IL VOLONTARISMO MEDIEVALE

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IL VOLONTARISMO MEDIEVALE

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Giuseppe Bailone

Anselmo d'AostaDuns ScotoTommaso d'Aquino

Il termine volontarismo indica le dottrine che affermano il primato della volontà, ma anche della fede e degli elementi emotivi, sull’intelletto e sulle capacità razionali. Si usa anche per la filosofia di Schopenhauer che identifica nella volontà la sostanza del mondo. E’ un termine filosofico relativamente recente: il primo ad usarlo è stato un filosofo tedesco, Tönnies, in uno scritto del 1883 su Spinoza. Il termine ha subito avuto fortuna, prestandosi ad indicare correnti di pensiero che si andavano affermando, a cavallo dei due secoli, contro il positivismo e il razionalismo. Il termine ha fortuna anche nella storiografia filosofica, dove, ad esempio, si parla di volontarismo cristiano in opposizione all’intellettualismo[1] greco.

Di volontarismo si parla a proposito di Duns Scoto, nel cui pensiero non mancano elementi a sostegno del primato della volontà umana e divina. Vediamone alcuni.

“La volontà, in quanto atto primo, è libera ad atti opposti; è libera pure di tendere, mediante tali atti opposti, a opposti oggetti ed inoltre di produrre effetti opposti”.[2] La volontà non ha altra causa che se stessa: è infatti il solo principio di ciò che accade in modo non necessario, ma contingente.[3]

Nell’atto volontario, secondo Duns Scoto, l’intelletto dipende dalla volontà: la volontà se ne serve e lo piega alle esigenze dell’azione.

Nell’uomo e in Dio la volontà è libera.

L’uomo conosce con l’intelletto i comandi divini, ma obbedisce o meno ad essi con la volontà. L’uomo sa che cosa Dio vuole da lui, ma è libero di obbedirgli o meno. Se non gli obbedisce sa di fare il male.

Il male morale per Duns Scoto non è l’ignoranza socratica[4] del bene. Non è la bontà intrinseca dell’oggetto a causare necessariamente l’assenso della volontà. Per Duns Scoto il male morale è il peccato, la decisione consapevole di disobbedire a Dio.

La mela del peccato originale non doveva essere colta, non perché fosse una mela marcia o velenosa, bensì perché era una mela proibita. Adamo ed Eva conoscevano bene quel divieto: Dio aveva parlato chiaro, l’intelletto di Adamo e di Eva aveva capito bene quel divieto e aveva prospettato alla loro volontà le possibilità che si aprivano. La conoscenza del divieto divino non ha annullato la libertà di scelta, ma l’ha provocata e l’ha servita. Ha aperto alla volontà il possibile, l’ha messa alla prova illustrandola.

Servita dall’intelletto, è la volontà che decide di fare il bene o il male.

In Dio la volontà, assolutamente libera, determina la legge morale: “Dio non può volere qualcosa che non sia giusto, perché la volontà di Dio è la prima regola”.[5] Dio nella sua libertà potrebbe stabilire una legge diversa da quella che ha stabilito. Se lo facesse, questa legge diversa sarebbe giusta, perché è la libera volontà divina che fa giusta una legge.[6]

L’onnipotenza divina è assoluta, libera anche dai vincoli dell’intelletto: “Le leggi universali dell’agire giusto sono stabilite dalla volontà di Dio, non dall’intelletto divino, in quanto esso precede l’atto della volontà divina … poiché in quelle leggi non si trova alcuna necessità concettuale”.[7]

Dio vede con l’intelletto le infinite possibilità che si offrono alla sua scelta, ma nessuna di esse s’impone alla sua volontà con “necessità concettuale”: come ha creato dal nulla questo mondo scegliendolo tra infiniti mondi possibili, quando stabilisce ciò ch’è bene e ciò ch’è male, sceglie liberamente tra le infinite possibilità che l’intelletto prospetta alla sua volontà.

La “necessità concettuale” annullerebbe la sua libertà, così come capita quando si fanno operazioni aritmetiche o dimostrazioni geometriche: quando, infatti, si dice che due più due fa quattro, o, parlando del triangolo, si arriva a concludere, per dimostrazione, che i suoi angoli interni sono complementari, non si fa una libera scelta, ma un’operazione imposta dalla necessità logica.

Duns Scoto si oppone nettamente alla tesi tomista del primato dell’intelletto sulla volontà, sia nell’uomo che in Dio.

A Tommaso, che aveva detto che i precetti del decalogo mosaico sono stati comandati da Dio perché intrinsecamente buoni, egli obietta: “Se si dice che la volontà della creatura deve necessariamente conformarsi ad essi per essere retta, la volontà di Dio invece non occorre che voglia conformemente a tali verità: bensì, per il fatto che vuole conformemente ad esse, queste sono verità”.[8] Se per Tommaso il decalogo mosaico è voluto da Dio perché giusto (iussum perché iustum), per Duns Scoto, al contrario, non solo è giusto perché voluto da Dio (iustum perché iussum), ma Dio può modificare a suo arbitrio la propria legge e dispensare chi vuole dall’osservanza di essa, come in realtà ha fatto in alcuni casi biblici.

Tommaso e Duns Scoto rappresentano sulla scena filosofica medievale un antico e ricorrente conflitto di tesi sulla questione del primato tra l’intelletto e la volontà. Una questione aperta da Platone nell’Eutifrone.

In quel dialogo Socrate pone una domanda cruciale: ciò ch’è bene fare piace agli dei perché è bene di per sé, o è bene perché piace agli dei? E’ la volontà degli dei a determinare il bene o è il bene a determinare la volontà degli dei?[9]

Platone nell’Eutifrone lascia aperto il problema, ma noi sappiamo dalle altre sue opere ch’egli non ha dubbi: è il bene, ch’è tale di per sé, prima e indipendentemente dalla volontà degli dei, a determinare la loro volontà: agli dei piace ciò ch’è giusto.

Gli dei olimpici greci non hanno creato il mondo, se lo trovano già in essere e devono fare i conti con la sua realtà. La filosofia greca risente di questo peso determinante del reale anche sul divino.

Aristotele pensa che il mondo sia eterno. Al suo dio, chiuso nella sua perfezione, non attribuisce né volontà né potere, per lui intrinsecamente legati all’incompiutezza, al bisogno e all’imperfezione. Gli Stoici identificano la divinità con la realtà stessa. Per gli Epicurei gli dei se ne stanno ai margini dei mondi e sono modelli morali di vita ritirata e disimpegnata.

Platone, il più “attivista” (non a caso rivoluzionario in politica) tra i filosofi greci, attribuisce sì alla divinità una funzione decisiva nella nascita del mondo, ma anche per lui l’azione divina deve fare i conti con la realtà materiale e formale: il dio demiurgo del Timeo plasma una materia preesistente secondo modelli ideali preesistenti.

In Grecia, la volontà divina, quando c’è ed opera, deve fare i conti con il destino, la necessità, le idee e la materia.

E’ la conoscenza del Bene e dei modelli perfetti delle cose che orienta l’azione del demiurgo divino platonico. Quando si parla d’intellettualismo greco ci si riferisce a questo primato greco dell’intelletto e della conoscenza sulla volontà, umana e divina.

Con la confluenza della filosofia greca nel cristianesimo, però, l’altra risposta alternativa alla domanda dell’Eutifrone, quella che negli scritti di Platone non trova appigli, prende consistenza. Il cristianesimo, infatti, si presenta come religione dell’amore ed ha alle spalle la concezione biblica di Dio come volontà onnipotente che ha creato dal nulla tutte le cose. La volontà divina biblica e l’amore cristiano cambiano le cose.

Se Platone parla di Idee e fa del Bene l’idea suprema e l’oggetto più alto della conoscenza, la Bibbia parla di comandamenti e di tavole delle leggi divine; il primo comandamento del Vangelo è quello dell’amore; nella preghiera del “Padre nostro” si vuole che sia fatta la volontà di Dio; per il cristiano la fede e i sentimenti sono molto più importanti del sapere.

Se ad Atene prevalgono l’intelletto e la conoscenza, a Gerusalemme sembrano prevalere la volontà e l’amore, ma anche la paura dell’ira divina. Per questo si parla di intellettualismo greco e di volontarismo cristiano.

Espressioni di volontarismo netto, infatti, si trovano negli scritti dei primi Padri della Chiesa. Cipriano, vescovo e martire del III secolo, ad esempio, scrive: ”Se Dio comandasse ciò che secondo gli uomini è ingiusto, questo lo si creda giusto, e lo diventi; la sua volontà è la sola e la vera giustizia”. [10]

Qui l’arbitrio divino viene sottratto ad ogni criterio umano di giustizia.

Il cristianesimo, però, dopo un primo tempo di disinteresse alla filosofia, si apre al pensiero greco e se ne fa influenzare in profondità. Atene e Gerusalemme convergono in Roma e nelle grandi città imperiali. Avviene, così, che il volontarismo, di origine cristiana e biblica, e l’intellettualismo, di origine greca s’incontrino e diano luogo a soluzioni diverse, talvolta opposte.

In Agostino (354-430) l’intellettualismo greco è già ben presente e in certi momenti sembra prevalere sul volontarismo cristiano.

Nella lunga polemica contro i Manichei, Agostino, ormai convinto della compatibilità del logos greco con la fede cristiana, adotta concetti metafisici neoplatonici e la teoria stoico-ciceroniana del diritto naturale.

Nel Contra Faustum Agostino definisce la legge eterna ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans (= la ragione e/o la volontà divina, che impone di rispettare e proibisce di violare l’ordine naturale).[11]

Qui la ragione sta sullo stesso piano della volontà, in una formulazione che ricorda l’alternativa dell’Eutifrone, ma in forma molto attenuata.

Velnon è disgiuntiva come aut. La distinzione di ratio e voluntas non diventa alternativa. Intellettualismo e volontarismo sembrano in equilibrio.

Si tratta però di un equilibrio instabile. Infatti, la lunga e importante polemica contro Pelagio porta Agostino ad accentuare il volontarismo, a far valere, contro l’uso pelagiano del logos greco, la centralità della volontà divina, assoluta e libera anche dal logos.

Agostino non è un filosofo tutto dedito agli studi e alla riflessione, come forse vorrebbe essere. E’ un capo religioso, con funzioni anche politiche, di una importante comunità agitata da forti tensioni interne, in un mondo che sta crollando. In lui l’equilibrio tra intellettualismo e volontarismo si rompe in un senso o nell’altro, non solo per l’instabilità di un pensiero le cui matrici greche e cristiane sono difficili da tenere insieme senza contraddizioni, ma anche per il peso dei suoi compiti pastorali, delle sue polemiche dottrinarie su fronti diversi, anche opposti.[12]

Anche nel pensiero medievale, fortemente influenzato da Agostino, l’equilibrio tra intelletto e volontà continua a rompersi spesso in sensi opposti.

Anselmo d’Aosta, nel secolo XI, rivolgendosi a Dio scrive: ”Giusto è solamente ciò che vuoi; e non giusto ciò che non vuoi”.[13] E, poco dopo, Ugo di San Vittore, afferma che il giusto è tale perché è Dio a volerlo.[14]

L’intellettualismo prevale in Tommaso d’Aquino, ma, in Dante, generalmente tomista, prevale il volontarismo, di cui ci sono espressioni in più punti della sua opera e, in particolare, nei versi centrali del canto XIX del Paradiso, dedicato alla giustizia. In essi Dante condanna la pretesa umana di valutare la giustizia di Dio e afferma che è giusto ciò che è conforme alla volontà di Dio, anche quando contrasta con l’umana idea di giustizia: la mente umana non può penetrare nell’abisso della giustizia divina, così come l’occhio, che vede bene il fondo del mare quando è vicino alla riva, non può più vederlo in alto mare.

E’ però Duns Scoto, al tempo di Dante, il più autorevole tra i volontaristi. Non a caso Benedetto XVI lo indica come il padre del volontarismo medievale.

Nell’ormai millenaria battaglia tra intellettualismo e volontarismo Tommaso e Duns Scoto diventano i campioni degli opposti schieramenti, ma anche nei loro scritti si possono segnalare sconfinamenti di campo.

Tommaso, di fronte ai casi biblici che lo mettono in difficoltà, compromette il suo giusnaturalismo razionalistico[15] e scrive:“Il comando fatto ad Abramo di uccidere il figlio innocente non era contro la giustizia: poiché Dio è la causa della vita e della morte. Parimenti non era contro la giustizia l'ordine dato agli ebrei di prendere la roba degli egiziani: poiché tutte le cose appartengono a Dio, ed egli può darle a chi vuole. Finalmente non era contro la castità il comando dato ad Osea di prendere una sposa adultera: perché Dio è egli stesso l'ordinatore della generazione umana, e quindi il modo di usar le donne (modus mulieribus utendi) è precisamente quello che Dio ha stabilito. È chiaro, quindi, che nell'ubbidire a Dio, o nel volergli ubbidire, costoro non fecero peccato”. [16]

Parlando in termini calcistici, qui il campione dell’intellettualismo fa autogol.

Anche Duns Scoto, però, regala punti all’avversario: sostiene, infatti, che i comandamenti della prima delle due tavole mosaiche, quelli che ordinano l’obbedienza assoluta alla volontà divina, sono “principi pratici evidenti per se stessi”, quindi necessari come i principi della metafisica.

Duns Scoto non dice, come esigerebbe un volontarismo radicale, che bisogna obbedire ai comandamenti divini perché Dio lo vuole e basta.

Dice che bisogna obbedire a Dio qualsiasi cosa comandi, perché è bene amare ed obbedire a Dio. E’ l’evidenza che ci porta all’obbedienza assoluta a Dio. E’ l’intelletto che prevale ed orienta la volontà umana a fare incondizionatamente la volontà divina. Al momento di fare ancora un passo importante in senso volontaristico, Duns Scoto si ferma e passa al campo opposto.

Quel passo, però, viene fatto, qualche tempo dopo, da un altro importante campione del volontarismo medievale, Guglielmo di Occam (1290-1349).

Il volontarismo di Occam è netto, anche se usa un linguaggio stoico-ciceroniano e parla di diritto naturale, dettato dalla recta ratio. Infatti, avverte che la recta ratio è per lui lo strumento con cui Dio rende nota all’uomo la sua volontà. E scrive: “Le parole furto, adulterio, odio ecc. designano queste azioni non in senso assoluto, ma danno solo a conoscere che l’agente è obbligato per comandamento divino a fare il contrario … Se quelle azioni fossero imposte da Dio, l’agente non sarebbe tenuto a fare il contrario, ed allora non si chiamerebbero più furto, adulterio ecc.”[17] Dio può modificare in qualunque momento il diritto naturale e dispensarne chi e quando voglia.[18] Per lui – ecco il passo in più – anche i primi comandamenti del decalogo dipendono solo dalla volontà divina, che potrebbe anche cambiarli. Dio può anche cambiare il divieto dell’odio di Dio: se prescrivesse l’odio di Dio esso diventerebbe azione buona e meritevole.[19]

Occam s’inoltra, quindi, nel volontarismo più in profondità di Duns Scoto, ma, anche lui si ferma e distingue l’onnipotenza di Dio dal suo effettivo volere.

“Dio può fare certamente molte cose, ma non vuol farle”.[20]

“Dio vuole necessariamente la sua bontà”[21]; non può che agire bene.

Non ci sono leggi che s’impongano per la loro evidente bontà intrinseca alla volontà legislatrice divina, e, quindi, all’uomo; c’è, però, un legislatore divino assolutamente buono.

La bontà di Dio precede la sua volontà e la orienta.

Anche Occam, come Duns Scoto, trova così nella bontà divina un punto metafisico che rende ragionevole l’abbandono volontaristico all’insondabile volontà divina. La fede, infatti, non può fondarsi su se stessa. Chiede rassicurazioni: chi si consegna incondizionatamente ai comandi divini, anche contro l’umana ragionevolezza, vuole essere sicuro che Dio non faccia scherzi, che non voglia perderlo, che assomigli al Bene di Platone e non alla Volontà di Schopenhauer.

La fede vuole un appiglio sicuro: teme la disperazione, sua sorella gemella.

Paolo di Tarso ha indicato quell’appiglio nel fatto “storico”[22] della croce: Dio ha mandato suo figlio a morire sulla croce per noi perché ci ama e vuole salvarci. In Duns Scoto e in Occam, però, a fianco del fedele c’è il filosofo. E al filosofo non basta un fatto storico, contingente. L’idea platonica del Bene, penetrata col logos greco nella dottrina cristiana, lo guida nella ricerca di un appiglio metafisico.

Nel pensiero cristiano il logos di origine greca non può fare a meno della fede, né questa può imporsi interamente su quello: sono complementari, anche se in rapporti variabili e in parte opposti. Così, l’intellettualismo e il volontarismo non possono essere coerenti fino in fondo: Tommaso puntella il suo razionalismo, in difficoltà di fronte ai casi biblici di Dio che ordina azioni vietate dal decalogo, con il volontarismo; Duns Scoto ed Occam spingono il loro volontarismo fin sull’orlo dell’abisso, ma proprio lì trovano un appiglio in un principio metafisico platonico. L’estrema uscita di sicurezza.

Il volontarismo tardo-medievale, scopre, però, anche un’altra uscita di sicurezza, ancor più sorprendente. E’ quella che apre Gregorio da Rimini (1300-1358), occamista,  eletto ministro generale dell’ordine degli agostiniani nel 1357. Eccola: “Se per impossibile ipotesi la ragione divina o Dio non esistessero, o tale ragione non fosse retta, pure se qualcuno agisse contro la retta ragione degli angeli o dell’uomo o un’altra se ce ne fosse, peccherebbe. E se addirittura non esistesse nessuna ragione retta, peccherebbe ancora chi agisse contro il dettato di una qualunque ragione retta, se ce ne fosse una”.[23]

Imperativo categorico di una ragione ipotetica!

Razionalismo estremo in un teologo che ha spinto il suo volontarismo fino a definire la legge eterna “null’altro che la volontà di Dio”[24] e che si è guadagnato l’epiteto di tortor parvulorum per aver sostenuto che i bambini morti senza battesimo sono dannati all’inferno.

Dal più profondo volontarismo medievale emerge l’idea dell’autonomia razionale umana, dell’indipendenza dell’etica non solo dalla volontà divina, ma anche dall’esistenza stessa di Dio. E’ il punto d’arrivo di un travagliato viaggio attraverso molti secoli del logos greco che si è insinuato nel pensiero cristiano dei Padri della Chiesa, ha attraversato il pensiero medievale, trovando con la fede variabili rapporti di compromesso, fino a riemergere nella sua autonomia completa.

Ripresa agli inizi del Seicento da Ugo Grozio, questa idea diventa il punto di partenza del moderno pensiero laico.


[1] Attenzione! Qui il termine significa l’opposto simmetrico del volontarismo, ma, in altri contesti, può indicare il primato dell’intelletto su altre facoltà conoscitive: per un hegeliano, ad esempio, c’è intellettualismo quando l’intelletto “astratto”, necessario in una fase del percorso conoscitivo, non cede poi il passo alla ragione dialettica; in Bergson c’è, invece, intellettualismo quando la ragione scientifica non cede il passo all’intuizione metafisica. Per indicare l’opposto del volontarismo si può usare anche e con meno equivoci il termine razionalismo.

[2] Op. ox.I, d. 39, q. 5, n. 15

[3] Op. ox. II, d. 25, q. 1, n. 22

[4] Sulla concezione morale socratica si può vedere il n. 1 dei “Quaderni …”, Viaggio nella filosofia. La filosofia greca, Torino 2009, pagg. 44-46. 

[5] Op. ox. I, d. 1, q. 4, n. 16

[6] Op. ox.I, d. 44, q. 1, n. 2

[7] Op. ox. I, d. 44, q. un., n.2

[8] Op. ox. III, d. 37, q. unica, 4,

[9] Su questa alternativa del dialogo platonico si veda il “Quaderno” 1 Viaggio nella filosofia. La filosofia greca, Torino 2009, pagg. 77-78.

[10] De singularitate clericorum (P. L., IV, 847-848)

[11] XXII, 27

[12] Su queste posizioni di Agostino si veda il “Quaderno” n.3 Viaggio nella filosofia. Da Plotino a Tommaso d’Aquino, Torino 2010, pagg. 71-74

[13] Proslogion, XI

[14] De sacramentis christianae fidei, I, pars IV, 1

[15] Schematicamente per “giusnaturalismo razionalistico” intendo la teoria, di origine stoica e diffusa con successo da Cicerone, secondo la quale la ragione con le sole sue forze può conoscere la giustizia “naturale”, ciò ch’è giusto in sé. Per un’esposizione del giusnaturalismo tomista rinvio al n. 3 dei “Quaderni …” Viaggio nella filosofia. Da Plotino a Tommaso d’Aquino, Torino 2010, pagg. 117-22

[16] Summa theologiae, II, II, q. 104, a. 4, soluzione delle difficoltà 2.

[17] Sent., II. qu. 19

[18] Dialogus, pars III, tract. I, 1. II, cap. 24

[19] Sent., IV. Qu. 14 D

[20] Quodlibeta, VI, q. 1

[21] Sent., I, d. 10, qu. 2 L

[22] Ho messo le virgolette perché si può pensare che il divino intervenga nella storia umana, ma non si possono documentare storicamente gli interventi divini nella storia.

[23] In II Sententiarum, d. 34, qu. 1, a. 2

[24] In I Sententiarum, d. 43, qu. 1, a. 2


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2010-11 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

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L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018