutti i rapporti, tutti i valori, mi si presentano capovolti o stranamente deformati>>.
Le deformazioni non toccano la determinazione del proprio dovere. E per rassicurare l’animo della madre, aggiunge: <<Sono imperturbabilmente sereno, convinto più che mai dell’utilità della mia esperienza>>.

Luigi Rocca - Tesi di laurea in Filosofia Politica - Anno Accademico 2001/02 - Relatore: Prof. Giovanni Giorgini
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Ultimo aggiornamento: 02-mag-2008