DALLA CREAZIONE ALLA CADUTA. ANALISI DEL GENESI


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DAL COLLETTIVISMO ALL'INDIVIDUALISMO

Adamo e gli animali, Monastero di Dochiariou, Monte Athos, XVI sec.
Adamo e gli animali, Monastero di Dochiariou, Monte Athos, XVI sec.

Premessa

Nel libro del Genesi la colpa originaria dell'uomo, quella in forza della quale egli ha potuto abbandonare il comunismo primitivo e lanciarsi nell'avventura delle società divise in classi antagonistiche, non sta nell'aver voluto acquisire la conoscenza, poiché l'innocenza dell'uomo primitivo non era legata all'ignoranza, come d'altra parte non lo è oggi, né ha senso connettere la conoscenza alla colpevolezza.

L'unica vera ignoranza che aveva era quella sulle conseguenze ch'egli poteva subire su di sé se in luogo del collettivismo avesse scelto l'individualismo. Che poi una parte di conoscenza doveva averla, in quanto non gli sarebbe stato possibile cadere nella tentazione dell'individualismo se questa opzione esistenziale non fosse stata già praticata da qualcuno nel momento della scelta (a meno che non si voglia affermare che la caduta era inevitabile, in quanto nell'uomo esiste qualcosa d'imperfetto: cosa che però non spiegherebbe perché per milioni di anni l'uomo poté vivere in armonia con se stesso e con la natura). Il racconto del Genesi vuole rappresentare simbolicamente il mutamento avvenuto in uno stile di vita condizionato da uno stile di vita opposto. Ovvero il passaggio da una negatività di pochi a una di molti, ovvero una negatività di molti che condiziona sempre più la positività di pochi.

Per il resto l'ignoranza di Adamo era relativa al suo tempo storico, e la sua innocenza era consapevole, altrimenti non ci sarebbe stata colpa, ma solo inevitabile destino. Egli era perfettamente consapevole dei vantaggi del collettivismo, e questo tuttavia non gli impedì di metterli in discussione finendo con l'accettare l'individualismo.

La differenza tra ebraismo e paganesimo, nelle cosmogonie, sta proprio in questo: che la libertà umana, nell'ebraismo, gioca un ruolo rilevante. L'uomo non è mai obbligato a peccare, ma se lo fa, è obbligato a pentirsi, se vuole tornare a essere “umano”. Non esiste un fato che lo induca a fare ciò che non vuole.

Ecco, in questo senso, se l'uomo contemporaneo accettasse consapevolmente il collettivismo libero, lo farebbe con una consapevolezza che l'uomo primitivo, prima di rompere col collettivismo, non poteva avere, se non indirettamente, osservando dall'esterno le forme individualistiche di quei soggetti che già avevano rotto con il collettivismo. Non per questo, tuttavia, la libertà dell'uomo contemporaneo sarebbe superiore a quella dell'uomo primitivo. Non è la consapevolezza di ciò che l'individualismo permette di fare, che di per sé rende più liberi.

Il Genesi comunque non vuole essere una lode dell'ignoranza, in quanto sarebbe assurdo immaginare che il “frutto della conoscenza” fosse destinato a non essere mai mangiato. L'uomo primitivo avrebbe potuto beneficiare dei vantaggi dell'individualismo senza per questo dover rompere con la prassi del collettivismo. L'antinomia individuo/comunità è falsa, poiché la colpa sta proprio nell'aver voluto contrapporre l'individuo alla comunità, cioè di “aver scelto” una valorizzazione unilaterale dell'individuo senza passare attraverso la mediazione del collettivo. Si badi: qui non si vuole considerare il collettivismo in maniera astratta; il passaggio all'individualismo dipese in buona parte anche da alcuni elementi di crisi che necessitavano d'essere risolti. La scelta a favore dell'individualismo dipese appunto dal fatto che non si volle cercare nelle modalità del collettivismo la soluzione delle contraddizioni, che ad un certo punto si erano sviluppate in questa formazione.1

Il Genesi comunque non ha l'intenzione di rievocare nostalgicamente il periodo infantile e primitivo dell'umanità, poiché se è indubbiamente un testo che guarda al passato, essendo stato scritto in un periodo storico di crisi e di decadenza, esso ha anche un'esigenza volta verso il futuro, com'è tipico della cultura ebraica (che, proprio per questa ragione, è sempre stata una delle culture più avanzate della storia). Il Genesi infatti non rappresenta tanto la rievocazione della felicità perduta, quanto il desiderio di ritrovarla.

Dunque, la felicità è stata perduta non perché l'uomo ha acquisito la consapevolezza del male, ma perché, nell'acquisirla, ha rotto un rapporto di solidarietà (i credenti qui usano l'espressione “comunione con Dio”). L'uomo primitivo si è cioè staccato dalla comunità d'origine in modo arbitrario, affermando un potere personale, individuale (acquisito, in questo caso, attraverso la violazione di un divieto), contro le consuetudini vigenti nell'ambito della comunità. La contrapposizione quindi non è tra ignoranza e conoscenza, ma tra solidarietà e arbitrio, tra collettivismo e individualismo. E il divieto era appunto relativo alla pericolosità di un certo modo di vivere l'individualismo, anche se proprio la sua presenza “giuridica” era già indice di una tentazione o di una debolezza interna al collettivo.

Certo, si può qui obiettare che la consapevolezza piena del male non avrebbe potuto essere acquisita se l'uomo non ne avesse fatta diretta esperienza. In tal senso la minaccia del castigo della “morte” poteva essere colta dall'uomo collettivista solo nel suo significato simbolico, come qualcosa di “terribile” che gli sarebbe potuto accadere se avesse scelto la strada dell'individualismo.

Tuttavia, l'uomo collettivista non aveva bisogno di vivere l'esperienza dell'arbitrio per comprendere la differenza tra il bene e il male. Questa differenza già la conosceva, altrimenti non ci sarebbe stata neppure la tentazione di trasgredire il divieto. E, in un certo senso, egli conosceva anche gli effetti della trasgressione, benché non ancora su di sé come entità collettiva. L'uomo può vedere al di fuori di sé gli effetti del male senza per questo doverlo compiere.

Non si può sostenere che il divieto non avesse alcun senso, in quanto la consapevolezza della sua gravità l'uomo avrebbe potuto capirla solo dopo averlo trasgredito. Doveva già esistere una consapevolezza della colpa, solo che questa colpa era stata compiuta da soggetti esterni alla comunità o che dalla comunità erano già usciti. E lo stile di vita che questa colpa aveva generato costituiva una tentazione per quel collettivo che ancora non l'aveva compiuta.

L'albero della vita, cioè del bene, e l'albero della conoscenza del bene e del male potevano tranquillamente coesistere nel medesimo giardino. Si trattava soltanto di non cedere alla tentazione di stabilire autonomamente, senza la mediazione del collettivo, la differenza tra bene e male.

Sarebbe comunque sbagliato sostenere che la trasgressione, essendo già presente in qualche modo l'individualismo, fosse inevitabile. Il racconto vuole appunto dimostrare che, pur in presenza del “serpente”, si trattò di compiere una libera scelta, cioè una scelta che avrebbe potuto essere evitata. Se non ci fosse stata la libertà di scegliere, cioè di assumersi una responsabilità personale, l'uomo non avrebbe potuto pentirsi della scelta compiuta, poiché non l'avrebbe colta col senso di colpa.

Indubbiamente, la necessità del “divieto” attesta di per sé la presenza di una crisi all'interno della comunità: la perdita di una credibilità; ma non era una crisi così vasta e profonda da determinare il passaggio inevitabile all'individualismo. Il divieto è sempre una soluzione transitoria, in attesa che maturi una responsabilità personale. Probabilmente la soluzione individualistica, scelta al principio da un ristretto numero di persone, stava cominciando a radicarsi, a trovare sempre più seguaci. Finché tuttavia essa rimase patrimonio di una minoranza, il dramma fu scongiurato. Il Genesi racconta proprio i due atti di questo dramma: il prima della minoranza e il dopo della maggioranza.

Prima del divieto la crisi della comunità si era manifestata in altri due modi:

La crisi della comunità ha origine all'interno della comunità stessa, per motivi che solo con la libertà umana si possono spiegare. Quando gli uomini hanno cominciato a cercare delle soluzioni individualistiche ai loro problemi di “senso”, essi hanno finito per accettare anche quelle esterne alla comunità.

Continuamente, nella storia dell'umanità, si ripropone il problema di come conciliare in modo adeguato l'individuo e la comunità. Spesso le soluzioni che si danno a questo problema propendono per un eccesso o per un altro: vivere maggiore collettivismo con minor autonomia personale, oppure, al contrario, vivere maggiore autonomia con minor collettivismo.

L'obiettivo della scienza è correlato a questo problema: è preferibile un socialismo con una scienza circoscritta, controllata, oppure è meglio un individualismo con una scienza illimitata, senza controlli? Nel socialismo la scienza dovrebbe essere acquisita gradualmente, rispettando i tempi di crescita dell'intera collettività. Nell'individualismo invece questa preoccupazione non esiste, per cui i guasti, gli errori che si compiono sono innumerevoli.

Il “peccato” dell'uomo non è stato tanto quello di voler diventare “come Dio”, quanto piuttosto di diventarlo contro l'umanità stessa dell'uomo, cioè contro il suo simile e, in fondo, contro se stesso. È stato quello di non aver voluto rispettare alcuna legge obiettiva, alcuna necessità naturale e sociale, di aver voluto trasgredire un divieto contro la volontà della comunità. È stato quello di aver voluto porre una pretesa, una libertà, senza averne la responsabilità adeguata; quello di aver voluto diventare “come Dio” prima del momento necessario, che solo la storia può decidere. La storia dell'uomo “arbitrario” è stata un continuo tentativo di cancellare le tracce dell'esperienza comunitaria primitiva, e nel contempo un continuo tentativo di riprodurre quell'esperienza in modo conforme alle mutate esigenze e modalità storico-sociali.

Analisi della “caduta”

L'albero della vita rappresenta, in un certo senso, il comunismo primitivo; l'albero della conoscenza è la possibilità dell'individualismo, che è sempre presente, anche nel comunismo primitivo. Nell'innocenza si è liberi, anche se non si è in grado di stabilire con esattezza (per inesperienza) dove sta il bene e dove il male, in quanto ancora non si conosce a fondo il male dell'individualismo. Si sa soltanto che esiste una comunione da rispettare, un senso del collettivo.

La mela forse può rappresentare il tentativo di attribuire un inedito primato all'agricoltura (ai frutti della terra ottenuti attraverso un intervento diretto da parte dell'uomo) e quindi necessariamente a una qualche forma di proprietà esclusiva, rispetto a quella comune, tradizionalmente consolidata, o rispetto alla raccolta libera dei frutti (nella foresta) e anche rispetto all'allevamento (rapporto di Adamo con gli animali), per le qual cose non si prevedeva una proprietà privata o recintata.

La donna sarebbe dunque il simbolo della parte debole che nella comunità d'origine (boschiva) scopre l'importanza economica dell'agricoltura, e che cerca in una parte forte della medesima comunità l'appoggio politico per rivendicare un diritto esclusivo.

La risposta della donna al serpente (che rappresenta la giustificazione della tentazione dell'individualismo, non scevra da una mistificazione di tipo religioso) testimonia della presenza di una certa consapevolezza della differenza tra il bene e il male: Eva sa, da un lato, che non di “tutti” ma solo di “un albero” non debbono mangiare i frutti e, dall'altro, sa che, se trasgrediscono il divieto, andranno incontro a una grave punizione, quella di essere espulsi dalla comunità.

Se il vero “peccato” è quello ch'esiste nella consapevolezza di farlo, allora questo significa che la scelta dell'individualismo era già stata fatta, e la presenza del serpente stava lì a testimoniarlo. Solo che quella scelta ancora non era dominante, non aveva ancora avuto la forza d'imporsi sulla vita collettivistica. Ciò che Eva ancora non conosce sono tutte le conseguenze della trasgressione su di sé, anche se la presenza del divieto categorico stava ad indicare che le conseguenze sarebbero state drammatiche (il testo usa la parola “morte”).3

Il “male” rappresentato dal serpente è sempre una forma di astuzia che inganna l'innocenza, la buona fede. In particolare, l'astuzia deve servirsi di una norma morale positiva, reinterpretandola negativamente: un compito tipico della religione, il cui linguaggio mistico è suscettibile di interpretazioni non scientifiche, non verificabili. Per il serpente “tutti gli alberi non dovevano essere mangiati”. La donna s'accorge della falsità della domanda e la corregge precisando il vero obbligo, come prima si è detto.

Il serpente reagisce in due modi: 1) esclude la necessità della punizione (“non morirete affatto”), 2) chiarisce, a suo modo, il motivo del divieto (“Dio non vuole che diventiate come lui, conoscitore del bene e del male”). In pratica esso mira a porre in contrasto le esigenze del collettivo con quelle dell'individuo, cioè l'oggettività dei fatti con la libera volontà degli uomini. Il divieto – vuol far capire il serpente – è funzionale a una gestione della comunità contraria agli interessi dei singoli individui. La comunità va superata perché opprime l'uomo. Il serpente (cioè la coscienza individualistica dell'uomo) ha dovuto affermare una menzogna credibile, che avesse la parvenza della verità.

Va detto, tuttavia, che se una parte (minoritaria) della comunità, separandosi da questa, aveva imparato a conoscere la differenza tra il bene del collettivismo e il male dell'individualismo, ciò significa che la rottura di Adamo non rappresenta tanto gli inizi delle società antagonistiche, quanto la loro piena affermazione, in netto contrasto con le dinamiche sociali delle società collettivistiche primitive (non dimentichiamo che la stesura del Genesi risale al VI sec. a.C.).

Che la comunità fosse in crisi è attestato da due aspetti: 1) la perdita d'identità dell'uomo e 2) la presenza del divieto.

Nel testo l'importanza attribuita alla donna, quale entità singola, emerge nel momento in cui comincia a declinare quella dell'uomo collettivo, il quale, per ritrovare la propria identità o verità di sé (che si era indebolita), si era relazionato, prima ancora di valorizzare la donna singola, col mondo animale, fallendo nel tentativo: è sintomatico che l'uomo dia un nome agli animali nel momento in cui sente di perdere la propria identità. È altresì evidente, nel racconto mitico, che è la donna ad aiutare l'uomo, sul piano privato-personale, a ritrovarla, anche se tale ritrovamento non impedirà all'uomo di scegliere l'individualismo. Anzi è proprio il rapporto con la donna, vissuto in maniera unilaterale, esclusiva, che porta l'uomo ad accettare meglio la via dell'individualismo (la famiglia vissuta come forma di esclusione dal collettivo). La donna, come prima gli animali, è soggetta a una strumentalizzazione da parte dell'uomo ogni volta che l'uomo la mette in antitesi all'interesse della comunità.

Il divieto avrebbe lo stesso scopo della donna, ma sul piano sociale: esso serve per rinsaldare la coscienza di un uomo in crisi, che si angoscia a causa delle possibilità che la sua libertà gli offre; esso, in maniera formale, non sostanziale, ha lo scopo di farlo sentire più unito alla comunità. Il “peccato” non sta nella debolezza esistenziale, poiché la debolezza è parte costitutiva dell'identità umana, che non può percepire o vivere il senso delle cose con un'intensità (emotiva, spirituale) sempre identica a se stessa, ma sta proprio nel fare di questa debolezza un motivo di orgoglio o, al contrario, di disperazione, tale per cui, ad un certo punto, scatta il meccanismo dell'estraniazione.

Nel rispetto del divieto l'uomo può nuovamente rendersi conto delle proprie capacità o responsabilità, riacquistare fiducia nel proprio ruolo, sentirsi più realizzato, almeno finché non avrà interiorizzato il bene, rendendo inutile il divieto. L'uomo vacilla nella sua responsabilità personale solo quando ha l'impressione che i rischi di modificare arbitrariamente una consuetudine esistente da tempo sono diventati così grandi da rendere quasi inevitabile la rassegnazione, l'avvilimento, e quindi la tentazione della trasgressione.

È in questo contesto d'incertezza, di precarietà morale, di sfida alle istituzioni che avviene l'abbandono del comunismo primitivo. Per compiere la rottura, l'uomo ha dovuto darsi delle giustificazioni soggettive, che nella fattispecie sono di tre tipi, in ordine d'importanza. L'albero della scienza era: 1) “buono” (il piacere fisico), 2) “bello” (il piacere estetico), 3) “desiderabile” (il piacere intellettuale).

L'ultimo “piacere” è quello che fa scattare, in definitiva, la trasgressione: l'uomo potrà acquisire la “libertà”, offerta dal serpente, attraverso il potere di decidere, autonomamente, senza la mediazione collettiva, ciò che è bene e ciò che è male. Qui sta una delle più profonde illusioni delle società divise in classi, quella cioè di ritenere che la libertà non sia tanto l'esperienza sociale del “bene”, quanto la possibilità individuale di scegliere tra il bene e il male. Una delle grandi differenze tra il comunismo primitivo e la società divisa in classi sta proprio nella pretesa di voler considerare la libertà individuale superiore alla vita sociale, o meglio: quella di far coincidere conoscenza del bene e del male ed esperienza del bene dal punto di vista della mera conoscenza, cioè di far coincidere il libero arbitrio con la libertà, come se questa si riducesse alla facoltà di scelta e non anche a un'esperienza di valore.

Viceversa, il testo documenta che con la trasgressione l'uomo non si rende conto della propria libertà (che ha già perso), ma delle conseguenze del proprio arbitrio. Egli infatti perde l'innocenza e acquista la colpa, di cui si angoscia. Si badi, non diventa colpevole per aver acquisito la scienza del bene e del male, ma per averla acquisita in modo arbitrario. La colpa non sta tanto nel “sapere” quanto nel “volere arbitrario”.

La vita, in realtà, è superiore alla conoscenza, tant'è che nell'innocenza l'ignoranza del male non era avvertita come un peso. La contraddizione di Adamo non stava tra la realtà del divieto e la possibilità della trasgressione, non stava tra innocenza e ignoranza, ma stava nella consapevolezza di non riuscire più a identificarsi totalmente con la comunità, stava nella perdita progressiva dell'identità, cui non riusciva a porre un argine attraverso una vera forza morale.

Oggi, il compito, estremamente difficile, dell'uomo è diventato proprio questo: tornare a vivere il bene del comunismo primitivo nella consapevolezza dei limiti dell'individualismo.

Tuttavia, la vera colpa d'origine non sta solo nella trasgressione ma anche e soprattutto nel rifiuto del pentimento. Dal primo gesto al secondo vi sarà stato senz'altro un periodo di tempo sufficiente per recuperare l'identità originaria.

Che tale identità potesse ancora essere recuperata è indicato dalla presenza del giudizio. Nella colpa, infatti, l'uomo può rifiutare il pentimento ma non può sfuggire al giudizio. Nel rifiuto del pentimento il senso di colpa aumenta all'aumentare del giudizio. Non solo l'uomo non può nascondersi, ma neppure mentire: l'uomo cioè si “nasconde” non perché si sente “nudo”, ma perché avverte la propria “nudità” con colpevolezza, in quanto si sente un estraneo rispetto alla comunità primordiale, ch'era innocente. Il rifiuto del pentimento è appunto indicato dal triplice tentativo di sottrarsi al giudizio, per attenuare il senso di colpa:

– nascondendosi (fisicamente), poiché ci si vergogna della propria sessualità, vissuta non più liberamente ma per affermare una identità personale, prevalentemente fisica;

– scaricando la responsabilità sulla parte “debole” della comunità (rappresentata da Eva): qui l'uomo attribuisce all'individualismo femminile la causa della propria rottura col collettivo, come se la donna l'avesse indotto ad anteporre al rapporto con la comunità il rapporto di coppia;

– scaricando la responsabilità su una “causa esterna” (il serpente), cioè l'individualismo già in atto al di fuori della comunità.

Conseguenze sociali della caduta

Successivamente alla caduta adamitica, il concetto di “alleanza” tra uomo e Dio altro non sarebbe servito che a recuperare, in forma religiosa o simbolica, quel rapporto concreto di fratellanza che esisteva nella società primitiva e che nella nuova società antagonistica (rappresentata dal mito di Caino e Abele) veniva messo seriamente in discussione. Già dalla semplice domanda che Caino rivolge a Jahvè: “Son forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4,9), si può cogliere quanto il racconto di Caino e Abele rifletta un'epoca in cui comincia a imporsi l'individualismo, ovvero l'antagonismo sociale. Infatti, nel comunismo primordiale sarebbe parso del tutto naturale che all'interno della tribù tutti avvertissero la responsabilità del comportamento altrui.

In particolare la rivalità tra i due fratelli (che forse anticipa anche quella tra primogenito e cadetto) esprime quella tra due forme socioeconomiche di esistenza materiale: agricola e pastorale, che tendono progressivamente a specializzarsi, a separarsi, a rivendicare una diversa autonomia. Il fatto che Jahvè preferisca i sacrifici dell'allevatore Abele, deve farci pensare che questa classe sociale fosse in ascesa, mentre l'altra svolgeva un ruolo tradizionale, consolidato; oppure il redattore ha voluto far capire che l'affermazione dell'agricoltura privata era di ostacolo alla sicurezza dell'allevamento, sempre bisognoso di campi non recintati.

I coltivatori detenevano il monopolio della terra o comunque volevano ampliare i loro possedimenti per affrontare meglio le crisi e non sopportavano di doverla dividere con gli allevatori. S'imposero ad un certo punto le recinzioni, le prime forme di proprietà privata, mentre gli allevatori, costretti ai continui spostamenti delle mandrie, avevano invece bisogno di terreni pubblici, aperti a tutti. Caino rappresenta quella parte di comunità che vuole privatizzare la terra e che vuol fare della propria stanzialità un privilegio sociale, mentre Abele rappresenta la comunità nomade dedita all'allevamento.

Poiché gli allevatori erano economicamente più deboli degli agricoltori, fu proprio in loro che si sviluppò una concezione religiosa più sentita, più spiritualistica, con cui cercare i favori dei capi-tribù, e che prevedeva il sacrificio degli animali, mentre quella di Caino restava di tipo naturalistico: l'offerta di cibi della terra. Il racconto dà per scontato che la religione già esistesse, essendo essa il frutto del peccato originale. Quindi al tempo di Caino e Abele la società era già impostata in modo patriarcale o comunque stava evolvendo in quella direzione. Agricoltori e allevatori facevano parte di un unico collettivo, dove però vigeva la differenziazione dei ruoli economici: l'ingrandirsi progressivo di quello degli allevatori, che evidentemente traevano maggiori guadagni che non lavorando la terra (a meno che all'allevamento non fossero sempre più costretti a causa di insufficienti risorse agricole), venne ad un certo punto a confliggere con gli interessi degli agricoltori.

Il capo-villaggio (patriarca), che aveva bisogno di veder aumentare il senso religioso, con cui tentare, illusoriamente, di ricomporre i conflitti sociali, preferisce cercare un'alleanza con la classe emergente, per ridurre il potere di quella consolidata, mostrando la maggiore eticità di chi offre di più pur avendo meno, e in maniera particolare esalta un'offerta votiva rivolta non alla terra ma a un'entità astratta, che somigli di più non a una “madre” ma a un “padre”, a un “padre-padrone”, cioè in sostanza a lui stesso. Il patriarca ha saputo approfittare di un delitto per aumentare il proprio potere.

Caino diventò assassino perché cercò una forma di giustizia personale a una contraddizione sociale. Non voleva rassegnarsi a cedere parte del proprio potere monopolista. E il patriarca ebbe buon gioco nel cacciarlo dal villaggio per non far scoppiare una guerra intestina tra agricoltori e allevatori. Impedì a chiunque di ucciderlo, anche per scongiurare che la proprietà privata prendesse decisamente il sopravvento su quella collettiva. Senonché Caino, non potendo svolgere più il mestiere dell'agricoltore, divenne “costruttore di città” (Gn 4,17), dove l'individualismo e la proprietà privata avrebbero trovato ben ampie possibilità di realizzazione.

*

Ora, come si può facilmente notare, le conseguenze del peccato d'origine sono state esattamente corrispondenti alla natura delle tre tentazioni:

  1. la nudità sentita come vergogna fa da contrappasso al piacere della carne;

  2. la morte sentita come paura va messa in relazione al piacere degli occhi, alla percezione di sé come persona;

  3. la coscienza sentita come colpa va messa in relazione al piacere della mente.

Si può in un certo senso affermare che esiste qui una progressione delle forme narcisistiche della vita individualistica: quella elementare relativa al culto del proprio fisico, quella più sofisticata relativa al culto dell'immagine di sé come persona, e infine quella più elevata di tutte: il culto dell'idea in sé, elaborata con la propria mente. Si passa dal concreto all'astratto.

  1. La nudità sentita come vergogna lega il sesso alla colpa, cioè dalla primordiale inimicizia tra singolo e comunità si passerà, nell'ambito dell'individualismo e a livello personale, all'inimicizia tra psiche e soma, tra coscienza e istinto, che troverà un riflesso concreto nell'inimicizia tra uomo e donna.

    Il senso di estraneità del singolo nei riguardi del collettivo porterà ad avvertire la nudità in maniera innaturale: essa diventa occasione di possesso egoistico del corpo. Il corpo cioè appare come un oggetto, come una proprietà personale per il soddisfacimento sessuale. L'identità non viene più ricercata nell'esperienza del collettivo, in cui tutto era “naturale” (nudità, sessualità, ecc.), ma nel rapporto fisico di coppia.

  2. L'angoscia della morte, o meglio, la morte avvertita come paura è la conseguenza della debolezza fisica di chi è uscito dal collettivo. Alla paura della morte si cerca di porre come rimedio esclusivo la procreazione. La donna comincia ad essere vista in maniera strumentale, come oggetto della riproduzione fisica. Viceversa, nella comunità primitiva la donna era anzitutto vista come “compagna” (“osso delle mie ossa e carne della mia carne”) e se alla sua funzione procreativa si attribuiva un valore significativo, ciò avveniva nella consapevolezza che i figli appartenessero alla comunità in generale, non alla coppia né alla stessa donna. Nella comunità d'origine non c'era ancora il bisogno di salvaguardare la specie o di lasciare un'eredità o di trasmettere i poteri ai propri discendenti. L'amore tra uomo e donna precedeva nettamente il bisogno di procreare e la morte era avvertita come un fenomeno del tutto naturale.

  3. Il senso di colpa avvertito nella coscienza non si trasmette geneticamente. Si ereditano piuttosto le conseguenze della colpa. Oggi, ad es., le comunità primitive, che non conoscono il senso del peccato, subiscono ancora le sue conseguenze, poiché tutta l'umanità si è unificata sotto il capitalismo. Ciò peraltro pone il problema di come far uscire tutta l'umanità da questa moderna schiavitù, riportandola allo spirito collettivistico originario.

A queste conseguenze, che colpiscono l'essere umano dall'interno, l'autore del Genesi ne aggiunge altre due, che lo colpiscono dall'esterno:

  1. il lavoro è sentito come condanna. Nell'Eden l'uomo lavorava come persona libera, fuori dell'Eden deve farlo perché costretto. Ora l'uomo si sente solo nel suo rapporto con la natura, perché in realtà avverte il proprio simile come un “nemico”. Non è più la comunità intera che provvede alla sussistenza di tutti i suoi membri (anche in tutte le mitologie pagane il lavoro è compito dello schiavo);4

  2. la procreazione è sentita come dolore. Si afferma cioè la soggezione della donna nei confronti dell'uomo, nonché la difficoltà di dover sopportare condizioni socio-ambientali sfavorevoli. Oggi in fondo la contraccezione, che separa meccanicamente l'amore dalla procreazione (ed eventualmente anche il sesso dall'amore), rappresenta un modo, artificiale, di recuperare la naturalezza dei rapporti primitivi, in cui la procreazione non era avvertita, da parte della coppia, come un peso, ma come un aspetto imprescindibile della comunità, di cui tutta la comunità era responsabile. Tuttavia è un recupero effimero, in quanto è proprio la contraccezione che favorisce l'uso strumentale del corpo.

    Nella donna la contraddizione assume un connotato particolare. Essa si sente attratta e respinta dalla forza dell'uomo: attratta, perché la protegge; respinta, perché vede l'uomo come un nemico che la vuole opprimere. Nella coscienza della donna si riflette l'antagonismo vissuto a livello sociale: essa ha bisogno della protezione di un singolo contro le minacce di altri singoli, ma il singolo che la protegge spesso non è molto diverso dai singoli che la minacciano. Ciò che qui manca è la comunità, che garantisce protezione a se stessa, senza fare differenze fra chi “è tenuto a proteggere” e chi “deve essere protetto”.

Il concetto del “male” nel peccato d'origine

Qualunque definizione del “male” come entità a sé o come sostanza separata o autonoma rispetto al bene, comporta il rischio di un atteggiamento qualunquistico nei confronti delle contraddizioni antagonistiche. Non solo, ma il sostenere (come vuole Agostino) che “il male è assenza di bene” non è ancora sufficiente per persuadere circa la necessità di una transizione, almeno finché non si chiarisce che l'assenza non può mai ipostatizzarsi.

Il male è sempre frutto di una libertà, seppur usata negativamente. Sotto questo aspetto il serpente dell'Eden, posto come tentazione esterna alla donna, ha senso soltanto se lo si considera come il simbolo di un antagonismo che precedeva la caduta: nel senso che la donna si è lasciata sedurre da una tentazione ch'era già stata posta, come esperienza di vita, prima della trasgressione all'interno della comunità primordiale.

Il suo peccato può essere definito di “origine” solo nel senso che quel tipo di peccato dà sempre origine a un antagonismo sociale nell'ambito di un collettivo, il quale fino a quel momento poteva conoscere l'antagonismo solo come realtà esterna, non avendolo ancora vissuto come realtà interna.

Gli uomini hanno esercitato la loro libertà fin dal momento in cui si sono separati dal mondo animale. I frutti negativi di questa libertà sono tanto più aumentati e si sono tanto più aggravati quanto meno s'è cercato di ostacolarne la crescita.

La caduta adamitica altro non vuole rappresentare che la drammaticità di un male il cui spessore è diventato troppo consistente per poter essere affrontato con superficialità. Tant'è che il male, come realtà esterna, per potersi affermare anche come realtà interna, ha dovuto usare una sottile menzogna, quella appunto di voler far credere che la trasgressione avrebbe prodotto il contrario di ciò che ci si sarebbe dovuto aspettare.

Ed è noto che tanto più facilmente il male riesce a far breccia nella coscienza dell'uomo quanto più questi si trova a vivere in condizioni precarie, difficili, ambigue. La caduta di Adamo, in fondo, rappresenta la crisi progressiva di un collettivo che non aveva più fiducia nelle proprie risorse, in quanto si trovava a vivere in una situazione di sbandamento, di indeterminatezza, in cui s'imponeva, con urgenza, la necessità di assumere delle decisioni risolute a favore del recupero dell'identità originaria, pena il rischio di perdere tutto.

Quell'Adamo che dapprima cercò un rapporto di dominio con gli animali e che poi si sentì indotto a cercare nella donna il senso della propria identità (non trovandolo più in se stesso), e che infine si trovò costretto da un divieto a dover rispettare una proprietà collettiva che avrebbe voluto privatizzare (il giardino dell'Eden) – è un soggetto che ben rappresenta le varie fasi di una crisi progressiva, profonda, che ha determinato il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo.

Chi dunque arriva a sostenere che lo spessore del male, in conseguenza di quella colpa d'origine, è diventato talmente grande da rendere impossibile una sua piena rimozione, facilmente sarà indotto ad affermare che il male è un'entità a sé stante. Esattamente come Adamo accusò Eva e questa il serpente.

In realtà il male non esiste come entità autonoma; esiste soltanto l'uomo con la sua libertà. La libertà può compiere scelte negative e queste scelte possono fossilizzarsi in strutture che condizionano anche molto pesantemente il libero arbitrio, inducendo quest'ultimo a riprodurre, se non addirittura a perfezionare le strutture di male in cui esso vive.

Tuttavia l'essere umano non è mai in grado di compiere per puro istinto delle azioni di male, a meno che non le compia nella più totale inconsapevolezza, come nei bambini privi di raziocinio o nei folli, o anche negli adulti sani di mente che vivono molto superficialmente; ma questa possibilità, se esiste, è limitata nel tempo. Essendo costituito di libertà, l'essere umano, per poter compiere il male, ha prima bisogno di operare una scelta consapevole, più o meno profonda. Ecco perché nessuno può sostenere di aver compiuto il male semplicemente per obbedienza e pretendere di essere creduto.

Sono le convinzioni mentali, per lo più ereditate da determinati stereotipi culturali, che inducono sul piano esistenziale a compiere scelte negative. Chi non accetta di rivedere la logica delle proprie idee e della propria cultura, conferma quella profonda tesi cristiana che dice: “Il male esiste solo per chi lo vuole”. Cioè esiste ontologicamente solo se vi si aderisce personalmente.

È ben noto comunque che la grandezza dell'essere umano sta anche nella capacità di saper trarre il bene dal male più profondo.

Il peccato d'origine e la proprietà privata

Sul piano metaforico, equiparando il concetto di “Dio” alla situazione storica del “comunismo primitivo”, non sarebbe sbagliato sostenere che il peccato più grave dell'umanità è stato quello di aver affermato il principio dell'individualismo (che ha generato anzitutto lo schiavismo) contro quello del collettivismo.

Forse si potrebbe addirittura sostenere che nel racconto della caduta la donna rappresenta l'esigenza di stanzialità (e quindi di privatizzazione dei frutti della terra) contro la prassi dominante del nomadismo, in cui l'uomo raccoglitore-cacciatore si riconosceva da millenni.

Tuttavia il dogma cattolico del peccato originale, secondo cui questo si trasmette attraverso la concupiscenza, induce inevitabilmente l'uomo alla rassegnazione, ovvero a sperare solo in una libertà post-mortem.

È fuor di dubbio invece che gli uomini, già sulla Terra, dovranno tornare al collettivismo, poiché sotto l'individualismo la tendenza è quella della distruzione dei rapporti umani e dei rapporti ecologici con la natura e quindi, in definitiva, è quella dell'autodistruzione.

Fino ad oggi l'umanità non ha fatto altro che sperimentare varie forme di società individualistiche: schiavismo, servaggio, capitalismo... Lo stesso socialismo amministrato è stato una forma autoritaria di individualismo: il capo dello Stato-partito era un despota, esisteva una nomenklatura privilegiata, la burocrazia schiacciava le esigenze sociali, ecc.

Il collettivismo o è libero o non è, o è accettato consapevolmente dai suoi componenti, oppure è una forzatura.

Tuttavia, affinché venga accettato liberamente, conditio sine qua non è la fine della proprietà privata dei mezzi produttivi: è proprio questa infatti che toglie, a chi non ne dispone, il diritto di vivere.

La proprietà privata o è per tutti, nel senso che a tutti viene effettivamente garantita, oppure è sempre e solo di pochi privilegiati o di persone senza scrupoli.

È ovvio che nella misura in cui una proprietà privata venga assicurata a chiunque la voglia, lo stesso concetto di “proprietà privata” viene ad assumere un significato molto diverso da quello attuale.

Oggi ci si appropria di un bene senza preoccuparsi minimamente di sapere se altre persone abbiano l'esigenza di fare la stessa cosa. Non solo, ma oggi ci si appropria di un bene fingendo di non sapere che certi beni non possono essere posseduti senza fare, nel contempo, un danno a qualcuno (si pensi p.es. alle materie prime, alle fonti energetiche, ecc.).

In via generale dovrebbe valere il principio secondo cui va garantita la proprietà personale finché tale proprietà non viene usata per sfruttare il lavoro altrui, oppure finché il diritto altrui di vivere viene rispettato anche a prescindere da tale proprietà.

Il futuro come ritorno al passato

Nei confronti del cosiddetto “peccato d'origine” – che altro non è, nel Genesi, se non la rappresentazione simbolica del distacco dalla vita comunitaria primitiva (pre-schiavistica) –, la Chiesa cattolica ha sempre assunto un atteggiamento piuttosto fatalistico, che si è andato accentuando in quella protestante.

Infatti, mentre la Chiesa ortodossa ha sempre sostenuto l'insensatezza di una trasmissione ereditaria (genetica) di quel peccato, poiché ciò impedirebbe all'uomo la possibilità di una libera scelta, e ha preferito limitarsi a credere che gli uomini soffrono i condizionamenti storici (sociali ecc.) derivati da quella colpa; la Chiesa romana invece ha sempre fatto del peccato originale uno dei principali pretesti per indurre gli uomini a rinunciare a qualunque forma di liberazione terrena.

Qui è bene sottolineare che il criterio interpretativo del cattolicesimo romano, in merito al racconto del Genesi, è piuttosto regressivo anche rispetto a quello ebraico, poiché, mentre gli ebrei, attraverso quel racconto, volevano evocare la nostalgia di un paradiso perduto e suscitare quindi il desiderio di ritrovarlo sulla Terra, l'esegesi cattolica, al contrario, si serve di quel racconto per sostenere che sulla Terra non è possibile alcun paradiso e che quello adamitico è stato perduto una volta per sempre, e che l'unico paradiso possibile è quello dei “cieli”, ideato e costruito unicamente da Dio, senza concorso umano.

L'idea ebraica di poter realizzare il paradiso nell'ambito di una particolare nazione, circondata dall'inferno di altre nazioni “pagane”, caratterizzate da rapporti di tipo schiavistico, non era un'idea del tutto peregrina.

Discutibili forse furono i modi usati per realizzarla (il regno davidico, p.es., ha senza dubbio conosciuto momenti di forte intolleranza), ma il torto maggiore degli ebrei fu un altro, quello di non aver compreso con sufficiente chiarezza che il desiderio di liberazione appartiene ad ogni uomo e che un popolo libero non può essere delimitato da confini geografici. Il concetto di “nazione eletta” esprime un certo pessimismo nei confronti del diritto a una libertà universale dall'oppressione. È il genere umano che va considerato “eletto”, non un popolo particolare, anche se può esserci un popolo migliore di altri.5

In sé dunque non è sbagliata l'idea di voler realizzare la giustizia in una nazione particolare; è sbagliata l'idea di credere che tale realizzazione sia possibile solo entro quella nazione, in virtù della propria particolare storia e cultura.

Tuttavia non ha senso – come poi ha fatto la Chiesa romana – porre come alternativa a questo limite della civiltà ebraica la rinuncia a lottare per la giustizia sociale, nell'attesa di ottenerla, come premio della propria rassegnazione, nel cosiddetto “regno dei cieli”.

La Chiesa romana avrà sempre ragione contro quanti sostengono che per realizzare il bene è sufficiente rispettare la legge, ma avrà sempre torto quando sostiene che per realizzare il bene è sufficiente aver fede in Dio, praticandone le opere (che poi l'opera principale, per questa Chiesa, è, in ultima istanza, l'obbedienza al pontefice e l'avere – proprio come gli ebrei – un proprio territorio in cui sentirsi “privilegiata”).

Dio è un ente così astratto che la fede riposta in lui può assumere delle manifestazioni tutt'altro che umane. Quando p.es. si afferma che il vero cristiano è colui che imita il Cristo, si rischia facilmente di cadere in un'aberrazione ideologica, in quanto, essendo il Cristo vissuto duemila anni fa, qualunque pretesa di contemporaneità col suo messaggio può anche essere considerata come frutto di un'interpretazione irrazionale. Non basta dire che i vangeli sono la quintessenza dell'umanità dell'uomo per essere sicuri di mettere in pratica i loro princìpi con coerenza. Cioè anche se i vangeli esprimessero fedelmente il messaggio di Cristo (il che comunque non è), resterebbe sempre da dimostrare che l'applicazione alla lettera dei loro principi costituisca il meglio per l'uomo contemporaneo.

Non è singolare che quanti dicono di voler “imitare Cristo”, si concentrino soprattutto sul momento critico della crocifissione, senza rendersi conto che possono essere esistiti dei martiri la cui vita non è stata affatto un modello di esemplarità? Una morte cruenta può forse essere di per sé indice di santità?6

Non è assurdo (o se vogliamo ingenuo) pensare che il senso della vita di un uomo possa essere racchiuso nel fatidico e breve momento della sua morte? Non è forse una forzatura credere che il martirio di una persona possa riscattare, di colpo, un'intera vita vissuta con disperazione o risentimento?

Certo, il dolore che si subisce ingiustamente può impressionare, può anche farci credere che tutta la vita di quel martire sia stata caratterizzata da lealtà e sincerità (quando mai in fondo si parla male dei morti? e quando mai si dice che da vivi erano state delle persone ingiuste?), ma una conclusione del genere sarebbe sicuramente affrettata, dettata come minimo dall'emotività.

Per poter veramente capire se una persona è degna di fiducia, si ha bisogno di metterla alla prova, cercando di conoscerla mentre è “viva”. E questa fiducia va ogni volta riguadagnata, poiché fa parte della natura umana essere incostanti.

Quando la Chiesa romana sostiene che il momento più alto dell'amore di Cristo per il mondo, è avvenuto nel momento del patibolo, essa dimentica di aggiungere che la scelta del martirio non poteva che essere stata dettata da ragioni di opportunità, che spesso hanno quanti lottano davvero per la giustizia.

Ci si sacrifica per salvare gli altri più che se stessi, non per uno strano senso del dovere o per una follia personale, ma semplicemente perché si ritiene che quella sia la soluzione migliore per il proseguimento dell'ideale di liberazione.

Dunque “salvare gli altri” non tanto dall'ira di un Dio vendicativo, che dai tempi di Adamo ha conservato rancore per il genere umano, quanto piuttosto dalle conseguenze dell'immaturità degli uomini, del loro primitivismo. Gli uomini vanno educati con la persuasione alla democrazia, costasse anche il sacrificio di sé.

In tal senso il martirio può anche servire a “salvare se stessi” dalla tentazione di voler imporre con la forza i propri ideali. O forse si preferisce l'immagine di un Cristo che sceglie il martirio per riscattare agli occhi dei propri seguaci una vita trascorsa in maniera insulsa, piena di delusioni e di fallimenti?

Gli uomini hanno bisogno non di essere colpiti emotivamente da gesti eclatanti, ma di essere coinvolti attivamente in un'esperienza significativa per la loro vita quotidiana. Abbiamo bisogno di incontrare persone normali che vivano un'esperienza gratificante sul piano della giustizia sociale, e non persone eccezionali che vivono secondo i criteri del più puro individualismo.

Le persone normali non hanno mai la pretesa di “imitare Cristo” e di imitarlo addirittura fino al Golgota. È assurdo pensare di poter imitare una persona al punto da identificarsi totalmente con la sua storia personale. Una identificazione del genere sarebbe altamente improbabile persino se si finisse realmente sulla croce.

Peraltro, l'idea stessa di voler affermare una stretta coerenza tra ideale di assoluta perfezione e prassi quotidiana (sempre piena di contraddizioni), a partire dal supremo sacrificio di sé, cioè a partire dalla logica del martirio (la sola con cui si crede di poter nascondere il proprio vuoto), è un'idea che riflette una concezione di vita secondo cui, non potendo esserci vera felicità sulla Terra, l'unica possibile è quella che assume consapevolmente la sofferenza, il dolore, come criterio di vita.

“Chi soffre ha sempre ragione” – dice l'integrista. Questa affermazione però non viene detta coll'intenzione di vedere l'oppresso liberarsi dalla sofferenza; al contrario, essa è un invito a vedere nella propria oppressione una fonte di felicità per l'aldilà.

Un integrista, al pari di chiunque soffra di gravi disturbi psicopatologici, lo si riconosce sempre da almeno una di queste caratteristiche:

  1. non compie mai nessuna vera autocritica;

  2. non ha alcun senso della storia;

  3. non riconosce alcun valore alle ideologie diverse dalla propria.

Tutto questo discorso è stato fatto, in realtà, per dire altro, e chi può comprendere, comprenda.

Quando arriveremo a capire, dopo aver percorso tutte le tappe del processo storico basato sull'individualismo (schiavismo, servaggio, lavoro salariato...), che la realizzazione dei valori veramente umani è possibile solo in una forma di esistenza collettivistica, in cui la persona venga valorizzata come tale e per i rapporti sociali che la caratterizzano, la storia dovrà necessariamente subire una svolta radicale, poiché sarà molto forte la percezione d'essere tornati alle origini dell'umanità, cioè nel periodo in cui prendeva corpo la formazione dell'essere umano.

Gli uomini avranno allora la sensazione di aver percorso un cammino inutile, e solo la possibilità concreta di vivere un'esistenza completamente diversa rispetto a quelle abbandonate, potrà ridare loro il senso della vita. Quando gli uomini si volgeranno indietro a guardare tutto il loro passato, assumendolo nella piena consapevolezza storica dei suoi limiti, non potranno desiderare di ritornare, sic et simpliciter, all'innocenza primitiva, poiché questo non sarà più possibile.

Una cosa infatti è vivere l'innocenza nell'ignoranza di ciò che può accadere se ci si separa dal collettivo; un'altra è vivere l'innocenza nella consapevolezza di quali incredibili guasti può procurare un'esistenza individualistica.

Gli uomini avranno bisogno di misurare la loro libertà non in una situazione che li costringa, in un modo o nell'altro, a restare uniti, ma in una situazione in cui il collettivismo sia vissuto in maniera totalmente libera. Gli aspetti spirituali o interiori della coscienza dovranno prevalere su quelli della materialità della vita, ma solo perché questi saranno già stati in qualche modo risolti.

La rivalutazione del collettivismo dovrà essere il frutto non tanto della consapevolezza della negatività dell'individualismo, quanto piuttosto il frutto di una libera scelta. Lo sviluppo della coscienza sarà il compito principale del futuro. Ma perché ciò avvenga occorre che siano risolte le contraddizioni antagonistiche della vita materiale, o comunque occorre che gli uomini si educhino ad affrontare tali contraddizioni con impegno non meno forte di quello che dovranno dimostrare per le contraddizioni non materiali.

Primati assoluti non si devono concedere a nessun aspetto della vita umana, ma solo all'essere umano nella sua interezza. La falsità dell'idealismo è stata proprio quella di averne concesso uno alla coscienza, dimenticandosi degli antagonismi materiali, o illudendosi di poterli risolvere con l'unico strumento del pensiero, senza trasformazioni sociali. Il materialismo storico-dialettico è caduto nell'errore opposto.


1) Su questa difficoltà peraltro s'innesta la strumentalizzazione da parte dell'ideologia religiosa: il secondo racconto della creazione degli esseri umani si sovrappone al primo perché voluto dal clero.

2) Adamo avverte, ad un certo punto, il bisogno di dare un nome agli animali perché si sentiva solo. Cioè il bisogno di dare un nome (un significato alle cose) partiva da una perdita d'identità. Le cose, per lui, non erano più significative come prima. Il linguaggio è stato dunque il frutto di una debolezza ontologica (vissuta anzitutto a livello individuale). E l'uomo ne era consapevole, poiché il rapporto con gli animali non è appagante. Solo il rapporto con Eva libera, temporaneamente, Adamo dall'angoscia esistenziale e dall'illusione di aver trovato il senso nelle cose mediante il linguaggio.

3) Da notare però che in una qualunque altra tradizione culturale, relativa all'epoca in cui è stato scritto il racconto del Genesi sulla caduta, un trasgressore della legge come Adamo sarebbe stato certamente punito con la morte (posto che il sovrano avesse considerato reato grave il cogliere “mele” da un determinato albero). L'autore del racconto doveva invece essere favorevole a una forma di pena rieducativa, che implicasse il recupero del colpevole (che però nel racconto non avviene in maniera integrale, in quanto il paradiso è “perduto” per sempre). Singolare è il fatto che l'autore è anche contrario a usare la sentenza capitale nei confronti dell'assassino Caino. Sotto questo aspetto, e messo in relazione al suo tempo, il racconto ha dei contenuti decisamente democratici e innovativi. Ciò che con esso si vuole evitare è l'idea che, nei confronti dei reati umani, si possa compiere una sorta di giustizia sommaria, ovvero l'idea secondo cui l'unico modo per ottenere giustizia è quello di esigere una vendetta, un risarcimento pari al danno arrecato.

4) Nella Politica (I, IV) Aristotele fonda la schiavitù sul presupposto che le differenze tra gli uomini sono originarie e non sociali, per cui chi è destinato a lavorare lo è anche a essere dominato. Il lavoro nel mondo greco-romano non è una forma di realizzazione personale, di espressione della personalità umana.

5) Nella loro esperienza di liberazione gli ebrei hanno prodotto una cultura di inestimabile valore. Il fatto stesso che il cristianesimo sia di derivazione ebraica la dice lunga: la rinuncia al concetto di “nazione eletta” in fondo nasce proprio all'interno del fariseismo di Paolo di Tarso.

6) Senza poi considerare che per i cattolici il martirio del Cristo fu addirittura da lui “desiderato”, proprio allo scopo di togliere l'ira di Dio che pesava sugli uomini dal giorno del peccato originale. Non sono forse i vangeli che a più riprese sostengono che il Cristo “doveva” morire?

Dialogo a distanza su questo argomento


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Antico Testamento - Genesi
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