CONSIDERAZIONI SULLA FILOSOFIA MEDIEVALE

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CONSIDERAZIONI SULLA FILOSOFIA MEDIEVALE

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LA RISCOPERTA DELL'ARISTOTELISMO

La riscoperta dell'aristotelismo avviene in un momento in cui l'esperienza cristiana era, sul piano etico-sociale, alquanto in crisi. Non è quindi stata questa riscoperta a fare entrare in crisi il cattolicesimo-romano, ma il contrario, e la riscoperta porterà solo apparentemente a un rafforzamento del cattolicesimo medievale, in quanto, di fatto, ne accelererà il declino.

Perché Aristotele era stato dimenticato? Perché Platone si prestava meglio alla strumentalizzazione operata dall'agostinismo, che sarà la teologia prevalente fino al tomismo. Il cristianesimo è nato valorizzando gli aspetti etici. Quando si è messo in alternativa al paganesimo, ha rifiutato, di questa cultura, non solo l'etica ma anche la scienza e la logica, determinando così l'arresto del progresso tecnico e scientifico. L'etica cristiana era superiore a quella pagana, ma la superiorità ideologica fu usata dal potere (politico ed ecclesiastico) per tenere le masse sottomesse e ignoranti.

C'è tuttavia da considerare che con la fine dell'impero romano il centro della vita economica si spostò dalle città alle campagne, e qui le esigenze dell'agricoltura non potevano essere così elevate come quelle del commercio. Il Medioevo rappresenta un tentativo di democratizzazione della vita sociale condotto in ambito rurale: al minor sviluppo tecnico-scientifico non corrispondeva affatto un peggioramento delle condizioni sociali di vita dei lavoratori. Non si può mettere sullo stesso piano la vita di uno schiavo con quella di un contadino medievale, foss'anche servo della gleba.

E' con Anselmo d'Aosta che, iniziando il distacco dall'agostinismo, inconsapevolmente si finisce col distaccarsi anche dalla religione tradizionalmente concepita. Il neo-aristotelismo, infatti, presuppone una certa laicizzazione della teologia cristiana.

Di notevole interesse è il fatto che tale teologia abbia riscoperto Aristotele attraverso la mediazione islamica ed ebraica. Ma ancor più interessante è il fatto che tale riscoperta non produsse nella teologia ebraica ed islamica quei risultati sconvolgenti (in direzione dell'ateismo) che produsse nella teologia latina. L'abbandono progressivo della religiosità appare come una prerogativa tipica dell'intellighenzia occidentale, soprattutto di quella nord-europea. La rinascita dei commerci (cui farà seguito quella di Aristotele) solo nell'Europa occidentale (prima che altrove in Italia) produrrà quella forte laicizzazione degli ambienti intellettuali, che invece nell'Islam e nel mondo ebraico s'incontra solo in singoli filosofi e teologi.

Con il neo-aristotelismo la teologia latina si distacca completamente e definitivamente anche dalla teologia ortodossa, assumendo quella laicizzazione che porterà alla nascita del protestantesimo (anche se questo si svilupperà in opposizione alla Scolastica).

La Scolastica iniziò un processo di laicizzazione che non riuscì a portare a termine, anche perché per giungere a certe conseguenze logiche e alla relativa coerenza pratica, occorrevano condizioni molto favorevoli, la prima delle quali era la stretta unità tra popolo e intellettuali. Siccome però la secolarizzazione era stata avviata, e non si poteva più tornare indietro o procedere come se nulla fosse successo, altri soggetti sociali, di altre aree geografiche, si preoccuparono di portarla a compimento. In questo senso la Riforma rappresentò il coraggio di trarre dalle premesse della Scolastica le debite conseguenze teorico-pratiche.

Con il neo-aristotelismo si inizia (per la prima volta dai tempi dell'affermazione del cristianesimo) a separare lo studio della filosofia da quello della teologia. Bonaventura, sotto questo aspetto, rappresenta il tentativo di conservare il migliore cristianesimo contro la Scolastica, in nome dell'agostinismo: un tentativo però abortito, perché ai suoi tempi non esisteva più l'esperienza cristiana che poteva fare da supporto all'ideologia agostiniana. L'agostinismo, anche se spiritualmente più ricco dell'arida Scolastica, era più regressivo ai tempi di Bonaventura, proprio perché si facevano strada le esigenze della laicità.

Naturalmente qui non è neanche il caso di ipotizzare una sorta di legame organico tra neo-aristotelismo e crociate. Le crociate possono essere state una risposta regressiva a un laicismo emergente, ovvero un effetto religioso aberrante di un'ideologia decadente, e possono anche essere state una sorta di risvolto pratico ai nuovi rapporti commerciali che si stavano imponendo in Europa occidentale (a partire dal Mille): in ogni caso non possono essere messe in relazione alla valorizzazione della laicità.

Se proprio nel periodo in cui si riscoprì l'importanza di Aristotele, si verificò anche il fenomeno delle crociate, il significato di questo va ricercato nel processo storico, nelle contraddizioni socio-economiche dell'epoca e non in altro. Nessuno può essere considerato responsabile del fatto che la laicità venne riscoperta in un contesto sociale dominato dalla divisione in classi. Nessuno ha il diritto di affermare che proprio a causa di quelle forti contraddizioni economiche, sarebbe stato meglio che il neo-agostinismo avesse trionfato sul neo-aristotelismo. Nessuno ha il diritto di ostacolare con la forza del potere il processo di autoconsapevolezza degli uomini.

LE PREMESSE DELL'ATEISMO BORGHESE

Può apparire sconcertante sostenere che il moderno ateismo borghese abbia le sue radici nella teologia cattolica del basso Medioevo. Ma è così. La Scolastica non si è sviluppata soltanto per giustificare la nascita dei Comuni, ma anche come conseguenza del fatto che una fede religiosa sostenuta da una chiesa politicizzata e da uno Stato confessionale può non essere una fede dalla grande spiritualità, può cioè essere una fede riducibile a istanze di tipo razionalistico e quindi laicistico.

La riscoperta accademica di Aristotele, dopo che nell'alto Medioevo ci si era limitati a cristianizzare il platonismo, non è stata casuale e neppure dovuta soltanto alle traduzioni e alle provocazioni razionaliste degli averroisti: era la stessa nascita della borghesia comunale che imponeva l'esigenza di ridimensionare le pretese di una fede religiosa divenuta del tutto formale, essendo rappresentata da un clero cattolico quanto mai corrotto, che invano i movimenti pauperistici ereticali cercheranno di riformare.

Tuttavia l'impermeabilità ai valori etici di un clero avido di potere politico ed economico riuscirà soltanto a fornire il pretesto ideale per estendere quella corruzione a livello di società civile, il cui soggetto promotore sarà appunto la classe borghese, fortemente intenzionata, nel proprio individualismo, a separare il momento religioso (pubblico e formale), dal momento economico (privato e sostanziale), il cui criterio fondamentale di vita sarà il business.

Una classe che non si forma esattamente nel mondo rurale (anche se qui non mancano piccoli nobili che diventano affaristi urbanizzati né intelligenti contadini che fuggono dal feudo per cercare fortuna altrove), ma piuttosto all'ombra della chiesa romana, frequentando le sue scholae, svolgendo mestieri utili alla gerarchia o comunque all'esperienza urbana della diocesi, dove ha sede l'episcopato, e che naturalmente è molto attiva, soprattutto là dove le città hanno un facile accesso al mare, nel tenere stretti rapporti con il ricco impero bizantino, e che è anche propensa a compiere lunghi e rischiosi viaggi verso l'oriente in cerca di vantaggiosi affari commerciali.

Una classe che, ad un certo punto, ha il coraggio di porre l'esperienza come criterio per decidere la verità o la falsità di determinate affermazioni teologiche o filosofiche. Tutta l'enorme fatica fatta dagli Scolastici di conciliare fede e ragione sortì un effetto che nessun teologo poteva prevedere, e cioè l'ulteriore svalorizzazione della fede in nome di una ragione non astratta, ma basata su verifiche sempre più concrete.

D'altra parte era nella logica delle cose: quanto più la fede si preoccupa di dimostrare razionalmente la verità dei propri postulati, tanto più la ragione può sostenere che, per vivere, non c'è bisogno di avere alcuna fede religiosa.

Tutta la speculazione sul valore della fede rifletteva una profonda crisi della stessa esperienza di fede. Alla fine dell'alto Medioevo la cristianità cattolico-romana aveva già perso tutta la propria spiritualità, al punto che questa potrà essere recuperata solo opponendosi alla stessa chiesa, cioè rivivendo i suoi stessi valori secondo una modalità più simile a quella del cristianesimo primitivo.

Soltanto quando questi tentativi di recupero di un passato molto lontano verranno definitivamente repressi dall'istituzione ecclesiastica, con l'inquisizione e le crociate interne, ci si preoccuperà di cercare alternative al di fuori del perimetro religioso tradizionale.

Queste alternative saranno fondamentalmente due: la riforma protestante (che nella variante calvinista abbraccerà decisamente lo sviluppo del capitalismo) e l'umanesimo borghese, più laico che religioso. Sarà poi soltanto dalle contraddizioni della borghesia che l'umanesimo assumerà di più i contorni di una rivendicazione proletaria e socialista.

DIALETTICI E ANTIDIALETTICI NELL'XI SECOLO

Quando nell'XI sec. si formò in Europa occidentale l'urbanizzazione borghese, il primo tema che, nell'ambito della Scolastica, si affrontò fu quello dei rapporti tra fede e ragione. Due i partiti a fronteggiarsi: i dialettici, sostenitori della superiorità della ragione sulla fede; gli antidialettici, sostenitori del contrario.

Per noi, oggi, abituati al laicismo e al razionalismo, è facile schierarci dalla parte dei dialettici. Tra questi l'arcidiacono di Angers, Berengario di Tours (998-1088), negava la dottrina della transustanziazione, sostenendo, aristotelicamente, che se il pane diventa corpo di Cristo, allora dovrebbe mutare anche la forma, e se questa non cambia, allora la presenza di Cristo nel pane è solo simbolica, non reale. Era, la sua, una posizione chiaramente orientata a favore del razionalismo (anticipatrice del protestantesimo di almeno mezzo millennio) e, se la si fosse portata alle estreme conseguenze, sarebbe facilmente approdata all'ateismo. Berengario rifletteva le esigenze di modernità e di autonomia di pensiero della classe borghese, e dovette ritrattare le sue tesi per risparmiarsi la sentenza capitale, per quanto la transustanziazione divenisse dogma di fede solo nel 1215, al IV Concilio Laterano.

Il monaco ravennate Pier Damiani (1007-72) invece, rappresentante il partito antidialettico, vedeva le cose in maniera tradizionale, come i suoi colleghi teologi spiritualisti o quelli dell'area bizantina. Egli sosteneva infatti che ai misteri della fede non si possono applicare argomentazioni di tipo razionalistico. I misteri sono insondabili e vanno creduti solo per fede. Quindi il corpo cristico è realmente presente nel pane consacrato.

Chi aveva ragione? Dal punto di vista strettamente teologico gli antidialettici, per quanto la teologia orientale, quella più antica, contestasse sia l'uso latino del pane azzimo, sia l'idea che la trasmutazione degli elementi eucaristici avvenisse non per opera dello spirito santo ma in forza delle parole consacratorie pronunciate dall'officiante. Senonché i dialettici usavano argomenti che, pur essendo religiosi, erano già intrinsecamente antireligiosi. E' corretto questo modo di procedere? Nell'ambito della chiesa non dovrebbe esserlo. Se, in quanto credenti, si è razionalisti, non ci si dovrebbe permettere di contestare i dogmi della fede, ma semplicemente limitarsi a dire che con la fede non si risolve alcun vero problema sociale, alcuna vera conoscenza pratica, utile allo sviluppo del lato umano della personalità. Oppure uno si limita a fare il credente e contesta i dogmi o i precetti sulla base di tradizioni precedenti che sono state sconfessate: di qui peraltro la rottura, mai sanata, tra cattolici e ortodossi.

Noi stessi oggi, interpretando quella controversia, non dovremmo schierarci né per gli uni né per gli altri: al massimo potremmo sostenere che un ateo deve difendere l'integrità della fede da chi vorrebbe screditarla e snaturarla dall'interno della chiesa. Non tanto perché ama schierarsi ideologicamente anche per quelle questioni che non gli interessano da vicino, quanto perché non deve offrire il pretesto ch'egli voglia distruggere la fede servendosi di una propria "quinta colonna" all'interno della chiesa.

E' fuor di dubbio tuttavia che all'ateo interessa soprattutto salvaguardare una certa distinzione dei piani, in quanto fede e ragione dovrebbero marciare su binari separati. E, in tal senso, bisogna dire che in quella controversia vi fu molta confusione nella gestione dei ruoli e delle proprie posizioni di principio.

D'altra parte il motivo di tale confusione è molto semplice: la chiesa romana da tempo sosteneva l'identità di teologia e politica, di potere spirituale e temporale. In una situazione del genere, anche se era nel suo interesse difendere le tesi degli antidialettici, involontariamente, col proprio atteggiamento prevaricatore, si trovava a favorire quelle dei dialettici. I quali non erano corrotti in quanto "razionalisti", ma in quanto "razionalisti nell'ambito della chiesa".

La chiesa primitiva non era nata in virtù della ragione, ma in virtù della fede nella resurrezione del figlio di dio. Una volta decisa questa verità, non la si poteva mettere in discussione, a meno che, appunto, non si uscisse dalla stessa chiesa e non ci si opponesse a questa struttura di potere con un progetto politico alternativo. Già Scoto Eriugena aveva iniziato a usare la filosofia in funzione antiteologica. Perché mai questo atteggiamento non avrebbe dovuto continuare?

In effetti, a fronte di una chiesa quale quella romana, già profondamente corrotta nell'alto Medioevo, avendo essa subordinato la fede alla politica, diventava del tutto naturale, per qualche teologo radicale, subordinare la fede anche alla ragione, contro la stessa chiesa. Perché mai una posizione vicina all'ateismo non avrebbe dovuto (e non dovrebbe ancora oggi) appoggiare una tale dissoluzione della fede?

La risposta sta nel fatto che proprio in questa maniera è l'idea di "democrazia" che viene meno. Paradossalmente proprio nel mentre si approvava, all'interno della chiesa, che la ragione subissasse la fede, s'impediva anche alla fede di recuperare se stessa e si faceva quindi della ragione uno strumento arbitrario.

No, ateismo non vuol dire questo. L'ateismo si deve sviluppare anche quando la religione è nel pieno delle sue forze, semplicemente dimostrando, nei fatti, che si è migliori, cioè che si è migliori restando separati da un affronto mistico delle umane contraddizioni.

SCUOLA DI CHARTRES (circa 980-1180)

Nel XII secolo, a Chartres (Francia), nasce l’omonimo movimento filosofico. I discepoli di questo movimento sostengono che la filosofia non può essere opera di un uomo, qualunque sia il suo ingegno, ma, come accade per la scienza, il suo progredire deriva dalla paziente collaborazione delle generazioni che vi si dedicano nella loro successione temporale. E' noto il loro motto, che tanto successo avrà anche nel mondo non-credente: "siamo come nani sulle spalle di giganti e, per questo motivo, vediamo più lontano di loro" (i "giganti" erano anzitutto Platone e Aristotele).

Quindi, proprio a Chartres, in una delle più grandi scholae episcopali cittadine, per opera di grandi vescovi e chierici, il mondo intero riappare sotto una nuova immagine, grandiosa ed energica.

I tratti inconfondibili di tale scuola sono: grande impegno nella ricerca filosofica, difesa della cultura letteraria e studio attento degli autori classici. Maestri di altissimo livello culturale dirigono e dettano lectiones nella cattedrale.

Alla grandezza culturale si accompagna la varietà di campi da essi prediletti: il diritto, la grammatica, la retorica, la fisica e la politica, con grandi e varie figure di dotti; "la schola" è la prima grande affermazione di una cultura "aperta".

La biblioteca raccoglie libri di discipline insolite, che provengono in copia e in traduzione da terre lontane. Sono testi di medicina che provengono da Salerno e Montecassino, di astrologia e medicina provenienti dall’Islam, di diritto etc. Alcuni di questi volumi sono del tutto nuovi per la "schola" e tra questi si distinguono: il commento di Calcidio al "Somnium Scipionis", il frammento del "Timeo platonico", il "De natura deorum" di Cicerone e "L’auctoritas" di Boezio.

Dopo il Medioevo monastico, la scuola sembra, infatti, riprendere un nuovo colloquio con i più grandi filosofi antichi: Platone, Virgilio, Cicerone; inoltre arrivano a Chartres traduttori e visitatori dell’Islam.

Lo spirito chartrense è, quindi, uno spirito di curiosità, d’osservazione, d'investigazione, alimentato dalla scienza greco-araba. La sua sete di conoscenza si espanderà talmente che il più celebre dei volgarizzatori del secolo, Onorio detto D’Autun la riassumerà in una formula stupefacente: "L’esilio dell’uomo è l’ignoranza; la sua patria, la scienza" (J. Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, ed. Mondadori, Milano 1993, p. 61).

I chierici-maestri credono, anzitutto e profondamente nell’"Humanitas"; cioè credono che l’uomo sia qualcosa di essenziale all’universo e di centrale nel mondo.

Questa idea-guida è comune a tanti maestri impegnati in diversi campi del sapere. Essi rifiutano l’antica idea di San Gregorio e di moltissimi monaci, secondo la quale l’uomo non era inizialmente previsto nei piani della creazione e che questi fu creato fortuitamente da dio dopo la rivolta degli angeli, come loro sostituto.

Al contrario, per questi maestri l’uomo non è un "ripiego" della creazione, ma sin dal principio è nei piani di dio come scopo del mondo, che dio crea per lui. Gli scultori gotici, anche nell’adornare la cattedrale di Chartres, s'ispirano, come ovunque, a questo nuovo modello, che è l’uomo stesso.

In questo umanismo è presente una seconda grande idea-guida comune: la cultura come costruzione umana. Il centro del mondo è l’uomo, è l’essere che usa effettivamente la ragione, non quello che la rifiuta, preferendo solo sradicare foreste. Ora la ragione è anzitutto brama di sapere. In questa ansia di sapere i maestri sono stati preceduti dagli antichi: essi sono il grandioso punto di partenza puramente umano dal quale il dotto può prendere il volo.

"Noi siamo", diceva Bernardo di Chartres, iniziatore della scuola, "come nani seduti sulle spalle dei giganti". I giganti sono i filosofi, i grandi remoti antenati del chierico-maestro, che ricomincia daccapo a far cultura.

Questi antichi sono grandi figure, nei quali saggezza e curiosità fan tutt’uno: il saggio Salomone, Alessandro spinto ad esplorare (non a conquistare) il mondo dalla brama di "sapere" e non di potere, infine Virgilio, l’esploratore di ciò che sta al di là della vita, il regno stesso dei defunti. Con questi antichi l’idea stessa di Auctoritas cambia accento: da imperioso e misterioso comando, diventa modello da imitare per andare oltre.

Dunque, anche nella cultura, come nella nuova città, il compito è quello di costruire, più che non quello di ricostruire. Le basi esistono. Da qui la terza idea-guida dell’umanismo di Chartres: come l’uomo è centro del mondo, come la cultura è una costruzione che si leva anche oltre la Traditio, così il centro dell’uomo è la ratio e l’uomo può costruire solo mediante la ratio. Sulle spalle dei giganti antichi, anche se nani, gli uomini potranno vedere più cose e più lontano. L’Auctoritas si trasforma in un aiuto per la ratio che vuole andare oltre, vedere più lontano.

La base di questo naturalismo è la fede nell’onnipotenza della natura. Per i chartrensi la natura è prima di tutto una potenza fecondante, perpetuamente creatrice, dalle inesauribili risorse, è, quindi, Mater generationis.

La loro concezione organicistica della natura, secondo cui ogni singola cosa dell'universo è collegata con tutto il resto, in base a leggi proprie, in quanto l'universo è in grado di autogovernarsi, è una concezione valida ancora oggi, che nessun ambientalista potrebbe mai rifiutare.

L’uomo, come affermano Guglielmo di Conches, discepolo di Bernardo di Chartres e Bernardo Silvestre, essendo natura e potendo comprendere la natura per via della ragione, può anche trasformare la natura con la propria attività. L’uomo, quindi, diventa l’artigiano che trasforma e crea, homo faber, cooperatore della creazione con dio e con la natura. "Qualunque opera", dice Guglielmo di Conches, "è opera del creatore, opera della natura, o dell’uomo artefice che imita la natura".

L'idea di questa Scuola di far coincidere l'uomo con l'universo, considerandolo come una sintesi di quest'ultimo, una sorta di cosmo in miniatura, era sicuramente indovinata, anche se già presente, in qualche modo, nel Timeo platonico.

I teologi di questa Scuola erano arrivati a queste conclusioni cercando nella Bibbia delle verità scientifiche (fisiche e logico-razionali), che fossero valide di per sé, cioè basate su leggi che non avrebbero avuto bisogno del provvidenzialismo divino o di spiegazioni di tipo allegorico.

Quanto più pretendevano di studiare la Bibbia indipendentemente dalla fede, tanto più questi teologi si trovavano costretti a procedere verso idee di tipo ateistico. D'altra parte ogniqualvolta si tenta di "spiegare la fede", inevitabilmente se ne riduce l'intensità. Non a caso avevano capito che natura e uomo possono convivere tranquillamente, senza che ogni volta debba intervenire su di loro la volontà divina.

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L'ANOMALIA CISTERCENSE

Il monachesimo cistercense è una riedizione, riveduta e corretta del monachesimo benedettino, operata nel basso Medioevo, esattamente a partire dal 1098, anno della sua fondazione. Dei benedettini si rifiutava la ricchezza, dovuta alle grandi proprietà terriere e allo sfruttamento di manodopera servile.

Il suo principale protagonista fu Bernardo di Clairvaux (Chiaravalle), vissuto tra il 1091 e il 1153, il quale, per tutta la vita, lottò contro la Scolastica, in nome di un misticismo somigliante alla teologia apofatica orientale. Arrivò persino a parlare di deificazione, trasfigurazione, contemplazione, estasi, ecc., che sono concetti così poco usati nel mondo latino che, subito dopo di lui, altri due mistici, Ugo di San Vittore e Riccardo di San Vittore, misero sullo stesso piano il pensiero (fondato sull'immaginazione), la meditazione (fondata sulla ragione) e la contemplazione (fondata sull'intelligenza): la mistica s'accordava col razionalismo.

La cosa più strana è che Bernardo visse il proprio misticismo con grande passione ideologica e politica, predicando p. es. la seconda crociata, lottando contro l'antipapa Anacleto II e contro varie eresie pauperistiche, favorendo la condanna del grande teologo Abelardo al concilio di Sens e la fondazione dell'ordine dei Templari. Tentò anche di far condannare il vescovo di Poitiers e maestro di teologia a Parigi, Gilberto Porretano per le sue tesi trinitarie, ma non vi riuscì.

Numerosi furono i suoi interventi in questioni che riguardavano i comportamenti di ecclesiastici: accusò di scorrettezza Simone, vescovo di Noyon e di simonia Enrico, vescovo di Verdun; nel 1138 favorì l'elezione a vescovo di Langres del proprio cugino Goffredo della Roche-Vanneau, malgrado l'opposizione di Pietro il Venerabile e, nel 1141, ad arcivescovo di Bourges di Pietro de La Châtre, mentre l'anno dopo ottenne la sostituzione di Guglielmo di Fitz-Herbert, vescovo di York, con l'amico cistercense Enrico Murdac, abate di Fountaine.

Insomma, da un lato chiedeva di vivere in luoghi disabitati e marginali, nei pressi di foreste, su terre incolte o abbandonate, per tornare alla povertà evangelica, mortificandosi in un duro lavoro manuale; dall'altro però amava fare il politico e l'intellettuale in mezzo a dispute teologiche e a lotte per il potere ecclesiastico. Un suo allievo divenne papa Eugenio III, al quale egli dedicò il trattato Sulla considerazione, in cui stigmatizza la vita della curia e gli interessi prettamente politici che vi si coltivavano. Arrivò persino a ricordare a Eugenio III che, secondo l'opinione comune, non era lui il "papa" ma proprio Bernardo.

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M. D. Chenu, La teologia del XII secolo, ed. Il Mulino, Bologna 1972

NEO-FRANCESCANESIMO E POST-TOMISMO

Migliori di quelle tomistiche sono le posizioni che non si preoccupano di rendere più credibile la fede agli occhi della ragione, ma quelle che tendono a separare nettamente la fede dalla ragione, privilegiando quest'ultima (cosa però che avverrà, in maniera esplicita, solo con l'Umanesimo e il Rinascimento).

Purtroppo ai tempi di Tommaso d'Aquino e anche dopo la sua morte, la corrente che mirò a tenere separata la fede dalla ragione era il neo-agostinismo, il quale non solo difendeva un concetto astratto di fede, privo della corrispondente esperienza pratica, ma impediva anche alla ragione una qualunque forma di autonomia. La ragione era separata dalla fede solo nel senso che le era strettamente subordinata.

Il neo-agostinismo separava la fede dalla ragione per svalutare completamente quest'ultima e, facendo questo, non si rendeva conto che l'esperienza cristiana, sin dagli ultimi secoli dell'alto Medioevo, era già entrata profondamente in crisi, e la nascita dei Comuni, lo sviluppo della borghesia, il fenomeno delle crociate e dei movimenti ereticali non faranno che confermare questo declino.

Per difendersi da queste espressioni di crisi (che naturalmente non tutti interpretavano così), il neo-agostinismo non elaborò una nuova soluzione operativa, ma una nuova teologia, tipicamente accademica: una teologia che continuasse ad avere come contenuti fondamentali quelli classici dell'agostinismo, ma che li esprimesse in una forma diversa, più filosofica, quelli tipici della Scolastica.

Ecco perché il tomismo, al cospetto del neo-agostinismo, può essere considerato, nonostante i suoi limiti, una riflessione filosofica progressista, avendo saputo meglio valorizzare lo strumento della ragione.

Tuttavia, ancora più progressiste del tomismo sono quelle correnti che abbandonarono il concetto astratto di fede dei neo-agostiniani, e che: o recuperarono il valore tradizionale (patristico) della fede religiosa (alcuni movimenti ereticali); o spinsero il concetto di fede verso una forma di secolarizzazione che anticiperà la Riforma protestante (altri movimenti ereticali); o che addirittura elaborarono un concetto più laico di ragione (vedi ad es. R. Bacone). Probabilmente l'unica corrente che in Europa occidentale cercò di separare nettamente la fede cristiana più autentica dalla ragione, valorizzando però entrambe, fu il neo-francescanesimo (R. Bacone, Duns Scoto e Occam).

I neo-francescani, mirando a purificare la fede, produssero questo stupefacente risultato: contribuirono a rendere più laica e scientifica la ragione. E questo avvenne in quel Paese che più di ogni altro aveva conservato le tracce della teologia ortodossa (andate irrimediabilmente perdute negli altri Paesi europei: in Italia si conserveranno nella pittura, almeno sino a Giotto). Questo Paese era l'Inghilterra.

Come mai i neo-francescani inglesi e scozzesi non caddero nell'oscurantismo dei neo-agostiniani? Semplicemente perché avevano lo sguardo rivolto verso il futuro e non verso il passato (o, se verso il passato, non verso quello del compromesso costantiniano di chiesa e Stato, ma verso quello del cristianesimo primitivo e ortodosso).

I neo-francescani (favoriti, in questo, anche dalla distanza geografica della loro nazione rispetto al centro della cristianità latina) lottarono con coraggio contro le pretese temporali della chiesa. Il loro realismo umanistico è degno della massima considerazione.

Che poi lo sviluppo autonomo della ragione abbia portato in Inghilterra all'empirismo e allo scetticismo, questo è un altro discorso. Ruotando in un'orbita occidentale, l'Inghilterra francescana non poteva produrre qualcosa di diverso: in fondo l'empirismo è servito anche a togliere di mezzo le astratte speculazioni della Scolastica.

Il problema vero dei neo-francescani inglesi, semmai, è stato un altro. In effetti, il tentativo di recuperare la fede religiosa più autentica, in un'epoca in cui il valore della ragione aveva raggiunto livelli molto significativi, rischiava facilmente di portare al misticismo. Gli uomini non possono prescindere dalle leggi fondamentali del loro tempo. Duns Scoto e Occam, in questo senso, vanno attentamente vagliati: spesso il loro progressismo era più evidente in politica che in filosofia.

Il recupero integrale della fede ortodossa, in un'Europa ormai caratterizzata dalla speculazione filosofica, dal materialismo dell'esperienza borghese, dalla riscoperta (accademica) dell'aristotelismo, non poteva, di fatto, più essere possibile. Persino nell'impero bizantino la teologia ortodossa, in questo periodo, faticava alquanto a restare coerente con se stessa.

Pertanto, se vogliamo valorizzare lo sforzo neo-francescano di separare la fede dalla ragione, dobbiamo farlo solo situandolo in una prospettiva in cui si possa assicurare il primato della ragione.

In questo senso, chi ha veramente superato Tommaso d'Aquino, nel XIII sec., sul piano scientifico, è stato R. Bacone, mentre sul piano politico, nel XIV sec., è stato Marsilio da Padova (che francescano non era). Le riflessioni teologiche di Duns Scoto e di Occam non hanno nulla di originale rispetto a quelle della teologia ortodossa, e possono essere considerate progressiste solo in quanto di esse si approprierà la Riforma protestante, la quale però le rielaborerà in una forma che di religioso, in ultima istanza, avrà ben poco.

Questo dimostra inconfutabilmente che non si può conservare la fede ortodossa a prescindere dall'esperienza cristiana corrispondente. La mancanza di questa esperienza ha prodotto nell'Europa occidentale la nascita dell'ideologia borghese, mentre nell'Europa orientale ha prodotto la nascita dell'ideologia socialista.

In particolare, si è avuto che, mentre in Occidente l'ideologia socialista è nata senza concretarsi in forme coerenti, venendo meno così anche al suo sviluppo teoretico ulteriore; nell'Europa orientale si è passati dalla fede ortodossa (e in parte cattolica) all'ideologia socialista sulla base dell'esperienza corrispondente, per cui lo sviluppo dell'ideologia è stato considerevole.

Oggi l'ideologia e la prassi socialista tradizionali sono entrati profondamente in crisi, e in molte nazioni dell'Europa orientale (specie in quelle di religione cattolica) si sta abbracciando il capitalismo, e questo proprio mentre in Occidente si sta assistendo al declino irreversibile della stessa ideologia borghese, cui però non corrisponde un'esperienza alternativa.

Per uscire da quest'impasse occorrerebbe che tutta l'Europa accettasse di vivere una nuova esperienza del socialismo, su basi democratiche, autogestite e umanistiche.

Perché son fatti così male i manuali di filosofia medievale?

Quando uno scrive un manuale di filosofia come può vedere l'alto Medioevo? Come un'epoca buia e decadente, dove sul piano culturale l'unica cosa significativa fu la trascrizione dei testi classici da parte degli amanuensi benedettini. Persino la Schola Palatina, voluta da Carlo Magno e organizzata da due monaci irlandesi, prima Alcuino, poi Giovanni Scoto Eriugena, viene considerata poco innovativa, sia rispetto ai classici greci, sia rispetto alla teologia agostiniana, che in Europa occidentale dominerà sino alla riscoperta accademica dell'aristotelismo.

Questo atteggiamento di totale incomprensione di quell'epoca è dovuto a due motivazioni: la prima è che si guarda il passato con gli occhi del presente, per cui, vivendo noi in un'epoca basata su città e mercati, scienza e tecnica, tutto ciò che non rientra in questo standard viene considerato particolarmente arretrato (salvo valorizzare quei singoli aspetti che più s'avvicinano al nostro stile di vita, come eccezioni alla regola); la seconda motivazione è conseguente alla prima: per noi "cultura" vuol dire anzitutto elaborazione sofisticata di ragionamenti astratti e logici.

La cultura non è necessariamente una riflessione sopra un'esperienza in atto, proprio perché noi tendiamo a separare la teoria dalla pratica, così come separiamo l'attività manuale da quella intellettuale, per cui, là dove manca la cultura intellettuale, cioè quella prodotta dagli specialisti in materia, vi è solo subcultura.

Sicché quando si esamina l'alto Medioevo ci appare del tutto insignificante (soprattutto se si produce un manuale di "filosofia") che, sul piano sociale, i cosiddetti "barbari" avessero trasformato il rapporto economico da schiavile a servile, favorendo l'autoconsumo invece del mercato e quindi la campagna invece della città.

Per noi quella fu un'epoca di regresso, almeno sino a quando non rinacquero le città intorno al Mille. La teologia agostiniana poté dettare legge per mezzo millennio proprio perché aveva avuto la fortuna d'essere stata elaborata prima del definitivo crollo dell'area occidentale dell'impero, quando ancora la cultura classica faceva sentire tutto il proprio peso.

La cosa strana è che non ci si accorge neppure che per tutto l'alto Medioevo l'area bizantina aveva prodotto una teologia di altissimo livello, enormemente più sofisticata e precisa di quella agostiniana. Gli autori di questi manuali s'accorgono della presenza di tale teologia solo quando, relativamente all'alto Medioevo, sono costretti a parlare di Scoto Eriugena, il quale, conoscendo il greco, era in grado di tradurre tutte le opere di quel grandissimo teologo anonimo chiamato pseudo-Dionigi Areopagita, dal quale prese anche buona parte della propria teologia. Tradusse anche gli Ambigua di Massimo Confessore e La creazione dell'uomo di Gregorio Nisseno.

Perché questa ignoranza così abissale nei confronti della patristica greca? Semplicemente perché nell'Europa occidentale s'è operata, in nome della romanità e latinità del cattolicesimo, una censura nei confronti di quella straordinaria cultura, vista sempre come una pericolosa rivale, soprattutto perché non ammetteva che la chiesa potesse costituirsi come "Stato". Non a caso quegli intellettuali latini che favorirono troppo la cultura religiosa orientale venivano o eliminati (come Boezio) o anatemizzati (come lo stesso Eriugena).

Questo significa che, anche quando si fanno manuali di filosofia con un'impostazione di tipo laicista, non si può fare a meno di mettersi dalla parte di una sola versione del cristianesimo, quella appunto papista, cioè quella che ha fatto del potere politico ed economico la ragione della propria esistenza.

Questi autori di manuali filosofici spesso hanno una notevole ignoranza della patristica greca e della teologia ortodossa o bizantina, altrimenti si sarebbero accorti subito che non vi è, fino ad Agostino, neanche un teologo della parte occidentale dell'impero o dei regni romano-barbarici che abbia detto qualcosa di davvero innovativo rispetto ai teologi orientali. Lo dimostra il fatto che il mondo latino non conobbe alcuna significativa controversia cristologica e non riuscì mai ad elaborare alcuna teologia pneumatica.

Laddove si riscontrano innovazioni, a partire soprattutto da Agostino, in genere vengono considerate vere e proprie "eresie" da parte dei teologi orientali: dal Filioque al primato di Pietro, dalla trasmissione ereditaria del peccato originale alla supremazia giurisdizionale sulla cristianità rivendicata dalla diocesi di Roma.

Le uniche innovazioni davvero interessanti, per una visione laicizzata della vita, sono state quelle che hanno ridimensionato l'importanza della fede rispetto alla ragione o quelle che hanno elaborato delle concezioni religiose vicine agli interessi dei ceti marginali. Ma anche in quest'ultimo caso, agli autori dei manuali di filosofia piace poco "perdere tempo" a esaminare le opere di chi è uscito sconfitto dalla storia dei potenti.

Agostino d'Ippona - Dionigi Areopagita - Scoto Eriugena - Anselmo d'Aosta - Anselmo d'Aosta tra Kant ed Hegel - Tommaso d'Aquino - Guglielmo di Occam - Abelardo e gli Universali - Abelardo ed Eloisa - Duns Scoto - Eresie medievali - John Wicliffe - Scisma cattolico-ortodosso

Bibliografia


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018