Il confino

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cap. 6 - SOCIALISMO LIBERALE
Il confino
Nel gennaio 1928, dopo aver scontato i dieci mesi di carcere al quale il Tribunale di Savona l’aveva condannato, aver subito una nuova assegnazione a confino per cinque anni, e passato l’abituale processo delle traduzioni, Rosselli sbarcava nella nuova isola di relegazione che gli era stata data come residenza forzata: Lipari, la principale delle isole Eolie.
Delle varie isole di confino, quelle appartenenti al gruppo delle isole Eolie, esse erano tuttavia le più civili.

Carlo Rosselli confinato a Lipari (1927-1929)

Ma Rosselli aveva avuto a Lipari una gioia più grande; quella di potervisi riunire, poco dopo il suo arrivo, con la moglie, che aveva portato con sé il primo dei bimbi, nato durante la prigionia del marito: Giovanni Giacomo, affezionatamente noto come il “Mirtillino”. La moglie, il figlio, la possibilità di studiare, dei nuovi amici; che cosa di meglio si poteva desiderare? Quei primi tempi a Lipari con il suo fresco, diverso, interessante ambiente, sembrarono alla signora Rosselli un altro viaggio di nozze; una breve oasi di curiosa pace in mezzo ad una vita agitatissima.
Tutto questo, tuttavia, non diminuiva il fatto che la prigione, è prigione sempre. Ben presto Rosselli cominciò a sentire acutamente quelli che erano i limiti del confino, a soffrire, a reagire contro di essi.
Senz’altro, la prigione ed il confino, anche se esaltano l’uomo al di sopra di se stesso nel momento del sacrificio sono veramente nell’assieme strumenti per far ciò per cui furono immaginate; per punire, umiliare, comprimere la personalità. E Rosselli non accettò mai umiliazioni del suo io profondo.
Quest’umiliazione Rosselli ha chiamato con quel suo stile <<vita da pollaio; falsa apparenza di libertà>>; <<No, no, non sono nato per il pollaio>>.
No, contro l’acquiescenza, contro la prigione, contro la cristallizzazione mentale, Rosselli doveva prendere posizione continuamente, in quei mesi di confino. Contro l’acquiescenza Rosselli lottò prendendo sempre posizioni che facessero vedere com’egli restava lo stesso antifascista di sempre.
Contro l’ambiente, Rosselli lottò scegliendo come amici uomini che sentivano come lui la lotta antifascista, che avevano interessi mentali e morali analoghi ai suoi.
Con Rosselli erano venuti al confino Parri e Silvestri. Con essi continuava la relazione d’affettuosa amicizia contratta in prigione, variata e fatta più profonda dall’acquisita libertà. A queste amicizie ed influenze altre nuove se n’associavano.
Quelle che Rosselli chiama le sue scoperte sono: Gioacchino Dolci, giovane operaio romano; Paolo Fabbri, contadino di Molinella; un sognatore sentimentale di nome Porcelli.
Questi, insieme con i due, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, erano i frequentatori ordinari della casa Rosselli.
Accanto alle consolazioni dell’amicizia, c’erano pur quelle della vita mondana. Carlo studiava il tedesco insieme con un gruppo di confinati, sotto la guida di un giornalista sloveno e cristiano, Kralj.
In generale, la casa di Rosselli era frequentatissima, e Rosselli riusciva molto simpatico. Quest’unanimità di simpatie era tanto più notevole, giacché egli era in un certo senso privilegiato – con una casa, una famiglia, una tranquillità economica - in confronto di una massa per cui numerosi erano gli stenti. Ed in un ambiente di comune prigionia, facilmente i privilegi anche piccoli provocano inevitabili ostilità. Nessuna traccia di questa nei riguardi di Rosselli: un via vai continuo in casa. La semplicità, la bontà naturale di Rosselli mettevano immediatamente i rapporti sul piano umano, su un piano di fondamentale uguaglianza.
Come avevo accennato alla fine del capitolo precedente, alla fine del 1928 ha inizio un terzo momento della riflessione rosselliana, la quale aveva dato i primi spunti durante il carcere a Como e stava per avere un approdo conclusivo al confino di Lipari.
Verso la metà del 1928 usciva a Parigi, pubblicata da Alcan, la seconda edizione francese dell’opera di Henri De Man, “Zur Psychologie des Socialismus”, con il titolo “Au delà du marxisme”.Qualche mese dopo André Philippe pubblicava a Parigi il suo opuscolo “Henri De Man et la crise doctrinale du socialisme”, nel quale erano esposte le tesi sostenute da De Man al congresso dei socialisti neo – fabiani di lingua tedesca, tenuto in Germania nel maggio 1928.
L’opera di De Man suscitò commenti e discussioni, e riaccese le polemiche sulla crisi del marxismo tra moderati e rivoluzionari. In Italia, su consiglio di Benedetto Croce, nel maggio 1929 vide la luce la traduzione italiana, a cura di Alessandro Schiavi, un amico di Carlo Rosselli, con il titolo “Il superamento del marxismo”.
Rosselli legge nel dicembre 1928 l’edizione francese, “Au delà du marxisme”, e riassume quest’opera in 28 pagine, raccolte nel fascicolo uno dell’inserto ottavo. Dopo la prima lettura del testo di De Man, Carlo dà questo giudizio complessivo: <<Ecco un libro, anzi, ecco il libro, il mio libro, il libro che avevo tante volte sognato di scrivere. E’ la confessione coraggiosa, onesta, acutissima di un marxista disincantato, o meglio di un socialista convinto e praticante che vede volatizzarsi il verbo marxista alla luce dei fatti. Solo ora l’ho potuto leggere io. Detto dell’autore, diciamo delle sue idee essenziali. Ma prima occorre fissare l’indice su un fatto essenziale: questa è la prima grande critica dissolvente del socialismo scientifico per opera di un socialista appassionato. Era ora. Perché le critiche verso i movimenti vivi e vitali riescono ad incidere solo se pronunciate dall’interno da parte di persone insospettabili. Nel movimento socialista l’eretico ha diritto di cittadinanza solo a patto di essere il primo nell’azione concreta e nei sacrifici. Perché non ha diritto di togliere alle masse qualche illusione se non chi per queste masse e fra queste ha dedicato la vita.
Il compito che egli si propone con questo libro è orgoglioso: liquidazione del marxismo, per riavvicinarsi ad una concezione che riponga al primo piano l’uomo in quanto soggetto di una reazione psicologica. Ma l’autore ci avverte che egli ha preferito esporre le sue idee in una forma che ponga nel modo più netto in intero tutto ciò che separa la sua concezione da quella marxista. E ciò per due motivi: desiderio di sincerità e speranza di assicurargli un effetto maggiore. La sua critica vuole essere piuttosto una critica al marxismo>>.
L’opera di De Man esercitò una forte impressione su Rosselli, e recentemente Nicola Tranfaglia in un saggio “Sul socialismo liberale di Carlo Rosselli” ha ripetuto che egli considera “Socialismo liberale” nella parte ricostruttiva come una sorta di adattamento dell’opera di De Man.
E’ da esaminare come Carlo riassume e commenta le varie parti dell’opera di De Man: “La crisi del marxismo”, <<pagine acutissime>>; “L’inferiorità della classe operaia”, <<l’unica parte del libro che convince poco>>; “I fini”, <<il tentativo di spiegare scientificamente l’adesione delle masse all’ideale socialista, facendo ricorso ai dettami della psicologia freudiana, non mi pare anche qui molto felice>>; “Il posto degli intellettuali”, <<E’ un capitolo confuso. Il libro da questo punto di vista è difettoso. Si richiama ai fabiani>>. <<Occorre trasformare la società da acquisitiva in funzionale>>; “L’imborghesimento proletario”, ma <<elevazione quantitativa dei bisogni culturali nel laburismo>>; “La dottrina”, <<è la parte più originale del libro e più personale>>; “Critica dell’edonismo economico marxista”, <<è una posizione veramente originale che richiederebbe però una dimostrazione vigorosa logica>>; “La classe”, <<è una nozione sociale>>. “Il determinismo marxista”, <<con un’abile dimostrazione De man dimostra il fallimento delle previsioni marxiste>>; “Marxismo puro o volgare”, <<ricordare quanto scrivevo pure io>>; “Il suo credo”, <<non è riformista, per lui fascismo e bolscevismo vogliono la felicità delle masse, ma per pura politica di potenza>>.
Rosselli nel leggere l’opera di De Man sulla crisi del marxismo crede di trovare in essa un solido sostegno dottrinale per combattere il revisionismo di Rodolfo Mondolfo ed andare al di là del marxismo.
Seguendo la citata traduzione dell’opera di De Man (Il superamento del marxismo) questi propone una soluzione unitaria d’origine Fabiana, per permettere rapporti fruttuosi tra il socialismo operaio ed il socialismo degli intellettuali: <<I fabiani, infatti, partivano dall’idea giustissima che gli intellettuali costituivano già la classe dominante in quanto che essi adempivano la funzione di dominio. Quindi, per attuare il socialismo, basterebbe convertire gli intellettuali, inducendoli, con la persuasione individuale, a mettere il meccanismo sociale che essi manovrano a servigio della comunità, e ad enucleare così lo Stato, fino al punto da trasformarlo gradualmente in un’organizzazione per la community>>.
Rosselli interpreta l’opera di De Man come un contributo per capire l’orientamento fabiano del laburismo inglese, e n’accetta la parte antimarxista come logica conseguenza.
A dire di De Man, socialismo e comunismo avevano alle spalle la letteratura socialista tedesca, la quale come sosteneva Roberto Michels, ricalcava le sue espressioni sulla terminologia militare. Si capisce, aggiunge De Man, che una tale concezione militare tedesca ripugni all’Inglese, il quale, sia conservatore o socialista, invece <<considera l’organizzazione politica e giuridica come un mezzo per attuare fini individuali e mantenere intatti i diritti individuali>>. <<L’Inglese non conosce disciplina di partito ed è fiero che i suoi partiti – al pari dei suoi sindacati – siano organizzati secondo un principio autonomista e federalista>>. <<Quando l’Inglese difende gli interessi di classe, lo fa per sé; quando vuole conquistare per la classe operaia un avvenire migliore, crede di obbedire ad un comandamento etico – personale>>. <<Il Labour Party condivide le aspirazioni pacifiche del socialismo, che vuole evitare la guerra, organizzando l’Europa ed il mondo in un’unità giuridica supernazionale>>.
Carlo è d’accordo che un partito socialista democratico dovrebbe avere come modello il partito inglese, e quindi a Lipari continua a seguire le vicende del partito laburista. La notizia delle elezioni in Gran Bretagna fissate per il maggio 1929 gli suggerisce di riprendere in mano il libro di J. Ramsay MacDonald, dal titolo “Direttive politiche per il Partito del lavoro”, pubblicato a Milano nel 1924. MacDonald sosteneva che la concezione di classe finiva per considerare il proletariato un mondo da tenersi sotto tutela. Il Labour Party, invece, per propagare il socialismo aveva inteso formare un’associazione politica del lavoro distinta dagli altri partiti, basata sopra idee di ricostruzione sociale e sostenuta da persone di tutti i ceti e gradi della vita. Il Partito del Lavoro era ormai diventato una combinazione d’unioni operaie, di società cooperative e socialiste, di società professionali e di partiti laburisti locali.
MacDonald rivendicava nel capitolo III una concezione laburista della società, e sosteneva che <<in una società bene ordinata le classi professionali od operaie devono essere il completamento l’una dell’altra e alleati naturali nel governo dello Stato>>. La guerra aveva spinto a rivedere in particolare l’antagonismo tra classe media e classe operaia; soltanto l’unione e la solidarietà avrebbe rafforzato entrambe le classi. Quest’intesa poteva essere raggiunta con una nuova concezione del lavoro nella società, e interpretando il progresso come lo sforzo di tutta la vita della società verso la libertà. Il Partito del Lavoro mirava ad una società a reciproco aiuto ed a diverse funzioni tutte ispirate a concetti di bene comune.
Questo discorso politico è recepito da Carlo Rosselli, soprattutto quando MacDonald precisava che per il Partito del Lavoro pervenire al governo non voleva dire pervenire al potere. Questo partito considerava il Parlamento com’espressione della vita civica della società, e la pubblica opinione come l’unica creatrice di cambiamenti duraturi; il Partito del Lavoro intendeva adattare il Parlamento alle nuove funzioni di governo per realizzare una democrazia intelligente ed una rappresentanza effettiva; per il Partito del Lavoro governare voleva dire interessarsi ai problemi vitali della società ed ordinarla a sicura libertà; il suo programma era un nuovo ordine sociale.
La posizione laburista, condivisa da Rosselli, era esposta nella “Conclusione”: il Partito del Lavoro impostava una solida politica nazionale capace di abbracciare gli interessi della gran massa del popolo lavoratore e gli interessi di tutte le classi che sono utili alla società. Nell’assemblea rappresentativa dovevano trovare posto gruppi differenti ed opposti, con proprie filosofie dello Stato. Era il Parlamento a divenire nazionale, accogliendo la rappresentanza di tutte le tendenze politiche che lavorano in libertà.
Rosselli a Lipari, condannato dal partito nazionale fascista, è uno sconfitto, ma, forte delle sue convinzioni politiche, dopo una lunga riflessione scrive il suo “libro”nell’intento di attribuire alla dottrina marxista una grave responsabilità nel fallimento del movimento socialista italiano; propone così una rivoluzione morale fatta in nome della libertà.
Gli studiosi di Rosselli, come rileva a ragione Salvo Mastellone, non hanno evidenziato la concomitanza tra la stesura del suo libro a Lipari nella prima metà del 1929 e la ripresa politica dei laburisti in vista delle elezioni del 1929. Scrive alla madre il 24 febbraio: <<Le mie migliori ore di lavoro sono la sera, quando mi riesce di piazzarmi alle nove-dieci>> e, proprio perché rivive le speranze del 1924 nel Labour Party, riprende in considerazione il volume “La rivoluzione liberale” di Gobetti, pubblicato nel 1924, edita dall’editore Cappelli di Bologna.
Anche Gobetti nel suo libro indicava un programma di lavoro, ma nella concisa introduzione chiariva: <<Se ci richiedono dei simboli: Cattaneo invece di Gioberti, Marx invece di Mazzini>>. Nella seconda parte del libro erano sottolineati i torti della teoria liberale e l’immaturità democratica. Esaminando, poi, “La lotta politica” condotta dai diversi partiti, Gobetti, a proposito dei socialisti parlava della loro tragicommedia dell’indecisione, e per lui il maggior responsabile era Filippo Turati, il quale riteneva possibile arrivare pacificamente ad un mutamento radicale economico, aderendo alla rivoluzione con le parole.
Polemico anche il capitolo VI su “Lo spirito del partito d’azione”, accusato di non aver avuto altra risorsa per decenni, fuor di una banale campagna moralizzatrice. Secondo Gobetti: <<la critica dei giovani repubblicani al fascismo corruttore coincide oggi con la nostra, ma nel momento in cui bisognerà scegliere tra uguaglianza e libertà la guida di Mazzini non li trarrebbe certo dall’equivoco, perché nel mazzinianismo il nucleo centrale resta una dottrina democratica conservatrice>>.
Rosselli non dimentica neanche la lettera inviata al giornale “La libertà” da Piero Gobetti: <<Bisogna aver il coraggio di affermare che questa è l’ora di Marx. Il materialismo storico e la teoria della lotta di classe sono strumenti acquisiti per sempre alla Scienza Sociale e che bastano alla sua gloria di teorico>>.
Rosselli egualmente intende scrivere un libro di teoria liberale contro il fascismo, ma questo suo libro ha un’altra finalità; egli mira ad una rivoluzione liberale del socialismo, e scrive nella prefazione: <<Questo libero vuol essere la confessione esplicita di una crisi intellettuale che io so molto diffusa nella nuova generazione socialista>>. Ma quale metodo seguire nella stesura di questo libro? Una via idealistica oppure una via positivista?
Il 24 novembre 1928 Carlo spiega da Lipari alla madre, volendo affrontare il problema delle autonomie: <<Ecco perché Cattaneo m’interessa. Si è parlato sino alla noia di regione e di regionalismo, di decentramento istituzionale, ma troppo astrattamente, senza riferimento agli interessi veri, reali, viventi, cui effettivamente occorre dare quell’articolazione che oggi difetti loro completamente>>.
Delle opere richieste alla madre tra il dicembre 1928 e il gennaio 1929, certo è l’arrivo del volume di Alessandro Levi, “Il positivismo politico di Carlo Cattaneo”, un saggio metodologico d’ampio respiro, nel quale Levi discuteva dell’idealismo etico di Mazzini e del positivismo umanistico di Cattaneo, ma, riproponendo la propria fede nel principio della libertà, sembrava ricordare a Carlo che bisognava ispirarsi alle idee sociali e politiche del Cattaneo, improntate a coraggioso amore d’ogni progresso.
Nel primo capitolo Levi rilevava che il pensiero politico di Mazzini discende da un concetto dell’umanità e perviene all’unità d’Italia, invece il pensiero del Cattaneo muove dall’osservazione attenta di dati geografici, di tradizioni storiche, e sale di grado in grado, all’idea della federazione italiana, per sollevarsi di qui all’auspicio degli Stati Uniti d’Europa. Levi proponeva una filosofia politica come sintesi tra l’idealismo etico del Mazzini ed il positivismo umanistico del Cattaneo, tutto animato dal principio di libertà e da un’ispirazione storicistica.
Questa sintesi tra Mazzini e Cattaneo è il riflesso della filosofia della socialità dello stesso Levi, tesa a sviluppare la personalità in armonia con gli scopi che si propone la società. Levi con la sua personalità e con i suoi studi sembrava dire a Rosselli, confinato a Lipari, che <<l’evoluzione economica e le idee democratiche hanno fatto sì che lo Stato moderno sia sempre più aperto alle suggestioni dei bisogni e delle idealità delle differenti classi sociali, e che il concetto stesso di società civile debba includere come componente importante le classi lavoratrici>>.
In altre parole, per studiare e valutare la progressiva espansione della società civile, Levi consigliava di tenere conto dello storicismo sociale e del liberalismo positivo. Rosselli sapeva bene, però, che prima di tutto doveva fare i conti con il marxismo revisionistico.

Luigi Rocca - Tesi di laurea in Filosofia Politica - Anno Accademico 2001/02 - Relatore: Prof. Giovanni Giorgini
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Ultimo aggiornamento: 02-mag-2008