DALLA CREAZIONE ALLA CADUTA. ANALISI DEL GENESI


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IPOTESI INTERPRETATIVE

Cosmologia e Antropologia 1 - 2

Adamo ed Eva, Mosaico del Duomo di Monreale
Adamo ed Eva, Mosaico del Duomo di Monreale

Fonte jahvista

La funzione di questo racconto non è quella di raccontare l'evoluzione dell'universo o del pianeta Terra, cui dedica un mezzo versetto ([2,4b] “Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo”), quanto quella di raccontare la formazione e la caduta del genere umano.

Sotto questo aspetto i due racconti non sembrano affatto in contraddizione tra loro, semplicemente esprimono due posizioni diverse: quello sacerdotale è di tipo filosofico-astratto (una cosmogonia vera e propria), quello jahvista è di tipo socio-esistenziale (una sorta di antropogonia).

Là dove l'uomo lavora sentendosi solo, al punto d'aver bisogno di qualche animale per potersi relazionare con qualcuno, e che poi, non trovando soddisfazione, si rasserena solo in presenza d'una compagna umana di sesso femminile, in grado di collaborare alla pari con lui, i sacerdoti preferiscono invece vedere un uomo interiormente felice, pago d'essere stato posto da un Dio onnipotente in un pianeta ricco di risorse, e che è già, secondo natura, maschio e femmina, preposto alla riproduzione, un uomo che materialmente non “lavora”, come nel racconto jahvista, ma semplicemente raccoglie i frutti della terra.

Adamo, cioè una determinata popolazione tribale, vive nell'Eden, l'ultima zona di una determinata regione (Mezzaluna fertile?) in cui è ancora possibile vivere dei rapporti umani all'insegna della libertà. Al di fuori vi è l'inferno dello schiavismo.

Adamo vive circondato e si sente solo: ha bisogno di trovare una compagna cui infondere piena fiducia. Vede solo nemici attorno a sé e non può certo trovare appagamento nel semplice mondo animale.

L'autore di questo racconto, che forse sta pensando alle difficoltà di un rapporto uomo-uomo nell'ambito delle civiltà schiavistiche, s'illude di poter trovare un'alternativa in quello uomo-donna, in cui la componente sessuale e riproduttiva può giocare un ruolo favorevole alla sua realizzazione.

Ma un uomo che cerca il recupero di sé soltanto nel rapporto con la donna, è già prossimo alla caduta. È un uomo la cui comunità d'origine sta diventando sempre meno significativa, sempre meno vincolante. Il dramma della sconfitta definitiva del villaggio, oppresso dagli appetiti delle città confinanti, è annunciato.

E tuttavia è stata grande l'abilità redazionale nel mostrare la nascita della donna come un aspetto strutturale all'esserci, che nella propria debolezza (il “torpore profondo”) partorisce ciò che virtualmente dovrebbe dargli forza.

[2,5-6] “... nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l'acqua dei canali per irrigare tutto il suolo”.

[2,15] “Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”.

La Terra non va “dominata” (“radah”) o “soggiogata” (“kavash”) – come nell'altro racconto, seppure le traduzioni non rispecchino fedelmente il senso dell'originale –, ma “governata”, “organizzata”, nel senso di “coltivata” (“'abad”) e “custodita” (“shamar”), e il riferimento geografico non è tanto la Terra, come nell'altra versione, quanto piuttosto un giardino o comunque una porzione di territorio delimitata da confini.

La Terra comunque era già stata popolata, e anzi si è già passati dalla fase nomade (in cui l'uomo è semplice raccoglitore) a quella stanziale (in cui diventa agricoltore). I popoli, con le loro diverse identità (poligenismo), si sono già formati nelle loro rispettive identità, prendendo possesso di determinati territori.

Ciò che differenzia gli uomini dagli animali è proprio la capacità lavorativa, con cui si possono trasformare le cose. Nei miti antichi spesso si parla del lavoro, ma viene sempre presentato in termini negativi, come un'attività servile alla quale l'uomo non può sottrarsi, che non ha scelto di fare e che svolge a vantaggio esclusivo della divinità o di chi sta al potere. Qui invece il lavoro appartiene in maniera naturale alla vocazione umana; ogni attività rientra in qualche modo nell'imperativo che Dio rivolge all'uomo, quello di “coltivare e custodire” il giardino nel quale egli si trova. In particolare il verbo “'abad” indica sia il lavoro, sia il servizio o anche il culto, nel senso che l'uomo edenico deve custodire qualcosa che non gli appartiene ma che gli viene data in usufrutto.

In questo racconto la presenza dell'acqua viene data per scontata, ma non quella utile alla vita, che faceva spuntare l'erba campestre. L'assenza di irrigazione rendeva la Terra invivibile, almeno per l'uomo o per tutti gli esseri viventi sulla superficie terrestre.

[2,7] “... allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente”.

Gli esseri umani dispongono di un qualcosa in più rispetto agli altri animali: “un alito di vita” che li rendono “esseri viventi”.

Lo “spirito vitale”, che nell'originale è detto “neshamah”, nella Bibbia ricorre 24 volte e sempre in riferimento o a Dio o all'uomo. Nei Proverbi viene addirittura detto che lo spirito vitale “scruta tutte le camere oscure del ventre” (20,27), cioè scava nell'inconscio. Gli animali non hanno la “neshamah” proprio perché non hanno potere introspettivo, non hanno autocoscienza. Ed è questo particolare elemento che ci fa capire che all'origine della creazione e quindi del genere umano vi è una materia pensante e senziente.

[2,16-17] “Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: – Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”.

I progenitori (simbolo di un'umanità “innocente”) potevano ancora vivere in un luogo delimitato, dai confini sempre più angusti, oltre i quali la vita non era più “paradisiaca” ma “infernale”. Esisteva cioè un luogo migliore di altri (Eden), che poteva essere oggetto di invidia, di avidità da parte di chi aveva già sperimentato o scelto l'antagonismo sociale.

Lo attesta la stessa presenza, all'interno dell'Eden, di qualcosa di proibito, da cui i progenitori devono tenersi alla larga: l'albero della conoscenza del bene e del male, che in latino fu detto “melo” (“malus”), in quanto è comune la radice con “male” (“malus”).

Gli uomini possono mangiare i frutti dell'albero della vita, che assicura l'innocenza-uguaglianza, cioè l'esperienza della libertà (dalla schiavitù), ma non devono lasciarsi tentare dai frutti di un albero che mistifica le cose, che fa credere vere le cose false e false quelle vere. Questo albero è lì a testimoniare che l'Eden ormai è diventato un'eccezione e che oltre i suoi confini si vive nella colpa.

Gli uomini dell'Eden sanno già che esiste la “colpa”, che è l'arbitrio della proprietà privata, ma non la vivono al loro interno: conoscono già il male come realtà esterna alla loro comunità.

L'albero della conoscenza quindi rappresenta la presunzione di stabilire individualmente che il male esterno alla comunità non è più “male”. È l'albero del libero arbitrio, cioè della possibilità di scelta, che è sempre condizionata dalle circostanze, ma che, in ultima istanza, dipende dalla coscienza dell'essere umano. L'esperienza della libertà non può ovviamente essere imposta, essa ogni volta va ridecisa.

Chi mangerà il frutto del male smetterà di vivere positivamente, vivrà come se fosse “morto”, cioè senza innocenza, senza certezza del bene, vivrà con l'angoscia della colpa.

Una volta posto l'arbitrio, all'esterno del collettivo tribale, rimasto ancora non colpevole, i due alberi devono inevitabilmente convivere nell'Eden, anche se solo uno, quello positivo, è piantato in centro. Chi trasgredisce il divieto di considerare lecito l'illecito, dovrà per forza essere espulso dal “paradiso”, altrimenti, non rendendosi conto della gravità della colpa, finirebbe col diffonderla a quanti sono rimasti ancora innocenti.

Il racconto vuole essere emblematico di una transizione dalla fase della comunità primitiva a quella della formazione della civiltà urbana, la cui divisione in ceti e classi è alla base di tutte le altre caratteristiche sociali, culturali e politiche.

Adamo ed Eva non verranno cacciati dall'Eden in quanto conoscitori del bene e del male, ma in quanto seguaci, in tale conoscenza, del male. “È stata lei”, dirà Adamo. “È stato il serpente”, dirà Eva.

[2,18] “Poi il Signore Dio disse: – Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. [19] Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. [20] Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. [21] Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. [22] Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. [23] Allora l'uomo disse:

– Questa volta essa

è carne dalla mia carne

e osso dalle mie ossa.

La si chiamerà donna

perché dall'uomo è stata tolta.

[24] Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. [25] Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.

Nel racconto sacerdotale uomo e donna vengono creati insieme, a immagine di Dio. Qui invece vi è una successione temporale, un processo evolutivo che sembra essere determinato da una situazione di inadeguatezza esistenziale: la solitudine, che dà tristezza, malinconia. Adamo ('adam, singolare collettivo con cui si indica l'umanità, una popolazione umana) viene creato dalla terra ('adamah), ma la materia, in sé, non è sufficiente a definire l'umano: occorre precisare, di quest'ultimo, il lato femminile, un aiuto (‘ezer) che gli sia di fronte o accanto e nel contempo gli sia contrapposto (ki-negdò), come antitesi che assicuri il processo dialettico, un partner alla pari. Nella letteratura sumerica “ti” significa sia “donna” che “costola”.

Come all'origine della creazione della donna vi è la malinconia dell'uomo, così all'origine della creazione dell'uomo vi è una malinconia cosmica. Infatti la creazione, nel linguaggio semitico, è stata un'opera giocosa per vincere una sorta di malinconia. La cosmologia cabalistica ebraica con la parola intraducibile “tzimtzum” indica una certa impotenza divina, che si ritrae dalla propria “tuttezza” proprio nel momento in cui crea.

Tale “contrazione divina” sarebbe visibile proprio nell'uso della “parola”. La divinità si fa “umana” nel momento stesso in cui crea come “logos”.

La donna (o meglio la “uoma”, stando all'ebraico “'ishah”) diviene “atto” perché è già in “potenza” nell'uomo (“'ish”). Il lato femminile dell'uomo si materializza nel momento della debolezza esistenziale: l'uomo non può stare solo e tutti gli altri animali non colmano il vuoto che lo intristisce. Questo spiega il motivo per cui in origine non c'era un rapporto di dominio dell'uomo nei confronti della donna: l'uguaglianza sociale garantiva quella familiare e interpersonale. Proprio perché si sapeva che in origine vi è il due e non l'uno.

Pur essendo presente una qualche separazione dei sessi il racconto mostra che il rapporto maschio-femmina è strutturale all'essere e quindi anche all'essere umano (che è uno e bino) e agli esseri animali (dove persino i casi di ermafroditismo presentano caratteri sessuali maschili e femminili).

La donna non viene più considerata, a motivo della sua debolezza fisica, un essere inferiore preposto alla procreazione e a tutte le attività correlate a tale compito, ma viene considerata un essere di pari dignità umana. Se dopo l'uomo vi è la donna, dopo la donna non vi è più nulla. Vi è solo, per entrambi, la possibilità di riprodursi.

Nel racconto sacerdotale non si ha la percezione di questa evoluzione esistenziale nei rapporti personali tra i sessi. L'uguaglianza, sancita nel primo racconto, è astratta, offerta dalla natura come cosa scontata, in quanto la riproduzione è strettamente correlata alla divisione dei sessi, e in tale divisione, essendo primordiale a tutto, esiste uguaglianza ontologica.

Qui invece l'uguaglianza diventa un fatto storicamente acquisito. L'uomo s'accorge da solo d'avere al suo fianco un essere umano diverso, che è a un tempo suo simile e altro da sé. E probabilmente se ne accorge nel momento del bisogno, quando cioè con le sue sole risorse maschili non è più in grado di risolvere i problemi che lo affliggono. L'uomo prende progressivamente consapevolezza che la donna non va governata come gli animali, ma va amata e rispettata come se stesso.

Il redattore vuole recuperare con la donna un rapporto che nella fase monarchica del regno s'era probabilmente perduto. In tal senso non è affatto favorevole al ripristino di una tipologia di famiglia allargata di tipo patriarcale, in cui il ruolo della donna resta subordinato a quello dell'uomo. Proprio il bisogno di cercare un partner alla pari sta ad indicare una certa evoluzione verso il rapporto democratico della coppia.

[2,24] “Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”.

Il rifiuto dei matrimoni combinati qui appare netto. La ricerca del partner giusto è di fondamentale importanza ai fini dell'umana riproduzione; lo è molto di più che nel mondo animale, in quanto occorre trovare un'intesa anche sul piano affettivo.

Se non si avvertisse forte il bisogno di diventare adulti, lasciando i propri genitori, si resterebbe sempre “figli”.

In questo racconto viene precisato ch'erano “nudi e non se ne vergognavano”. Ciò appare come una sorta di ultima spiaggia dell'innocenza che stanno per perdere, a causa delle pressioni esterne favorevoli allo schiavismo, in cui solo lo schiavo è tenuto nudo per disprezzo, mentre lo schiavista è completamente vestito.

Evidentemente gli ebrei dovevano sapere che nelle comunità tribali la nudità era osservata con occhi innocenti, infantili, come una condizione naturale dell'essere umano. Sapevano cioè che in queste comunità non era sufficiente l'osservazione della nudità per far scattare il desiderio.

Questo perché gli uomini non attribuivano al sesso l'importanza che gli viene attribuita nelle civiltà antagoniste, per la realizzazione di sé. Anzi, se il sesso, ai primordi dell'umanità, veniva visto più che altro in funzione della riproduzione, è facile che fosse la sola donna a regolamentare i rapporti sessuali. E in tale regolazione è molto probabile che l'impulso sessuale fosse connesso ai ritmi o cicli della natura e delle stagioni, in maniera analoga al mondo animale. E che quindi la diversità del rapporto uomo-donna, rispetto a quello del mondo animale, non avesse un collegamento particolare con la sfera sessuale, ma semmai con quella affettiva.

Quando i nostri progenitori perderanno l'innocenza, a motivo dell'arbitrio, s'accorgeranno che la differenza sessuale poteva costituire un “problema” nel rapporto equilibrato tra i generi. La tendenza sarà infatti quella di riprodurre nel privato coniugale le stesse contraddizioni presenti nel pubblico della vita sociale: là dove domina la proprietà privata dei mezzi produttivi, lì può affermarsi un desiderio egoistico di appropriazione, da parte dell'uomo, nei confronti della donna. La differenza sessuale può essere percepita come occasione di violenza sul corpo, fisicamente più debole, della donna, la quale, ad un certo punto, sarà indotta o verrà costretta a coprirsi.

[3,1] “Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: – È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino? [2] Rispose la donna al serpente: – Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, [3] ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete. [4] Ma il serpente disse alla donna: – Non morirete affatto! [5] Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. [6] Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. [7] Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Il serpente è il simbolo del male esterno all'Eden, intenzionato a entrarvi. È astuto perché sa che deve mentire per farsi accettare. La sua è una sapienza rovesciata, al negativo, favorevole all'individualismo.

Deve dimostrare che la trasgressione del divieto, l'affermazione dell'arbitrio contro regole condivise, non porta alla morte della schiavitù ma a una vita di libertà. E non gli sarà difficile. Infatti chi ormai è costretto a vivere la libertà solo a condizione di rispettare un divieto, può facilmente illudersi, se non comprende la vera necessità del divieto, che, una volta trasgredito, una certa condizione sociale e personale o una certa situazione ambientale migliorerà in maniera decisiva.

Qui il serpente si rivolge agli ultimi, facendo loro credere che potranno diventare i primi. Il conflitto tra civiltà urbana e comunità rurale è pressante. Si tratta di confermare o smentire una scelta di vita, la quale viene fatta ogni volta che nella storia s'incontra l'opzione libertà-schiavitù, ovviamente con gradi diversi di condizionamento, dettati dai diversi contesti ambientali. Il dogma cattolico-romano del peccato originale, secondo cui la colpa si trasmette geneticamente, non fa che favorire, in tal senso, la soggezione dell'uomo ai poteri dominanti.

La colpa non era inevitabile, la caduta non era necessaria. Si trattava soltanto di rispettare delle regole comuni. La debolezza però ha prevalso. Dalla debolezza dell'uomo è nata la donna, dalla debolezza della donna è nata la civiltà ed è finito il comunismo primitivo.

La donna che cede per prima non rappresenta che la parte più debole (maschile e femminile) della comunità primitiva in via di dissoluzione. La sua decisione, all'inizio minoritaria, diverrà ad un certo punto maggioritaria, determinando il definitivo trapasso alla civiltà schiavista.

Una serie di debolezze ha prodotto la colpa, la rottura dei legami tribali originari, la nascita dell'individualismo. Ognuno ha scaricato su altri la responsabilità della colpa: “È stata lei”, “È stato il serpente”.

Non poteva esserci la colpa se non nella consapevolezza del bene e del male, solo che con la colpa il male si è interiorizzato. E ora, anche conoscendo la differenza (qui espressa da un modo diverso di guardare la nudità), non si è più capaci di bene, non si riesce a tornare indietro come se nulla fosse accaduto, non ci sono più le condizioni esterne per rieducarsi alla comunanza dei beni. Ora bisogna ricrearle con uno sforzo di volontà. Senza rivoluzione dei rapporti di proprietà, il senso di umanità dell'uomo non ha futuro.

[2,15] “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.

Il trapasso dal comunismo primitivo alla civiltà resta tuttavia antinomico: il senso innato della libertà lo rifiuta. Di qui la lotta incessante tra bene e male, espressa nelle parole: “porrò un duello incessante (“'ohebah” significa “scontro continuo”) tra il tuo seme (l'istanza di liberazione) e il suo seme (l'esperienza della schiavitù)”. Eva qui rappresenta l'umanità che si pente d'aver scelto l'individualismo.

Inevitabilmente, guastandosi i rapporti tra libertà e schiavitù nel sociale, si sono guastati anche i rapporti tra uomo e donna nel personale. Nell'originale ebraico è molto evidente che il dominio esercitato dall'uomo sulla donna è analogo a quello del sovrano nei confronti dei propri sudditi.

Ricco o povero che sia, l'uomo, reso schiavo dal proprio arbitrio, tende a schiavizzare la donna. Soltanto l'uomo libero può continuare a dire: “osso delle mia ossa, carne della mia carne”, cioè può riconoscere l'altro da sé come suo simile.

[2,16] “Alla donna Dio disse:

– Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze,

con dolore partorirai figli.

Verso tuo marito sarà il tuo istinto,

ma egli ti dominerà”.

Partorire diventa una maledizione per la donna che vi è costretta, per la donna che non lo sceglie sulla base delle proprie esigenze vitali, per la donna che non può più accettarlo in un contesto naturale di uguaglianza sociale e personale. Con la caduta la riproduzione non è più un fenomeno naturale ma un problema.

Lo stesso vale per chiunque svolga un lavoro: “Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita” (2,17). La schiavitù rende orribile qualunque cosa si faccia, anche se, per attenuarne il peso, la si interiorizza come abitudine.

Una volta creati, gli esseri umani non possono più morire (in quanto la materia è eterna), ma possono esserlo in senso spirituale; ecco perché era giusto il significato del divieto: l'individualismo uccide lo spirito; la disperazione è la malattia mortale, direbbe Kierkegaard.

Quel che si è perduta è stata la familiarità con l'origine, e si è reciso il legame con la comunità primitiva: l'uomo s'è improvvisamente trovato “nudo”, cioè solo, senza protezione, diverso da quel che era, bisognoso di mascherarsi.

È singolare come il clericalismo abbia voluto attribuire delle caratteristiche “teologiche” a un racconto del tutto antropocentrico, in cui l'essere e l'esserci condividevano un destino comune, senza avvertire tra loro alcuna differenza di sostanza, benché qui sia più esatto dire che in luogo dell'antropomorfismo delle religioni politeistiche, l'ebraismo ha preferito, ponendo l'uomo a immagine di Dio, una sorta di teomorfismo.

In effetti un “Dio” che passeggia nell'Eden non poteva certo essere superiore a un qualunque capo-tribù o anziano del villaggio, o al massimo poteva essere paragonato a un visir che nei grandi parchi e giardini pensili di Babilonia dialogava coi suoi sudditi privilegiati.

Qualunque riflessione “teologica” resta comunque un'astrazione senza senso, poiché il postulato che dà per scontato (l'esistenza di Dio) è, come disse Kant, indimostrabile. Più interessanti risultano quelle speculazioni religiose che asseriscono la totale incomprensibilità dell'esistenza divina, ma in queste teorie l'apofatismo è a un passo dall'ateismo.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Antico Testamento - Genesi
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La colpa originaria. Analisi della caduta


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