DALLA CREAZIONE ALLA CADUTA. ANALISI DEL GENESI


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I RACCONTI DELLA CREAZIONE 1 - 2

La creazione, Duomo di Monreale
La creazione, Duomo di Monreale

(Fonte sacerdotale)

A) Il primo racconto della creazione (1,1 - 2,4a) viene attribuito ai circoli sacerdotali del Tempio di Gerusalemme e rivela un intenso lavoro di elaborazione teologica. Esso viene datato all'incirca intorno ai secoli VI-V a.C., epoca in cui gli ebrei si trovavano prigionieri a Babilonia e in cui si auspicava un destino migliore per il popolo d'Israele. Risente di un clima di attesa e non a caso il testo è coevo ai grandi libri profetici. I biblisti moderni usano parlare di una “creazione bagnata”, in cui tutto esce dalle acque.

In un certo senso può essere definito una piccola “apocalisse genetica”, anzi “rigenetica”, nel senso che il redattore vuol far coincidere la fine della storia del popolo ebraico (costretto all'esilio) col suo inizio; dalla tragedia della distruzione del regno si vuol passare al recupero delle origini, come se si volessero azzerare tutte quelle epoche in lui gli uomini hanno sperimentato solo gli aspetti negativi dell'antagonismo sociale. Qui infatti all'antropologia del racconto jahvista si preferisce la cosmologia.

Tutti gli esseri dell'universo vengono creati secondo un ordine crescente di dignità, di cui il vertice è l'essere umano: una sequenza di eventi che si conclude col riposo sabbatico. Nella teologia ebraica non è l'uomo che “dà senso” alle cose, in quanto egli stesso fa parte di questo “senso”; cioè all'interno del “creato” l'uomo è il ricettacolo del “senso” per eccellenza, che è cosa “datagli” dal creato stesso, tant'è che si parla di essere umano, maschile e femminile, a “immagine e somiglianza” di Dio, che è a sua volta maschile e femminile, in quanto lo “spirito” di Jahvè in ebraico si dice, al femminile, “ruach”: dunque “padre” e “madre”, “re” e “regina”.

La stessa nozione di “Dio” (Jahvè-Elohim) è il tentativo di dar un “senso ordinato” (“cosmos”) a un creato (o meglio a un'esistenza terrena) che non ha più senso (“caos”), a un creazione storico-terrena in cui l'essere umano ha perduto il significato della propria vita, avendo dato origine alle civiltà basate sullo schiavismo. Ciò che era “naturale” tra gli esseri umani è diventato “artificiale” (la separazione dei ceti e delle classi) e in questa artificiosità la nozione di “Dio” viene introdotta proprio per recuperare in maniera simbolica la naturalità perduta.

L'autore di Gen 1,1-2,4a non ha fatto altro che sintetizzare, in maniera molto originale, varie mitologie orientali e mesopotamiche, che ha conosciuto vivendo in esilio, con la storia del suo popolo. Nelle prime sette tavolette d'argilla dell'Enuma Elish (“Quando in alto”) sono descritte la creazione dei cieli e della Terra e di tutto ciò che vi è in essa, compreso l'uomo, e la lode a un eroe di sangue divino, Marduk, che poi è il Dio fondatore della città di Babilonia, che nel settimo giorno si riposò (cessò ogni suo lavoro), dopo aver abbattuto Tiamat, il drago del caos, e averlo separato in due: con una metà creò il cielo, e in esso gli astri, e con l'altra la Terra, e in essa gli esseri viventi. Marduk costruisce l'uomo dalla terra, ma invece di alitargli nelle narici il suo spirito vitale, mescola la pasta argillosa col sangue maledetto del Dio Kingu, il Dio ribelle ucciso da Marduk, sicché l'uomo diventa incline al male sin dalla nascita.

Anche la Genesi di Eridu, il poema di Gilgamesh o il poema assiro Atrahasis tendono a mostrare la creazione come una vittoria di Dio su forze malvagie, centrifughe, che tendono a riportare l'universo al nulla ch'era un tempo. La stessa creazione di Adamo è preceduta dall'epos sumera della Creazione di Adapa. In genere anzi nell'antico oriente la creazione avveniva attraverso una battaglia tra opposte divinità, per cui il modello più significativo che rappresentava Dio era il guerriero intento a combattere.

La differenza sta nel fatto che il racconto ebraico, più sobrio e più concreto (tant'è che non si vede una cosmogonia di più dèi in conflitto tra loro, come p.es. nella Teogonia di Esiodo), concede meno spazio al mito e alle vicende fantastiche, e permette agli esseri umani di avere sempre un ruolo di primo piano. P.es. nell'epopea di Gilgamesh l'eroe, che vede l'immortalità appartenere solo agli dèi e a un unico uomo relegato in un'isola, è convinto, peraltro invano, di poterla ottenere individualmente. Nella Genesi invece l'albero della vita appartiene a tutti gli uomini e le donne dell'Eden e, per conservarne i frutti, si tratta soltanto di operare la scelta giusta: non c'è una condanna metafisica da subire con rassegnazione.

L'uso della parola “Elohim” sta comunque ad indicare gli “dèi dei popoli mesopotamici”, di cui quello ebraico è parte integrante: un Dio per ciascun popolo. Tradurla come “theòs” o “deus”, intendendo un ente totalmente autonomo rispetto all'uomo e indipendente dal creato, un essere assoluto che esiste di per sé, chiuso nella propria autosufficienza, non ha alcun senso per la teologia ebraica.

Vi è anche chi sostiene che, pur essendo grammaticalmente plurale, Elohim, nella Genesi (5,22; 6,9-11; 17,18), non è che un “plurale d'eccellenza” o un “plurale astratto”, che esprime in sommo grado il concetto di divinità e, insieme, l'infinita molteplicità degli attributi che essa assomma in sé, contenendoli nella loro espressione assoluta, più elevata e pura. In Genesi 2-3 e in altri passi, l'identità di Elohim è fusa esplicitamente con quella di Jahvè e dunque la traduzione del primo versetto sarebbe “In principio (bereshit) Dio (Elohim) creò (bara‘) il cielo [anzi, secondo la cosmologia ebraica dell'epoca, 'i cieli', 'shamaim'] e la terra”.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Antico Testamento - Genesi
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